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Dall’addizionale Irpef alla sovraimposta: cosa cambia per i comuni

Il pacchetto di riforme fiscali sostituisce l’addizionale comunale e regionale all’Irpef con una sovraimposta. Nel complesso, le risorse per gli enti dovrebbero essere le stesse. Ma spazi di manovra e gettiti dei singoli comuni potrebbero cambiare.

Risorse per i comuni nella legge delega

Il disegno di legge per la revisione del sistema fiscale approvato dal Consiglio dei ministri nell’ottobre scorso, all’articolo 7, delega il governo a introdurre sovraimposte regionali e comunali all’Irpef (ovvero aliquote locali che si applicano al gettito del tributo erariale) in sostituzione delle attuali addizionali (ovvero aliquote locali da applicarsi alla base imponibile erariale).

A differenza dell’attuale sistema impositivo, con la sovraimposta non è possibile introdurre soglie di esenzione per particolari categorie di contribuenti o aliquote differenziate, riportando interamente nelle mani del governo le scelte sul grado di progressività dell’Irpef. Il Ddl stabilisce, inoltre, che l’aliquota di base della sovraimposta possa essere manovrata dalle regioni e dai comuni entro limiti prefissati. Per altri versi, nonostante l’ambiguità di un testo per ora molto generale, la riforma sembra voler mantenere un assetto il più possibile aderente al precedente, garantendo al comparto nel suo complesso e a ciascun comune sia lo stesso gettito riscosso con l’addizionale, sia analoghi spazi di manovra.

Seppur in un’ottica di tutela dei gettiti preesistenti, la riforma ha implicazioni importanti per gli spazi di autonomia fiscale degli enti. Il passaggio alla sovraimposta comporta che la nuova imposta, a parità di gettito complessivo, sia proporzionalmente più elevata di quella precedente nei comuni più ricchi, rispetto a quelli con livelli di reddito medio più bassi. Per mantenere il gettito invariato per singolo comune, le aliquote dei primi saranno relativamente più basse dei secondi, con conseguenze sia sui margini di manovra, sia sulla distribuzione del carico tributario potenziale sul territorio.

Il passaggio alla sovraimposta

L’utilizzo degli spazi di manovra concessi sull’addizionale all’Irpef è stato, finora, piuttosto diffuso e ha riguardato indifferentemente le grandi città sia del Nord sia del Sud e i piccoli centri, tanto che l’aliquota media dell’addizionale è pari a 0,65 per cento. Sono oltre duemila i comuni che hanno applicato una aliquota vicina al massimo (dipartimento delle Finanze, dichiarazioni Irpef 2020, anno di imposta 2019). 

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Calcolata sulla base del rapporto tra il gettito complessivo dell’addizionale comunale all’Irpef e il gettito Irpef, l’aliquota base della sovraimposta che soddisfa l’invarianza di gettito nazionale è pari a 3,1 per cento (tabella 1). L’applicazione di questa aliquota uniformemente a tutti i comuni italiani consentirebbe al gettito nel suo complesso di eguagliare l’importo dell’addizionale comunale all’Irpef, ma non garantirebbe a tutti i comuni l’ammontare di risorse attuali.

Per consentire ai singoli enti di mantenere invariato il proprio gettito, sarà necessario concedere spazi di manovra entro un range predefinito: da zero – in modo da consentire agli enti che oggi non ricorrono all’addizionale di non applicare la sovraimposta – fino al massimo di 6,4 per cento e cioè fino al valore che permette anche al comune con il rapporto più alto tra addizionale e gettito Irpef di ottenere in futuro lo stesso gettito attuale. L’aliquota massima riguarda gli enti che hanno la combinazione tra addizionale attuale più elevata e reddito Irpef più basso.

Se i comuni più ricchi potranno, in futuro, essere avvantaggiati da aliquote proporzionalmente inferiori, quelli più poveri, per riuscire a recuperare il gettito precedente, dovranno utilizzare presumibilmente aliquote vicine ai limiti massimi.

La parità di gettito per ogni comune, nuove aliquote e spazi di manovra

Per costruzione, l’ipotesi adottata in questa analisi consente a tutti gli enti di mantenere invariato il gettito attuale dell’addizionale. Tuttavia, una importante implicazione della trasformazione dell’addizionale in sovraimposta riguarda gli spazi di manovra disponibili per gli enti. Infatti, a comuni come Venezia, Verona, Genova o Torino, ma anche a città del Sud come Palermo e Napoli, teoricamente potrebbe essere concessa la possibilità di raddoppiare il carico fiscale sui propri contribuenti, portando l’aliquota fino al massimo del 6,4 per cento. In particolare, se gli oltre duemila enti che hanno utilizzato fino al limite massimo gli spazi di manovra sull’addizionale fossero interessati a incrementare ulteriormente il proprio gettito, le entrate aumenterebbero di quasi 2 miliardi di euro, prevalentemente concentrate nelle regioni del Nord (figura1).

La ricerca di un punto di equilibrio

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In alternativa, si potrà scegliere di limitare il tetto di manovrabilità della sovraimposta, a una aliquota massima inferiore a quella che assicura parità di gettito a tutti i comuni. In questo caso, ad alcuni di loro, soprattutto collocati nel Meridione, non saranno garantiti i livelli precedenti di gettito precedente. Ad esempio, con una aliquota massima del 5 per cento, 128 comuni penalizzati dovrebbero rinunciare a circa 600 milioni, ma gli spazi per un aumento della pressione fiscale verrebbero ridotti a meno di un miliardo.

In definitiva, dunque, nell’applicare la riforma, sarà da un lato necessario tener conto della maggiore disparità di gettito, sulla base della diversa ricchezza dei territori e, dall’altro, del rischio di maggiore pressione fiscale per i margini di azione sulle aliquote.

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Il Punto

  1. Stefano La Porta

    Due per cento
     
    Si parla di questi tempi di incrementare le spese militari al 2% del Pil per rispettare precedenti accordi e per far fronte ad una crisi politica internazionale da affrontare con più forza.
     
    Senza entrare nel merito se è giusto o meno produrre più armi, proviamo a fare qualche esempio per capire cosa è il due per cento. Con il Pil nazionale vicino ai 1800 miliardi di euro, il 2% vale 36 miliardi di euro. Rispetto agli stanziamenti attuali, raggiungere il 2% del Pil vuol dire incrementare le spese di ulteriori 13 miliardi di euro.
     
    E’ una cifra importante. Considerando che non si può stampare moneta e creare 13 miliardi di euro dal nulla, ci sono solo due possibilità: creare nuove risorse attraverso l’indebitamento o la tassazione, o spostare risorse già esistenti da un settore ad un altro.
    Nel primo caso lo Stato può emettere titoli di debito impegnandosi a pagare un interesse periodico ai possessori. In periodi di tassi bassi sembrerebbe un “affare” ma la manovra alzerebbe il rapporto debito/Pil, fenomeno visto con il fumo negli occhi da molti economisti e dall’Europa in primis. Oppure si può coprire la maggior spesa attraverso la tassazione, ossia prendendo soldi ai cittadini, ma non a prestito, prendendoli e basta. Tredici miliardi di euro rapportati a 60 milioni di italiani fa mediamente 216 euro a testa, 600-800 a famiglia, per sempre.
     
    La via più semplice, se così si può dire, è spostare risorse da altri settori. Meno soldi all’istruzione, meno alla Sanità (quindi meno posti letto), meno alla manutenzione delle infrastrutture, meno alla ricerca e così via. Dovremmo rinunciare a un po’ di cose.
     
    Ma quanto pesano 13 miliardi nell’economia dei vari settori? Da un’analisi pubblicata sul Sole 24 Ore del 27 novembre 2019, per ristrutturare i 40.000 edifici scolastici in Italia occorrono 200 miliardi di euro, 5 milioni per ogni scuola. Per un confronto più completo pensiamo che costruire un ospedale moderno comprese le attrezzature può costare 300 milioni di euro, un treno regionale circa 6-8 milioni, un impianto fotovoltaico o uno eolico (di questi tempi perché no?) circa 1 milione di euro ogni MW.
     
    Per fare un paragone, un carro armato costa dai 5 ai 10 milioni di euro, un aereo F35 intorno ai 100 milioni.
     
    Di conseguenza, destinare alla Difesa 13 miliardi presi da altri settori vuol dire poter acquistare 130 aerei nuovi ma rinunciare, nel contempo, alla ristrutturazione di 2.600 scuole o a 43 nuovi ospedali o a ristrutturane più o meno il doppio. Insomma, la scelta è tra un carroarmato o un treno regionale, tra un F35 e una ventina di scuole o tra 3 F35 e un ospedale nuovo. Siccome non ci sono – pare – soldi per tutto, a cosa preferiamo rinunciare?  
    Ogni risposta è legittima, basta decidere con consapevolezza quale via si vuole prendere.
     

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