In un contesto finanziario e geopolitico sempre più incerto, con venti di guerra e spinte inflazionistiche generate dalla ripresa post pandemica, l’azione delle banche centrali diventa più difficile da prevedere. Una panoramica della situazione attuale e delle prospettive future in Usa, Uk ed Eurozona.
Nell’arco di una settimana, a cavallo fra la fine di gennaio e l’inizio di febbraio, si sono riuniti gli organi decisionali delle banche centrali dei tre più importanti paesi industriali. Le danze sono state aperte dalla Fed il 26 gennaio. Il 3 febbraio si è mossa la Bank of England che ha comunicato ai mercati le sue decisioni alle 12.30 (ora di Londra) seguita dalla Banca centrale europea alle 13.45 (ora di Francoforte).
È difficile esprimere giudizi sui comportamenti delle banche centrali in un periodo, come l’attuale, caratterizzato da forti turbolenze. Nonostante questo, cerchiamo di fornire un quadro usando un approccio descrittivo.
La situazione delle tre banche centrali prima del 3 febbraio
Le banche centrali qui considerate operano con schemi che, pur nella differenza dei contesti istituzionali, sono abbastanza simili. Tutte e tre le istituzioni prendono decisioni attraverso organi collegiali, hanno uno (o più) obiettivi e usano per conseguirli una serie di strumenti. Va ricordato nello specifico che l’obiettivo preminente per tutte e tre le istituzioni è diventato di recente quello di raggiungere un tasso di inflazione del 2 per cento nel medio periodo.
Guardando agli strumenti, le banche centrali, da quando vengono utilizzate le politiche monetarie non convenzionali, agiscono prevalentemente controllando le dimensioni del loro bilancio, influenzando anche i livelli dei tassi a breve sotto il loro diretto controllo (tassi di policy) in un contesto che è sempre più dominato dagli effetti che le dichiarazioni sui loro comportamenti futuri, espresse in particolare nelle conferenze stampa che si tengono dopo i meeting, hanno sulla formazione delle aspettative dei mercati.
La Fed presenta un totale di bilancio che è tuttora in aumento e un tasso di policy (tasso sui federal funds) inchiodato ormai da molto tempo nella banda di oscillazione compresa fra 0 e 0,25 per cento. Leggermente diversa la situazione della Bank of England che già nel meeting del 16 dicembre 2021 aveva deciso di aumentare leggermente il suo tasso di policy (bank rate) portandolo da 0,10 a 0,25 per cento.
Fin qui abbiamo considerato i dati effettivi. Il quadro appare ben diverso se si considerano le aspettative. Sia negli Stati Uniti che nel Regno Unito, ben prima del 3 febbraio, di fronte a forti impennate del tasso di inflazione, si era diffusa la sensazione che le tensioni inflazionistiche non fossero temporanee ma che stessero per radicarsi nel sistema. La Fed e la Bank of England avevano cominciato a dare indicazioni che una stretta monetaria sarebbe stata imminente iniziando a spingere verso l’alto i tassi di interesse attesi per il 2022. La spinta si è accentuata quando, il 26 gennaio, l’organo che decide la politica monetaria degli Stati Uniti (Fomc = Federal Open Market Committee) ha inserito nel suo comunicato la frase “il Comitato pensa che sarà presto appropriato un aumento del tasso target sui federal funds”. La frase, seguita dalle dichiarazioni del Presidente della Fed Jerome Powell nella conferenza stampa tenuta dopo il meeting, ha rafforzato la convinzione che i tassi sarebbero aumentati per importi considerevoli già a partire dal mese di marzo del 2022 e che gli aumenti sarebbero continuati nei mesi successivi.
Per quanto riguarda la Bce, ci limitiamo qui a ricordare che nel Consiglio direttivo del 16 dicembre 2021 era riuscita a convincere i mercati che le tensioni inflazionistiche all’orizzonte avevano natura temporanea. Aveva inoltre annunciato un programma di graduale riduzione del suo bilancio e, soprattutto, aveva dato ampie assicurazioni sul fatto che nel corso del 2022 non avrebbe rivisto verso l’alto i suoi tassi di policy (nell’Eurozona, il principale tasso di policy è quello sulle operazioni di rifinanziamento principali).
La giornata del 3 febbraio
Il compito che la Bce doveva affrontare il 3 febbraio nel contesto delle generali turbolenze che avevano caratterizzato i giorni precedenti era già di per sé piuttosto arduo. La situazione è diventata ancora più complessa quando, sul finire della mattinata, la Bank of England ha annunciato un aumento del bank rate dal 2,50 al 5 per cento, precisando anche che l’organo collegiale che decide la politica monetaria del Regno Unito (Monetary Policy Committee, Mpc) era inizialmente orientato per un aumento più consistente e aveva alla fine deciso a stretta maggioranza l’aumento al 5%. Vale la pena di ricordare che ben quattro dei nove membri dell’Mpc si erano espressi per un aumento che avrebbe portato il bank rate al 5,75 per cento.
La conferenza stampa della Presidente Lagarde è iniziata in questo contesto. Nella parte iniziale della sua esposizione, la Presidente ha precisato che la situazione dell’Eurozona era molto diversa da quella degli Stati Uniti, che presentano un tasso di inflazione sensibilmente più alto (7,50 per cento contro 5,10 per cento nell’Eurozona) e un’economia in maggiore crescita. La situazione europea consentiva, a giudizio della Presidente, di confermare, con una serie di cautele, lo scenario formulato nel Consiglio direttivo precedente per i tassi di interesse, che prevedeva una loro sostanziale stabilità per tutto il 2022.
Le domande dei giornalisti hanno però messo in dubbio questa ipotesi e, di fronte ad alcune esitazioni nelle repliche di Christine Lagarde, le borse europee hanno reagito puntando immediatamente verso il basso e i tassi di interesse attesi si sono mossi con altrettanta rapidità nella direzione opposta, spingendo verso l’alto, come insegna la teoria della struttura per scadenze, anche i livelli dei tassi a lunga.
I giorni successivi al meeting del 3 febbraio
Con una massiccia discesa in campo nei giorni successivi, a partire dall’audizione di Lagarde al Parlamento europeo il 6 febbraio la Bce ha cercato di rettificare il messaggio recepito dai mercati.
Mentre la Bce cercava di rettificare il tiro, si sono espressi anche i vertici di diverse banche centrali nazionali appartenenti all’Eurosistema con dichiarazioni sul futuro dei tassi di interesse nell’Eurozona non in linea con la visione ufficiale della Bce, contribuendo ad accrescere la confusione in un momento già di per sé molto incerto per l’aggravarsi delle tensioni geopolitiche.
A questo punto, non resta che attendere la prossima riunione del Consiglio direttivo, prevista per il 10 marzo, con la speranza che, sulla base dei dati che nel frattempo si renderanno disponibili, vengano meglio definiti gli orientamenti che la Bce intende perseguire nel corso del 2022, anche alla luce della sfavorevole evoluzione del quadro geopolitico.
I problemi posti dall’evoluzione in atto sui mercati finanziari
Una cosa si può dire con certezza: i tassi di interesse, rimasti fermi su livelli molto bassi, hanno ormai ripreso a crescere. Il fenomeno è più intenso nei paesi anglosassoni e per ora riguarda un po’ meno i paesi dell’Eurozona.
In questo articolo ci siamo imposti di guardare pochi dati. Ne prendiamo in considerazione solo uno: il valore del rendimento del Btp italiano a 10 anni, che in questi ultimi giorni ha raggiunto quasi il 2 per cento per la prima volta dal maggio 2020.
Per un paese con un debito pubblico elevato come l’Italia scatta un campanello d’allarme che deve indurre all’azione. Lungo quali linee? Non le possiamo esaminare in questa occasione, ma un primo passo potrebbe essere la creazione di un’Agenzia europea del debito (discussa su questo sito qui e qui).
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