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Per lavoratori e robot un futuro di convivenza

Le conseguenze dell’utilizzo dei robot sul mercato del lavoro si comprendono considerando la prospettiva aggregata, a livello d’impresa e a livello di lavoratore. Ne esce un quadro più ottimistico, dove però contano molto le competenze dei lavoratori.

Il caso dei robot industriali

“Siamo afflitti da una nuova malattia di cui alcuni lettori potrebbero non conoscere ancora il nome, ma di cui si parlerà molto negli anni a venire: la disoccupazione tecnologica”. Così John M. Keynes definì la situazione economica del Regno Unito nel 1930. Quasi un secolo dopo, il dibattito sull’impatto delle nuove tecnologie sul mercato del lavoro è più acceso che mai.

I robot industriali sono tra le tecnologie che hanno rivoluzionato i processi produttivi negli ultimi decenni. L’International Federation of Robotics (Ifr) li definisce come macchine programmabili per lo svolgimento autonomo di attività manuali (come assemblaggio, movimentazione dei materiali, imballaggio e saldatura). La stessa Ifr stima che lo stock globale di robot sia più che quadruplicato negli ultimi trent’anni, raggiungendo quasi 3 milioni di unità nel 2021. La crescita è legata principalmente all’industria automobilistica, elettronica e metallurgica dei paesi industrializzati, quali Corea del Sud, Giappone, Germania, Italia e Stati Uniti (Figura 1).

Figura 1 – Stock di robot diviso per migliaia di persone attive nella forza lavoro in età compresa tra 18 e 65 anni (2017)

Fonte: International Federation of Robotics.

Per comprendere quali conseguenze comporta l’utilizzo dei robot sul mercato del lavoro è necessario considerare tre prospettive distinte: la prospettiva aggregata, la prospettiva a livello d’impresa e quella a livello di lavoratore.

La prospettiva aggregata

Dal punto di vista teorico, l’utilizzo delle tecnologie di automazione ha un effetto ambiguo sull’occupazione. Sono in grado di eseguire mansioni precedentemente svolte dalla forza lavoro umana, rimpiazzando una parte dei lavoratori e riducendo i salari. Una analisi su dati americani del 2013 riporta che circa il 47 per cento dei lavoratori sarebbe a rischio automazione nei prossimi anni. Tuttavia, il progresso tecnologico porta con sé anche elementi positivi, come l’aumento della produttività nei processi esistenti e la creazione di nuovi lavori.

Diversi studi empirici hanno analizzato gli effetti dell’utilizzo di robot industriali sul mercato del lavoro. Negli Stati Uniti, si stima che l’installazione di un robot spiazzi in media 3 lavoratori, mentre in Europa l’effetto negativo è più contenuto, anche se la quota dei lavoratori poco qualificati nel settore manifatturiero è diminuita (si vedano gli studi condotti in Germania, Italia e Francia). Questi risultati sono generalmente ottenuti sfruttando le differenze nell’utilizzo di robot tra le diverse industrie a livello aggregato. Pertanto, l’approccio non dà indicazioni sul meccanismo che conduce a questi risultati, rendendo necessaria un’analisi focalizzata sulle dinamiche a livello di impresa e di lavoratore.

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La prospettiva a livello d’impresa

Secondo l’approccio a livello di impresa, l’automazione incrementa l’occupazione delle aziende che la introducono attraverso un aumento della produttività e delle quote di mercato. La crescente competitività di queste imprese, però, si ripercuote negativamente su quelle che non automatizzano, riducendone la domanda di lavoro.

Studi su dati francesi e spagnoli confermano che le aziende utilizzatrici di robot industriali nei propri processi produttivi creano nuovi posti di lavoro. Si tratta spesso di grandi imprese, già molto produttive, che possono investire ulteriormente in capitale fisico. Tuttavia, come documentato nel paragrafo precedente, non è detto che in zone esposte all’automazione l’occupazione aggregata aumenti. Infatti, le imprese che per scelta o per necessità non fanno uso di queste tecnologie (generalmente piccole e medie imprese) spesso non possono far fronte alla crescente concorrenza e sono costrette a ridurre la loro domanda di lavoro. La dinamica ha contribuito ad aumentare la concentrazione delle quote di mercato su un piccolo numero di grandi compagnie, favorendo la nascita delle cosiddette superstar firms.

La prospettiva a livello di lavoratore

Non tutti i lavoratori sono esposti allo stesso modo alle nuove tecnologie. La letteratura economica ha inizialmente considerato il progresso tecnologico come skill biased, ossia correlato positivamente con la domanda di lavoratori qualificati (complementari alle nuove tecnologie) e negativamente con quella dei meno qualificati (sostituti alle nuove tecnologie). Nella seconda metà del ventesimo secolo, l’arrivo dei personal computer ha invece alimentato una visione diversa, secondo la quale il cambiamento tecnologico genera una crescente polarizzazione del mercato del lavoro. In questo scenario, la domanda di lavoro nelle occupazioni difficilmente automatizzabili (sia a bassa che ad alta qualificazione) aumenterebbe ai danni di quella dei lavoratori a media qualificazione che svolgono mansioni routinarie.

Il progresso nella robotica sta spostando il consenso degli economisti verso una forma ibrida delle due teorie, in cui le nuove tecnologie sostituiscono i lavoratori con una qualifica medio-bassa e aumentano la domanda di lavoratori tecnici qualificati, come ingegneri e ricercatori (si vedano gli studi condotti in Danimarca e Francia). Altri studi sostengono che, nonostante queste tecnologie possano sostituire alcuni compiti svolti dai lavoratori, non sono in grado di rimpiazzare intere occupazioni. Tenendo conto di questo elemento, solo il 9 per cento dei lavori americani è considerato ad alto rischio di automazione, un numero decisamente inferiore alle previsioni precedenti.

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Il futuro

Dall’analisi emerge che l’effetto dei robot sul mercato del lavoro è quantomeno ambiguo, con lavoratori e imprese che ne beneficiano e altri che, invece, ne subiscono le conseguenze. Anche se lo scenario lascia ampio spazio a nuovi approfondimenti, è evidente che l’era delle narrazioni catastrofiche sull’automazione sembra essere finita.

Nella sua lezione a Madrid, da cui è tratta la citazione all’inizio dell’articolo, Keynes considerava la disoccupazione tecnologica come una fase temporanea. A sostegno di questa tesi, prima dell’inizio della pandemia, i tassi di occupazione nelle economie avanzate, dove l’uso dei robot è stato particolarmente intenso, erano ai massimi storici. A livello mondiale non ci sono tracce particolari di disoccupazione strutturale dovuta alle tecnologie di automazione. Al contrario, con 30 milioni di posizioni vacanti nei paesi dell’Ocse, la domanda di lavoro è più alta che mai. Spesso, però, le imprese cercano lavoratori maggiormente qualificati, rendendo necessario l’adeguamento delle competenze della forza lavoro. L’aggiustamento è in parte già in corso. Infatti, nelle aree esposte all’automazione, i giovani si iscrivono più di frequente all’università e scelgono percorsi di studio complementari alle nuove tecnologie (come ingegneria e scienze informatiche). L’ulteriore investimento in capitale umano permetterà a questi lavoratori di essere competitivi sul mercato del lavoro anche in futuro.

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  1. Giuliano

    La definizione di robot è alquanto restrittiva perché ora vi sono macchine che interagendo con il cliente fanno scomparire posti di lavoro come i bancomat (nel mio paese non c’è più una banca che abbi la cassa aperta al pomeriggio) o le casse automatiche al supermercato o le biglietterie automatiche nelle stazioni ferroviarie.
    Inoltre gli studi vanno ampliati anche ai software, ai server, ai data center, all’office automation: restando in ambito italiano basti vedere la diminuzione di personale nelle ferrovie perché ad es. non serve più il doppio macchinista, o nella PA dove i colletti bianchi sono drasticamente diminuiti (in base ai dati Aran i settori che hanno perso più dipendenti sono le funzioni centrali cioè ministeri, fisco ecc, e le funzioni locali cioè i comuni ecc). E penso che il processo continui ancor di più ad es. basti vedere la discussione dell’uso dell’intelligenza artificiale nel fisco per cui il computer formulerà direttamente gli accertamenti oppure nei tribunali non ci sarà più bisogno di tenere udienze ma videochiamate registrate e tutti, giudici, avvocati e testimoni potranno agire da casa mentre non servirà più personale impiegatizio per gestire le aule, le carte e gli archivi.
    Infine vi sono politiche di prezzo che spingono all’automazione come lo spread fra il benzina self service e quella servita.

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