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Come dare dignità al lavoro nell’economia globale

La trasformazione progressiva dei mercati del lavoro e del prodotto da locali a globali ha avuto effetti molto diversi lungo la “scala delle competenze”. La risposta è creare le condizioni per lo sviluppo della società civile e del mondo delle imprese.

Il fenomeno

Le patologie del mercato del lavoro italiano sono tante e non si limitano al fenomeno della disoccupazione. Ci sono i lavoratori poveri, che un tempo erano un ossimoro perché avere un posto di lavoro equivaleva a disporre delle risorse economiche necessarie per sfuggire alla trappola della povertà. Abbiamo un numero molto elevato di part time involontari, ovvero persone che fanno lavoretti e lavorano molto meno di quanto vorrebbero. Ci sono gli scoraggiati che risultato statisticamente come non partecipanti al mercato del lavoro e sfuggono dunque alla stima ufficiale della disoccupazione.

Ma il fenomeno per certi versi più paradossale è quello del mismatch, ovvero della contemporanea presenza di posti di lavoro vacanti (se ne stimano varie centinaia di migliaia a seconda delle diverse metodologie utilizzate) e di giovani che non lavorano né studiano, in Italia quasi 3 milioni, la quota più elevata sul totale della popolazione di quella fascia di età tra i paesi Ue.

Le cause

Per capire come curare questi mali bisogna risalire alla loro causa. Un meccanismo certamente in azione è quello della race-to-the-bottom nell’economia globalmente integrata, per il quale le aziende cercano di localizzare la produzione laddove possono minimizzare i costi di produzione (lavoro, ambiente, fisco) per realizzare il massimo profitto.

La trasformazione progressiva dei mercati del lavoro e del prodotto da locali a mondiali nella globalizzazione ha prodotto effetti molto differenziati lungo la “scala delle competenze”. Le persone con alte competenze (fino ad arrivare alle superstar) hanno tratto beneficio dall’allargamento del mercato del prodotto e, essendo scarsamente sostituibili, hanno visto aumentare le loro remunerazioni. Al contrario, le persone con basse competenze e altamente sindacalizzate dei paesi ad alto reddito hanno perso potere contrattuale nella concorrenza, diretta o indiretta, con un “esercito di riserva” di lavoratori a bassa qualifica provenienti da paesi poveri con salari di riserva molto più bassi. I lavoratori a bassa qualifica sono altamente sostituibili e dunque per definizione (nonostante la presenza dei sindacati nazionali) hanno meno potere contrattuale in un mondo dove le aziende hanno a disposizione l’opzione della delocalizzazione. La storia della Gnk di Campi Bisenzio, un’azienda in utile che chiude lo stabilimento in Italia licenziando più di 300 dipendenti per riaprire in Slovacchia dove il costo del lavoro è più basso, è l’esempio che spiega meglio queste dinamiche di fondo.

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È evidente, pertanto, che la race-to-the-bottom è un meccanismo che genera e amplifica diseguaglianze di reddito per qualifica, che a loro volta aumentano i divari interni nello stesso momento in cui la delocalizzazione riduce invece quelli tra paesi ad alto e basso reddito, per effetto della convergenza condizionata e dell’aumento della produzione e della domanda di lavoro laddove si delocalizza.

Le soluzioni

La risposta ai problemi che tutto questo comporta nel nostro mercato del lavoro è di due tipi: personale e politica. Quella personale, non dobbiamo stancarci di ripeterlo ai nostri giovani, è risalire la scala delle competenze per evitare di essere risucchiati nella corsa al ribasso del lavoro a bassa qualifica. Da questo punto di vista, è fondamentale, nel periodo della scuola, l’emersione di un desiderio, un pallino, una vocazione che crei nei ragazzi la volontà per affrontare la fatica di risalire la scala del talento.

La risposta politica si gioca su diversi piani, ma deve partire dal presupposto che difendere la dignità del lavoro in un solo paese quando le aziende hanno l’opportunità di delocalizzare può paradossalmente aumentare il vantaggio della delocalizzazione, con effetti indesiderati. È più facile intervenire con misure dirette di tutela e garanzie in settori meno esposti alla concorrenza internazionale e alla minaccia di delocalizzazione (ad esempio i riders e la logistica) stabilendo che chi vuol ricorrervi nell’Unione europea deve rispettare alcune regole.

In un sistema economico dove vige la centralità dei consumi il voto col portafoglio privato e pubblico può dare un contributo importante. Le scelte di consumo possono e dovrebbero essere orientate, a parità di altri fattori, verso imprese a maggiore qualità e dignità di lavoro. Il settore pubblico – i cui acquisti rappresentano circa il 20 per cento dei consumi – dovrebbe dare l’esempio estendendo l’utilizzo dei criteri minimi sociali e ambientali a tutti i settori, fino a muovere verso una concezione di “appalto generativo” dove la scelta massimizza gli effetti sociali e ambientali.

Con la strategia FitFor55 l’Unione europea ha introdotto il concetto importantissimo del Border Adjustment Mechanism per prevenire forme di dumping di imprese che delocalizzano per andare a produrre in paesi che hanno standard ambientali al di sotto dei nostri, esportando poi a prezzi più bassi nell’Ue. Il meccanismo, in via di studio, dovrebbe prevedere una tassa d’ingresso che dovrebbe colmare il gap ed evitare che l’area mondiale che vuole essere leader in materia di sostenibilità sociale e ambientale ne debba paradossalmente pagare le conseguenze. La destinazione di parte delle risorse raccolte a fondi per finanziare investimenti nella transizione nei paesi terzi dovrebbe vincere le loro opposizioni e resistenze alla nuova politica comunitaria. È assolutamente necessario estendere questo approccio alla dimensione del mondo del lavoro, anche se è tecnicamente più complesso rispetto al caso della sostenibilità ambientale, dove indicatori e parametri (emissioni di CO2, water footprint, qualità dell’aria) sono comuni. Utilizzando le parità di potere d’acquisto e tenendo conto dei diversi contesti nazionali, sarebbe però possibile identificare i parametri da applicare a ciascun paese.

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In un mondo dove la creazione e distruzione di posti di lavoro dettata dall’ascesa e dal declino di interi settori è sempre più frequente, la connessione tra formazione e lavoro è altresì fondamentale. Si pensi all’esempio della messa al bando dei motori a scoppio prevista entro il prossimo decennio che farà perdere decine di migliaia di posti di lavoro nell’indotto della componentistica creandone altrettanti nel settore della transizione ecologica e dell’auto elettrica. Formazione permanente, diritto alla formazione dei lavoratori e percorsi di qualificazione e riqualificazione agili e flessibili diventano fondamentali, assieme allo sviluppo degli istituti tecnici superiori – il terziario professionale non universitario – dove la collaborazione tra scuola e impresa crea un canale diretto tra i due mondi.

La logica dell’economia civile suggerisce che l’approccio da seguire su queste partite non è mai quello di sforzarsi di risolvere tutto con la mano pubblica, quanto di creare le condizioni per mettere in moto le ricchissime energie della società civile e del mondo delle imprese. Guardando a quelle buone pratiche ed eccellenze che già oggi, sul campo, fanno un lavoro egregio nell’affrontare il problema della formazione-lavoro sui nostri territori.

Leonardo Becchetti è intervenuto al Festival Internazionale dell’Economia di Torino in un incontro intitolato “Lavoro è dignita e libertà” il 3 giugno alle 14.30 in Piazza Carlo Alberto.

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Sconfiggere l’uomo forte è il primo obiettivo

  1. Savino

    Il momento storico richiederebbe una scomposizione e ricomposizione dell’economia. Molti settori finora in mano pubblica andrebbero lasciati, come ha indicato lei, all’iniziativa privata. Altri, finora trascurati e ripropostisi solo dopo gli eventi pandemico e bellico, andrebbero, invece, attenzionati meglio e posti in fila agli investimenti pubblici. Il sindacato deve imparare a ridimensionarsi, ad avere un ruolo meno istituzionale e più ausiliare nei luoghi di lavoro e fra i lavoratori e i consumatori. La vicenda dell’inflazione infiammata e dell’incremento di tutte le principali materie prime ci insegna questo, con la necessità di maggiori tutele sul potere d’acquisto, sulla sicurezza nei luoghi di lavoro, sulle certezze contrattuali, dopo i licenziamenti avvenuti con messaggi sul telefonino. Quindi, il sindacato sia meno CAF e patronato e più tutele.

  2. John

    Guardate quando leggo questi articoli mi viene da ridere, dovreste andare in Parlamento e spiegare queste cose, che per rendere competitiva una economia non serve puntare su politiche di sfruttamento che hanno respiro corto, ma questi signori non se la sentono neache di approvare il salario minimo…culturalmente arretrati, il declino della nostra società è il minimo, ma possono ancora fare peggio, aspetto il commissariamento della troika, è solo questione di quando…

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