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Contratto di 36 mesi per i giovani, in attesa del Pnrr

I tempi di attuazione delle misure previste dal Pnrr si allungano e le ricadute positive sull’accesso dei giovani al mondo del lavoro si allontanano. Per favorire l’occupazione giovanile, può essere utile allentare i vincoli sul contratto a tempo.

Il quadro poco rassicurante che emerge dal Bes

Nel rapporto Bes, l’Istat certifica che l’Italia è distante dalle medie europee del benessere equo e sostenibile. I segnali più negativi arrivano dagli indicatori del livello di istruzione e delle competenze. La pandemia, con la chiusura di scuole e università e il prevalere della didattica a distanza, ha acuito la difficoltà di ottenere una buona istruzione e una altrettanto buona formazione professionale. Unica eccezione è il dato sulla partecipazione alla formazione continua da parte della popolazione adulta tra i 25 e i 64 anni, che è aumentata nel 2021, non soltanto recuperando il livello del 2019, ma superandolo.

L’Istat registra una battuta d’arresto della crescita dei diplomati. E tra i giovani italiani di età compresa tra i 30 e i 34 anni rileva addirittura un calo del tasso di istruzione terziario: il 26,8 per cento contro il 41 per cento della media Ue. Il rapporto registra il recupero dell’occupazione, ma solo grazie all’aumento dei contratti a termine di durata breve o brevissima; segnala anche, peraltro, il sottoutilizzo della forza lavoro, vale a dire la mancata corrispondenza tra le caratteristiche dell’occupato, con particolare riferimento al titolo di studio posseduto, e quelle della professione svolta. Col conseguente utilizzo inefficiente della forza lavoro.

Cosa promette il Pnrr per aumentare il tasso di partecipazione dei giovani

In questa situazione di grande precarietà economica e sociale, aprire ai giovani outsider le porte del mondo del lavoro, possibilmente con un’occupazione dignitosa, è una priorità. Il Piano nazionale di ripresa e resilienza lo sottolinea ponendo l’inserimento dei giovani tra le priorità trasversali, riguardanti ciascuna missione. In particolare, nella Missione 1 sono previsti interventi sulla digitalizzazione relativi, tra l’altro, a completare la connettività delle scuole. Gli investimenti e le riforme riguardanti la transizione ecologica della Missione 2 contribuiscono invece alla creazione di occupazione giovanile in tutti i settori toccati dal Green Deal europeo, tra cui le energie rinnovabili, le reti di trasmissione e distribuzione, la filiera dell’idrogeno.

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La Missione 4 interviene invece su tutto il ciclo dell’istruzione e della ricerca, in risposta alle raccomandazioni specifiche della Commissione europea sull’Italia, che invitano a stimolare gli studi in campi attinenti ai settori ad alta intensità di conoscenza. In particolare, il Piano intende migliorare le competenze di base e diminuire i tassi di abbandono scolastico, e permettere allo stesso tempo di ridurre le distanze tra istruzione e lavoro, anche grazie alla riforma e allo sviluppo del sistema di formazione professionale terziaria (Its). Gli investimenti previsti facilitano l’accesso all’istruzione universitaria, con nuove borse di studio, e le opportunità per i giovani ricercatori, con l’estensione dei dottorati di ricerca.

La Missione 5 intende assicurare un’integrazione efficace tra le politiche attive del mercato del lavoro e le politiche sociali, attraverso forti investimenti nelle politiche di istruzione e formazione (apprendistato duale) e il potenziamento del “Servizio civile universale”.

Si tratta di obiettivi mirati che, tuttavia, non sono affatto a portata di mano e il cui conseguimento dipende dai tempi di attuazione del piano, destinati ad allungarsi in conseguenza della guerra. Occorre dunque por mano ad altre ricette per l’immediato.

Cosa si può fare subito per favorire l’occupazione dei giovani

Se davvero si vuole fare qualcosa per favorire l’inserimento dei giovani nel mercato del lavoro basta una riforma a costo zero: consentire alle imprese di stipulare, ed eventualmente rinnovare o prorogare, un contratto di lavoro a tempo determinato con giovani fino a 30 anni di età, senza l’obbligo di indicare una ragione specifica entro un termine massimo di 36 mesi (oggi il termine massimo per il contratto “acausale”, per tutte le età, è di 12 mesi).

La disposizione, che può sembrare una discriminazione per motivi di età, è invece giustificata da una finalità legittima di politica del lavoro, consistente nel rimuovere l’evidente svantaggio di cui soffrono nella ricerca dell’occupazione i lavoratori di età inferiore ai 30 anni (in questo senso si è pronunciata la Corte di giustizia – sentenza C‑143/16 – sia pure in riferimento alla differente materia del contratto di lavoro intermittente). Dopo due anni di pandemia e con una guerra in corso, sono loro a pagare più pesantemente le conseguenze della crisi economica. La facoltà accordata ai datori di lavoro di concludere o prolungare un contratto a tempo determinato “in ogni caso”, e non solo per causali specifiche, per la durata di 36 mesi potrebbe dunque favorire l’accesso dei giovani al mercato del lavoro superando la rigidità della disciplina attuale. Si tratta, a ben vedere, soltanto di un parziale allentamento della stretta operata con il decreto legge n. 87/2018, che non ha dato buoni risultati.

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La carenza di esperienza professionale, in un mercato del lavoro frenato dalle incertezze del contesto economico globale, penalizza i giovani italiani più di quanto accada altrove, a causa dei difetti endemici del nostro sistema dell’istruzione e della formazione professionale. La possibilità di un periodo di lavoro a termine più esteso può costituire una misura efficace per neutralizzare il loro svantaggio.

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  1. Jeriko

    Obbiettivi ambiziosi, ma che purtroppo (forse sono pessimista) non sono assolutamente realizzabili nel contesto italiano, lo dico a ExPat. Ad esempio: Il punto non e´ interrompere l´abbandono scolastico tout-court, ma incentivare la studio in quanto i campi ad alto tasso di conoscenza sono anche i piu retribuiti e ricercati.
    Se invece il “mondo del lavoro” che si trova e´ a bassa retribuzione, basse competenze (perche´ basso e´ il livello tecnologico dei prodotti), bassa richiesta (sgomitare frenetico a mandare CV, contattare amici/parenti/conoscenti)….perche´ spendere tanti anni e fatica ad accrescere le proprie competenze?
    Nell´articolo si evidenzia poi il seguente punto”…..Gli investimenti previsti facilitano l’accesso all’istruzione universitaria, con nuove borse di studio, e le opportunità per i giovani ricercatori, con l’estensione dei dottorati di ricerca.”…..nel mio pessimismo potrei leggerla cosi: il dottorato viene percorso fondamentalmente con l´obbiettivo di entrare all´universita, come anche gli “assegni di ricerca”, finendo quindi per usare il PNRR per incrementare ancora una volta una spesa purtroppo non cosi´ produttiva (se fra 20 anni avremo lo stesso tessuto industriale sara´ un disastro).
    Come ho detto sono un ExPat e posso comparare facilmente l´Italia ad altri Paesi sopra le Alpi: un abisso; chiedetvi perche´ in Italia non c´e´ un´emigrazione qualificata (ingegneri) dal resto d´Europa e del mondo…..

  2. Renato Fioretti

    Trovo disarmante che si pretenda di risolvere il problema della disoccupazione giovanile con una “formuletta” antica che, tra l’altro, ha già ampiamente dimostrato di non servire allo scopo. C’è un primo punto non eludibile. L’eventuale superamento di ogni tipo di “causale”, per la stipula di contratti a termine, rappresenterebbe, in effetti, un incentivo alla loro ulteriore crescita per il semplice motivo che diventerebbero leciti anche laddove oggi mancano i presupposti. L’immediata conseguenza sarebbe l’ulteriore riduzione dei contratti a tempo indeterminato ; con l’aumento del numero dei lavoratori precari. Tra l’altro, sfugge un particolare di non secondaria importanza, ma già ampiamente noto. Già prima del c.d. “decreto dignità”, circa l’85 per cento dei contratti a termine non superava i 12 mesi di durata e la durata “media” degli stessi va da 1 a 6 mesi. Ne discende che prevedere una durata massima di ben 36 mesi non serve, praticamente, a nessuno! Concludo ricordando anche l’ampia documentazione disponibile – che, personalmente, definirei incontrovertibile – che , in sostanza, demolisce l’assunto secondo il quale a maggiore flessibilità (con annessa precarietà) corrisponderebbe un (quasi) automatico aumento dell’occupazione.

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