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Il merito, il mercato e la giustizia

Come si definisce il merito? È necessario fare assunzioni, per esempio che coincida con la posizione sociale e che tutti abbiano pari opportunità. Esistono però le rendite, dovute alla scarsità e al grado di monopolio di imprese o istituzioni finanziarie.

Definire il merito è difficile

“L’idea di meritocrazia può avere molte virtù, ma la chiarezza non è una di quelle virtù”. Così iniziava, nel 2000, Amartya Sen un suo breve saggio su “Merit and justice”. Un’idea importante, la meritocrazia, su cui da Michael Young in poi – che in The Rise of Meritocracy del 1958 ha inventato la parola – periodicamente si discute molto (e soprattutto oggi, dopo la pubblicazione del libro di Michael Sandel, The Tyranny of Merit, 2020), ma che effettivamente non è molto chiara. Mentre è possibile definire con sufficiente precisione le “competenze” che sono necessarie per ottenere un certo lavoro e un posto in un corso universitario, molto più difficile è definire e misurare il “merito”, che porta con sé una inevitabile connotazione morale. Se dico che Giulia “merita un riconoscimento” sto dicendo che è giusto che Giulia abbia quel riconoscimento, perché ha compiuto (almeno) un’azione appropriata. E se dico che lo merita più di altri è perché ritengo che Giulia abbia fatto meglio di altri. Ma, per poter dire che Giulia ha compiuto un’azione buona o migliore di quelle altrui, devo avere una qualche nozione di società buona. Ovviamente, dire che una società è buona se premia il merito ci porta a una circolarità imbarazzante.

Una semplificazione, solo apparente, consiste nel pensare che il merito sia equivalente alla semplice somma di talento e sforzo. Ma, ci ricordano tanto papa Francesco quanto John Rawls (A Theory of Justice, 1971), il talento è in buona parte dono. Che poi sia dono divino, dono genetico o dono della comunità (familiare e sociale) in cui abbiamo vissuto i nostri primi anni o un misto di queste cose, rimane il fatto che il talento non può essere facilmente identificato con il merito, mentre è molto più semplice associarlo alle competenze. In parte diverso il discorso per lo sforzo. Anche esso, certo, contribuisce a definire le competenze e, tuttavia, può essere visto – assai più del talento – come una virtù propria dell’individuo (anche se esistono contesti comunitari che portano naturalmente a sforzarsi). D’altra parte, va riconosciuto che un’infermiera lavora duro e, quindi, si sforza, quanto e forse più di un manager. Come facciamo a dire chi merita di più?

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Meriti, competenze e retribuzioni

Se guardiamo ai meriti specifici (competenze) ovviamente il confronto tra manager e infermiera non è possibile: servono qualità, competenze diverse, non confrontabili anche a parità di sforzo. Il confronto diventa possibile (e viene fatto continuamente) sulla base di qualche eroica assunzione. La prima è che tutti abbiano (e abbiano avuto) pari opportunità, la seconda (spesso implicita) è che il merito coincida con la posizione sociale, a sua volta approssimativamente misurata dalla retribuzione o dalla ricchezza. Così facendo si crea un parallelismo tra ricchezza/reddito e merito che permette non solo di affermare che la posizione sociale è segno del merito, ma anche di sostenere che il merito è l’origine e la giustificazione della posizione sociale.

Se così stanno le cose, se il denaro guadagnato o posseduto sono uno specchio fedele del merito, allora la meritocrazia si presenta effettivamente come un’unica grande gara, che coinvolge tutti gli appartenenti a una società, per le più elevate posizioni sociali, ovvero per le più alte remunerazioni (J. Feinberg, Doing and Deserving. Essays in the Theory of Responsibility, 1970). Spesso gli economisti (e dietro di loro l’opinione pubblica) hanno identificato il merito con qualcosa di più specifico della posizione sociale acquisita. Di preciso, l’hanno fatto coincidere con il contributo alla crescita del Pil o del “valore” di un’azienda. Da qui ne segue che enormi differenziali retributivi (e di ricchezza accumulata) vengono giustificati con argomenti solo apparentemente meritocratici, ma in realtà fondati sull’apprezzamento di mercato, come riconosceva molto più onestamente Friedrich von Hayek (The Constitution of Liberty, 1960). È proprio l’apprezzamento di mercato, non il merito in sé, che ha sostituito il privilegio della nascita nella determinazione della posizione sociale.

Il problema è che l’apprezzamento del mercato comprende rendite dovute alla scarsità (per esempio dei talenti sportivi, o musicali, o altri ancora) e al grado di monopolio di un’impresa o di un’istituzione finanziaria e dal quale il manager e l’azionista possono estrarre una parte, venendo così a mettere insieme remunerazioni che vanno ben oltre il merito individuale. Per non parlare del vero e proprio rent seeking e del crony capitalism, che pure fanno parte della realtà in cui viviamo. Inoltre, mercati caratterizzati da tecnologie che consentono il consumo congiunto e contemporaneo da parte di milioni di soggetti paganti (per esempio, le partite trasmesse dai canali televisivi a pagamento) permettono di esaltare l’estrazione di rendite da scarsità di talento (per esempio, dei calciatori). Tutte queste rendite implicano una significativa divaricazione tra retribuzioni di mercato e merito, inteso come contributo sociale effettivo di ogni individuo (M. Franzini, E. Granaglia, M. Raitano, Dobbiamo preoccuparci dei ricchi?, 2014).

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Andrea Boitani è intervenuto all’evento organizzato all’interno del Festival Internazionale dell’Economia di Torino intitolato “Infermieri e top manager: chi ha più merito?”, che si è tenuto giovedì 2 giugno alle 16.30 all’Accademia delle Scienze – Sala dei mappamondi.

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  1. Savino

    Il merito va misurato proporzionandolo ai mezzi a disposizione. Un insegnante che riesce a far apprendere bambini o ragazzi nelle condizioni disastrate della scuola italiana (cioè, coi pochi mezzi che dispone) ha talento e competenze, di conseguenza, ha merito.

  2. John

    Stringendo il discorso, un mercato è meritocratico quando fornisce le chiavi di accesso, quando si ha la possibilità di finanziare un’idea, quando si ha la possibilità di potersi formare (perché bisogna ricordarsi che in Italia si tende a non formare i lavoratori), quando si creano possibilità di lavoro tali da non creare la condizione di ricatto lavorativo, non bisogna essere geni per capire queste cose… W la libertà

  3. Luigi Calabrone

    Gentile prof. Boitani,
    questa messa discussione del cosiddetto “merito”, di origine anglosassone, sorta nei relativi paesi, mi sembra surreale se ambientata in Italia, dove discuteremmo del sesso degli angeli, o di quello che accade in Persia! (Nuove “Lettere persiane?)
    Non occorre essere specialisti per sapere che l’Italia è la “tomba del merito”, come risulta da centinaia di articoli, saggi, eccetera.
    L’Italia è il paese in cui nel privato si viene assunti per parentela, affiliazione, raccomandazioni. Nel caso migliore, a sorte. Nel pubblico, per concorsi di dubbia formulazione – vedasi, ad esempio l’attuale concorso per la magistratura, o quello “a crocette” per gli insegnanti.
    Successivamente , da sempre si viene promossi per anzianità, affiliazione a gruppi, eccetera. Vedasi l’esempio di Giovanni Falcone, candidatosi per la direzione dell’organo antimafia, a quel tempo la persona più competente e attiva, cui fu preferito Mele ,”il più anziano”. Anche il Presidente della Corte costituzionale viene scelto con il criterio dell’anzianità .
    Nei concorsi universitari, come risulta da innumerevoli episodi, anche giudiziari, i professori vengono scelti per affiliazione, non per merito. Quando, a suo tempo, Daniel Bovet , premio Nobel per la medicina, ebbe l’ardire di partecipare ad un concorso, fu classificato a secondo posto, per lasciare il primo libero per un affiliato.
    In tutti gli studi fatti nel settore privato è risultato che (purtroppo) si fa carriera nelle aziende per mille motivi, di cui l’ultimo è il merito. Nella scuola, gli insegnanti sostenuti dai sindacati, da sempre raccontano la “balla” che non sarebbe possibile la “valutazione del merito”.
    (Certo, è difficile; la misurazione contiene qualche approssimazione, ma viene fatta in tutti i paesi civili – meglio tentarla che promuovere solo per anzianità, appartenenza, ecc.). Vengono boicottate la prove INVALSI (anche quelle sempre migliorabili) , più o meno con le stesse motivazioni pretestuose. Prevale l’appiattimento, altro che il “merito”.
    La ridotta produttività dell’economia italiana è dovuta anche al disprezzo diffuso per l’impiego di persone di valore ai vertici dello Stato (a iniziare dai ministri). Uno vale uno. Lo stesso per le aziende padronali e le microaziende (il 90-95%) delle aziende italiane, in cui vengono assunti/promossi i soggetti che danno meno fastidio ai padroni e che potrebbero scalzarli.
    Mi fermo qui. Prima di mettere in discussione il sistema del “merito” in Italia, occorrerebbe almeno che fosse stato introdotto nella nostra società – in seguito, potremmo anche metterlo in discussione, migliorarlo, o, addirittura, abolirlo. Solo dopo.

  4. Emanuele

    Come per la definizione del concetto di merito bisognerebbe distinguere le connotazioni morali implicite, allo stesso modo andrebbe fatto per il concetto di rendita. Credo sia ancora buona la differenza usata per valutare l’accesso al mercato, di “concorrenza nel mercato” o “concorrenza per il mercato”. Un conto sono le condizioni di scarsità create da mercati contendibili, un altro sono le condizioni di scarsità create da privative legali. Dalla prima scarsità la rendita è prevalentemente dettata dall’innovazione ed è solo temporanea , la seconda è dettata da distorsioni della regolamentazione del mercato . E in questo secondo caso la distorsione è anche per carenza di regolamentazione, come nei casi di monopoli naturali. Sotto questo profilo, ciò che meglio chiarisce il concetto di merito è da ricollegare alla componente del rischio connaturato al raggiungimento degli obiettivi contendibili, di cui il merito sarebbe il payoff. In caso diverso sarebbe inevitabile il parallelismo tra retribuzione e merito.
    Più viene ridotto il rischio di insuccesso con mezzi che esulano da impegno e competenza, più il concetto di merito assume la forma di fortuna o privilegio. Più vengono protetti gli obiettivi, rendendoli non contendibili, con mezzi che esulano dall’impegno e dalla competenza (una norma di favore), più la scarsità distrugge valore e merito.

  5. marco dell'acqua

    Sono molto d’accordo con quanto è scritto nell’articolo, Salvatore Veca a Scienze Politiche ci faceva studiare John Rawls. Aggiungo un modestissimo contributo alla discussione ovvero che i più meritevoli, quelli per cui il merito è oggettivamente misurabile, devono essere funzionali al sistema nel quale vivono.
    Un esempio superclassico, il podio dei 200mt di Città del Messico alle olimpiadi del 1968. Tommie Smith, il più forte sprinter di tutti tempi sino a quel momento, vinse la gara con il record del mondo,.
    Sul podio si tolsero le scarpe lui e John Carlos che arrivò terzo. Il secondo l’australiano Peter Normann decise di appoggiare la loro causa. L’iconica immagine del pugno alzato con il guanto nero per protestare sul trattamento degli afroamericani è un simbolo.
    Tommie Smith era o no il più meritevole di partecipare ad altre gare, olimpiadi comprese? direi di sì.
    Ma dopo quel giorno , lui e i suoi compagni sul podio, sparirono dalla circolazione.
    Quelli che decidono se uno ha più merito di un altro chi sono? E si torna alla cooptazione, tra i meritevoli non sia mai.

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