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Sanità: dal Covid alle case di comunità

Tra finanziamento per il Ssn e Pnrr, le risorse per la sanità non mancano. Restano i problemi del coordinamento fra servizi territoriali e ospedalieri previsti dalle riforme e delle spese per il personale. Servirebbe anche una European Health Union.

Gli investimenti nel Sistema sanitario nazionale

Nel dicembre 2019, il Ministro della Salute, Roberto Speranza, rivendicava come vittoria politica i 2 miliardi di euro in più per il Servizio sanitario nazionale che aveva ottenuto con la legge di bilancio per il 2020. Considerato il periodo, poteva ben dirsi soddisfatto. Si arrivava da anni difficili, successivi alle crisi dei mutui subprime e dei sovereign bonds scoppiate un decennio prima, che avevano portato a un contenimento della spesa pubblica sanitaria (non a 37 miliardi di tagli) e al tentativo dei governi di stabilizzarne il finanziamento in rapporto al Pil con la politica del miliardo in più all’anno dal 2015 al 2019.

Quello di Speranza era un primo tentativo di tornare a investire nel Sssn. Ma nemmeno il Ministro poteva immaginare cosa sarebbe successo di lì a poco. Lo stato di emergenza nazionale fu dichiarato il 31 gennaio 2020, fra l’indifferenza dei più; è durato più di due anni, fino al 31 marzo 2022. Il finanziamento alla sanità, programmato per il 2020 a 116 miliardi (inclusi i 2 di Speranza), è arrivato alla fine di quell’anno a 120 miliardi; e con le successive leggi di bilancio siamo arrivati a 121 miliardi nel 2021 e a 124 miliardi nel 2022. A tutto ciò, la missione 6 del Pnrr aggiunge 18,49 miliardi di finanziamenti complessivi per il potenziamento infrastrutturale dei servizi sanitari fino al 2026. Difficile dire che non sia stato fatto uno sforzo finanziario enorme.

I problemi ereditati dalla pandemia

Adesso comincia a essere tempo di valutazioni di quello che è stato e di quello che auspicabilmente sarà. Sul fronte di quello che è stato, la mancanza di informazioni adeguate limita ogni commento. Per esempio, difficile dire qualcosa sul tema dei posti letto in terapia intensiva e sub-intensiva previsti dal cosiddetto “Piano Arcuri”, una questione sulla quale si è discusso molto all’inizio della pandemia (quando si additavano alla mancanza di letti le scelte tragiche su chi salvare tra i malati). Le prime evidenze fornite dalla Corte dei Conti non sembrano essere lusinghiere per il sistema delle regioni, con gran parte delle risorse stanziate che ancora non risultavano utilizzate nel 2021. Gli aneddoti che si raccolgono nel settore raccontano anche di posti realizzati, ma rimasti senza staff, per le difficoltà a trovare personale adeguato (servono gli anestesisti e non ci sono). Un secondo esempio è il tema dell’allungamento delle liste d’attesa. Nei primi mesi della pandemia, si è capito che una malattia infettiva si cura con molte difficoltà dentro a ospedali che ospitano altri pazienti non ammalati di Covid-19. Il rischio è quello di trasformare i nosocomi in bombe biologiche; è quello che è successo in Lombardia. Dagli errori però si deve imparare e vanno messi in atto sforzi organizzativi che consentano, da un lato, di mantenere attivi i presidi per i pazienti non ammalati di Covid-19, dall’altro di curare i pazienti ammalati di Covid-19 che necessitano di cure intensive. Cosa sia stato fatto su questo punto, vista l’esplosione dei tempi di attesa per alcune prestazioni, è difficile da capire. Ma un rendiconto, prima o poi, andrà presentato.   

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Le case e gli ospedali di comunità

Sul fronte della programmazione di quello che sarà, il Pnrr pone almeno tre temi all’ordine del giorno dell’agenda delle riforme, sulla quale stupisce non poco la quasi totale assenza di dibattito pubblico. Il primo tema è quello del coordinamento fra servizi territoriali e ospedalieri. Il Pnrr si propone di “creare” la sanità territoriale della quale si discute da almeno un paio di decenni. Lo fa con le case di comunità e con gli ospedali di comunità, sulla base di standard fissati dal Dm 71/2022. Non è però chiaro come, considerati i diversi territori, il network della sanità territoriale si integri con il network degli ospedali, che andrebbe rivisto alla luce degli standard fissati dal Dm 70/2015. Ogni regione dovrebbe valutare su quali ospedali (e quali reparti dentro a ciascun ospedale) puntare; e, in base a questo, capire come meglio dislocare sul territorio le case e gli ospedali di comunità. Le regioni si sono dimostrate finora abbastanza impermeabili alle indicazioni del Dm 70. Non solo: alcune hanno già realizzato case della salute, quindi sarebbe utile sapere se si tratta di cambiare solo l’insegna, oppure se queste strutture verranno totalmente rimodulate nel passaggio dalla casa della salute alla casa di comunità.

Il secondo tema è chiaramente quello del personale. Il Dm 71 è stato approvato nonostante la contrarietà di una regione, la Campania, che giustificava la sua posizione proprio sulla questione del personale. Il Pnrr finanzia gli edifici; la spesa per il funzionamento della struttura dovrebbe a carico del Ssn. Ora, è pur vero che il finanziamento corrente è programmato crescere nei prossimi anni a 126 miliardi di euro nel 2023 e a 128 miliardi di euro nel 2024. Però non è mai stato chiarito se gli incrementi programmati siano destinati a coprire anche le spese per il personale che dovrebbe popolare le case e gli ospedali di comunità.

Sul tema del personale vale la pena sottolineare altri tre aspetti. Primo, quello che sembrerebbe mancare al Ssn, almeno in base ai dati aggregati, sono soprattutto gli infermieri; quindi si dovrebbe lavorare soprattutto sulla formazione di questa figura professionale. Non si ha traccia però nei documenti ufficiali di investimenti formativi in questa direzione; se non il tentativo del Veneto di potenziare la figura dell’operatore socio sanitario (che al momento è una delle figure di ausiliari che lavorano nel settore). Secondo, nelle nuove strutture si troveranno a stretto contatto figure professionali molto diverse per mansioni e per reti di relazioni, quelle del settore sanitario e quelle del settore sociale. La presa in carico dei pazienti imporrà loro di lavorare insieme. Forse vale la pena ragionare subito su un unico contratto del comparto socio-sanitario che razionalizzi il sistema, soprattutto per le figure a più bassa qualifica; e vale la pena chiudere la stagione dei compartimenti stagni tra la sanità e il sociale, anche sul fronte dei finanziamenti. Terzo, è imprescindibile arrivare a un accordo politico con i medici di medicina generale. Sono loro gli attori chiave del territorio, come ha inequivocabilmente mostrato la vituperata legge 23/2015 della Regione Lombardia. Senza che questi si trovino davvero d’accordo a pensare il loro futuro dentro le case di comunità, la riforma è destinata a non partire nemmeno. Al momento si sta lavorando su un accordo di para-subordinazione; non è sufficiente.

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La governance

Il terzo tema è quello della governance del settore. Si è fatto un gran parlare, spesso in modo fuorviante, di decentramento regionale, suggerendo come la gestione della sanità dovesse tornare nelle mani dello Stato. L’evoluzione delle politiche di contrasto alla pandemia ha messo in luce che è necessario invece distinguere tra funzioni differenti e che, per alcune, anche la dimensione nazionale non è sufficiente. Qualcuno osa immaginare cosa sarebbe successo se i contratti dei vaccini anti-Covid fossero stati negoziati separatamente da ogni singolo stato dell’Unione europea? L’Ue si è dimostrata indispensabile, non solo per questo, ed è bene ragionare su cosa debba fare una European Health Union. Il procurement e lo sviluppo di farmaci e presidi innovativi per tutti i paesi europei, la definizione di una capacità produttiva europea per la realizzazione di questi prodotti, la definizione di una rete di centri per la prevenzione e il controllo delle malattie, soprattutto infettive, sembrano ovvi candidati. Agli stati nazionali resterebbe la legislazione quadro relativa al sistema sanitario nazionale. Dentro agli stati nazionali, i livelli di governo inferiori dovrebbero continuare a gestire e offrire i servizi. Per noi il sistema rimarrebbe imperniato sulle regioni, così come prevede la Costituzione. Prima di parlare di federalismo differenziato sarebbe utile sedimentare questo modello, discutendo anche di risorse proprie regionali; altrimenti il rischio che non ci si capisca più nulla è molto elevato.

Gilberto Turati ha introdotto il forum organizzato da lavoce all’interno del Festival Internazionale dell’Economia di Torino intitolato “La tutela della salute dal Covid al Pnrr”, che si è tenuto venerdì 3 giugno alle 17.30 all’Auditorium Vivaldi.

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  1. ettore jorio

    Ho apprezzato molto l’intervento di Turati, pragmatico come d’abitudine.
    Condivido, soprattutto, le preoccupazioni sul finanziamento a regime delle strutture (CdC e OdC) e iniziative (COT), garanti del corretto funzionamento delle stesse . Un valore da rendere sufficiente nell’ordinario a partire dal 2026, finanziando il Fabbisogno standard nazionale. Meglio, ovviamente, se effettuato per costi e fabbisogni standard, alimentato dalla perequazione per le zone deboli e portatrici dei peggiori indivi di deprivazione socio-economica.
    Nondimeno faccio mie le preoccupazioni sul pericolo di “cambiare solo l’insegna” alla attuali case della salute e sulla necessità di coordinare le prescrizioni del DM71 con il DM70 da revisionare sensibilmente nonché su doversi determinare sullo stato giuridico dei medici di famiglia, pena il flop dellla “riforma”

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