Nel XVI secolo, Venezia accolse la richiesta papale di non pubblicare i libri messi all’Indice. La censura finì per ridurre il numero delle pubblicazioni e l’attività creativa. Gli stessi problemi si ripropongono ora, al tempo delle fake news.
Censura e industria editoriale
La proposta di acquisizione di Twitter da parte di Elon Musk e l’approccio che la piattaforma avrà nei confronti della censura ha riacceso il dibattito sulla libertà di espressione e sui pro e i contro dell’eliminazione di contenuti pericolosi, falsi o palesemente manipolatori. Se da un lato le restrizioni alla libertà di espressione riducono la diversità di opinioni e impoveriscono il clima culturale, dall’altro, fenomeni come l’hate speech o le fake news paiono richiedere un intervento deciso.
Vi è un crescente interesse della letteratura economica sulla censura e su come possa influenzare le credenze, le opinioni e il comportamento dei cittadini. Meno indagate sono le possibili conseguenze sull’industria editoriale e dei media e sulla creazione di contenuti. Da un punto di vista teorico gli effetti non sono così scontati. La censura potrebbe ridurre gli spazi per la creazione di nuovi contenuti, ma potrebbe anche stimolare la produzione di opere in ambiti non soggetti alle restrizioni. In sostanza, l’effetto della regolamentazione sull’industria dipende da vari fattori concomitanti, tra cui la capacità delle imprese di adattarsi alle nuove regole e la chiarezza di queste ultime. Per studiare questi effetti, in un recente articolo ci siamo concentrati su uno dei più celebri episodi di censura nella storia italiana ed europea: la censura della Chiesa cattolica in epoca rinascimentale.
Il primo Indice dei libri proibiti
Il XVI secolo è caratterizzato da due avvenimenti importanti e strettamente intrecciati tra di loro. Il 1500 è il secolo della Riforma protestante e della reazione della Chiesa cattolica che cerca di limitare il diffondersi delle idee luterane in Italia. Ma è anche il secolo che vede un rapido sviluppo della stampa e della diffusione dei libri tra strati sociali che prima non potevano accedervi a causa del prezzo molto elevato dei manoscritti. Non a caso, la rivoluzione introdotta dalla stampa a caratteri mobili è stata definita da alcuni autori il primo esempio di Ict, information and communication technologies.
Martin Lutero, avendone intuito il potenziale, utilizza la stampa come veicolo per diffondere le sue idee. La Chiesa cattolica reagisce dando battaglia sullo stesso terreno, imponendo restrizioni e divieti su ciò che si poteva pubblicare. Nel 1559 il Papa promulga il primo Indice dei libri proibiti in cui venivano elencate le opere che non potevano essere né pubblicate né lette. Dopo il primo Indice, ne seguono altri che ampliano la portata delle proibizioni, inizialmente concentrate sui libri con tematiche religiose, a generi letterari diversi, generando un clima di grande incertezza.
Il nostro studio si concentra sull’industria libraria di Venezia. È un caso interessante per due motivi. Nel XVI secolo Venezia, è il principale centro editoriale italiano – quasi tre quarti dei libri stampati in Italia provenivano da quella città – e ha una posizione preminente a livello europeo. Inoltre, il Governo di Venezia, da una posizione di indipendenza rispetto a Roma, a metà del Cinquecento, per un improvviso cambio negli equilibri geopolitici europei, si avvicina allo Stato Pontificio e accoglie la richiesta papale di porre un freno alla pubblicazione di libri che potessero favorire la riforma protestante. Inizia così l’inquisizione cattolica a Venezia.
La produzione libraria dei principali editori veneziani è analizzata nei cinquant’anni a cavallo del primo Indice dei libri proibiti del 1559. Guardando alla produzione prima dell’inizio della censura, abbiamo classificato gli editori in due gruppi: “esposti alla censura” – gli specializzati nei generi letterari più colpiti dalla regolamentazione- e “non esposti” – gli specializzati nei generi meno interessati dalla censura.
Come mostrato nel grafico, all’inizio del periodo studiato il gruppo degli editori “esposti alla censura” pubblica più libri rispetto ai colleghi “non esposti” e l’andamento della produzione dei due gruppi è simile fino alla promulgazione del primo Indice dei libri proibiti, nel 1559. A partire da quell’anno, i due percorsi si differenziano e la produzione del gruppo “esposto alla censura” diminuisce nettamente, mentre quella del gruppo “non esposto” aumenta. Complessivamente, la riduzione stimata dell’attività per gli editori più esposti è di circa il 50 per cento. Il dato è notevole perché il numero di libri finiti all’Indice era complessivamente esiguo, pari al 3 per cento della produzione libraria. Quindi gli effetti della censura sono andati ben al di là del numero di libri esplicitamente proibiti che non potevano più essere pubblicati. I risultati sono confermati se guardiamo alle quote di mercato. Nel periodo precedente all’introduzione dell’Indice, i primi tre editori per numero di libri pubblicati rientrano nel gruppo degli esposti alla censura. Nella parte finale del periodo indagato vale il risultato opposto: gli editori con la quota di mercato maggiore appartengono tutti al gruppo dei non esposti.
Figura 1 – Produzione di libri degli editori “esposti” alla censura (in rosso) e degli editori “non esposti alla censura” in nero
Il fattore incertezza
Ma quali sono i meccanismi che hanno amplificato gli effetti della censura? I fattori che sembrano aver ostacolato un possibile re-indirizzamento dell’offerta editoriale verso generi più sicuri e meno toccati dalla regolamentazione sono legati all’incertezza sui divieti generata dal susseguirsi di nuovi Indici dei libri proibiti, che hanno allargato la portata delle proibizioni e ampliato la discrezionalità dei tribunali dell’inquisizione.
Oltre al livello complessivo dell’attività editoriale, la censura ha anche influenzato la direzione dell’attività creativa e la tipologia e le caratteristiche degli autori pubblicati. La riduzione della produzione degli editori espositi è concentrata principalmente nelle opere di letteratura in lingua volgare, quelle più popolari e di maggior interesse per il vasto pubblico. Non ci sono invece differenze significative negli altri generi letterari. Inoltre, gli editori più esposti riducono la pubblicazione di autori “nuovi” (ossia non ancora pubblicati a Venezia). L’effetto è particolarmente forte per gli autori più prolifici i quali sembrano evitare di pubblicare con editori con la reputazione compromessa.
Per concludere, l’esperienza di Venezia nel XVI secolo ci mostra che la censura ha avuto un effetto di lungo periodo sul livello della produzione, sui generi pubblicati, e sulle caratteristiche degli autori pubblicati, con un effetto di riduzione dell’attività creativa.
Questi risultati sono in linea con quanto trovato in altri studi che hanno evidenziato gli effetti macroeconomici di lungo periodo dell’inquisizione. L’analisi a livello di settore industriale mette in luce però degli aspetti nuovi su cui a nostro avviso è necessario porre attenzione, come per esempio la possibilità che la censura abbia conseguenze durature sulla struttura industriale del settore, alterando le quote di mercato o il numero delle imprese, e quindi il livello di concorrenzialità del settore e il suo sviluppo. Si pensi per esempio al dibattito su come gli algoritmi decidono quali contenuti siano ammissibili e quali da censurare e sui rischi della “privatizzazione della censura” come è stata definita dalla vicepresidente del Garante della privacy. Il modo in cui la censura opera non influenza solo la varietà delle opinioni espresse sul web ma può avere conseguenze anche sulle dinamiche di mercato, con effetti destinati a persistere nel corso del tempo.
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