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Cosa comporterà l’accordo europeo sul salario minimo

Raggiunto l’accordo sulla direttiva Ue per “un equo salario minimo”. Non significa l’introduzione di una stessa misura in tutti i paesi Ue. Permetterà però di discutere di riduzione di povertà e disuguaglianze salariali.

L’accordo a livello europeo

Il Trilogo tra Commissione europea, Parlamento europeo e Consiglio europeo ha annunciato che è stato raggiunto un accordo sulla proposta di direttiva su “un equo salario minimo”. È arrivata dunque l’ora di un salario minimo europeo come alcuni partiti anche in Italia vorrebbero? No. Ma è il primo passo di un processo più lungo che, però, mette in chiaro cosa l’Unione europea non farà: non introdurrà un salario minimo uguale in tutti paesi; non interverrà nel processo decisionale nazionale. E, infine, la Commissione non imporrà la definizione di un salario minimo per legge in quei paesi dove i minimi sono stabiliti nei contratti collettivi.

Che farà l’Unione quindi? Gli obiettivi, definiti nel documento della Commissione europea che aprì il dibattito sul tema, sono tre. Il primo è quello di assicurare che i salari minimi siano “adeguati” in tutti i paesi europei. Definire qual è il livello adeguato di un salario minimo non è un esercizio semplice. E non è nemmeno un esercizio statistico, ma una scelta sommamente politica.

La proposta di direttiva prevede che i paesi con un salario minimo debbano mettere in piedi un sistema per la governance e l’aggiornamento del salario minimo. Si tratta di impostare criteri chiari per il salario minimo (incluso il potere d’acquisto tenendo conto del costo della vita, il livello, la distribuzione e la crescita dei salari e la produttività nazionale). Andranno anche utilizzati riferimenti indicativi per il livello del salario minimo. Nel documento che aveva aperto alle consultazioni, la Commissione fa riferimento alla soglia di povertà, cioè il 60 per cento del reddito familiare mediano disponibile. Nella conferenza stampa del 7 giugno, il Commissario europeo per il lavoro e i diritti sociali e i relatori del Parlamento hanno fatto esplicito riferimento al 60% del salario mediano, ma come riferimento indicativo e non cifra imperativa. Per la maggior parte dei paesi europei si tratterebbe di un aumento molto sostanziale del salario minimo attualmente in vigore. Il livello del salario minimo dovrà poi essere periodicamente aggiornato, stabilendo nuovi livelli anche attraverso il dialogo con le parti sociali all’interno di organi istituiti per lo scopo.

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Nonostante i riferimenti al salario minimo, la direttiva si impone come obiettivo anche l’aumento della copertura della contrattazione collettiva, dal momento che, nei paesi in cui la copertura è maggiore, tende a esserci una quota inferiore di lavoratori a basso reddito. In particolare, si richiede agli Stati membri con una copertura inferiore all’80 per cento dei lavoratori dipendenti di raggiungere quella soglia. Si capisce quindi che, da una parte, si vuole spingere per il salario minimo, ma, dall’altra, si tutela il sistema di contrattazione su cui si reggono paesi che non hanno il salario minimo come l’Italia. Questo dualismo è anche la dimostrazione che salario minimo e contrattazione collettiva possano, e, anzi, è preferibile debbano, coesistere, andando contro a dichiarazioni come quelle del Ministro Brunetta.

A differenza di quanto ci si poteva aspettare dai discorsi della presidente Ursula von der Leyen, nel documento presentato due anni fa dalla Commissione, così come nella proposta di direttiva, non c’è un riferimento esplicito al fatto che i salari minimi debbano essere applicati a tutti i lavoratori. La clausola sarebbe stata inaccettabile per i paesi nordici, dove una piccola fetta di lavoratori è esclusa dalla contrattazione collettiva perché non iscritta a un sindacato: sono le stesse organizzazioni sindacali che vogliono lasciarla esclusa, proprio per dare gli incentivi necessari a sindacalizzarsi ed evitare problemi di free-riding, cioè beneficiare della copertura sindacale senza pagarne i costi.

Cosa è cambiato

Quando venne presentato il documento della Commissione europea, i sindacati europei avevano lamentato la mancanza di dettaglio, ma in realtà la Commissione, prima dei dettagli, rivolse alle parti sociali una domanda di fondo: è utile che l’Unione europea intervenga sul tema? A due anni di distanza, possiamo dire che il dibattito sul salario minimo ha trovato sempre più spazio e il raggiungimento di questo accordo mostra come la volontà politica per una regolamentazione a livello europeo ci sia, anche se l’intesa sembra lasciare larghissima discrezionalità agli Stati membri. Non è detto quindi che i sei paesi, tra cui l’Italia, in cui non esiste salario minimo arrivino a introdurlo a seguito di questa direttiva, né che gli Stati membri con salario minimo molto basso alzeranno la soglia.

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Comunque vada, l’accordo marca un cambio di rotta significativo nelle priorità di Bruxelles (da “moderazione salariale” si è passati a parlare di “salari equi”) ed è l’occasione per riflettere su come meglio raggiungere gli obiettivi di riduzione della povertà e delle disuguaglianze salariali. Il salario minimo può essere un elemento della risposta in alcuni paesi. Non in altri. E comunque non l’unico. La speranza è che non diventi il solo elemento su cui cristallizzare il dibattito.

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Il Punto

  1. Savino

    Uno schiaffo e una bocciatura netta alla politica dei redditi concertata, fatta in Italia negli ultimi 35 anni e oltre. Chi diceva di andare al mare nel referendum sulla scala mobile del 1984 era un pessimo politico. Chi legava i salari ad una bassa produttività nel 1993 e successivamente era un pessimo politico. La storia economica e non solo sta presentando il conto, ivi compreso al metodo da vassalli e vavassori di fare sindacato.

  2. Firmin

    Il salario minimo, a differenza di sussidi come il Reddito di Cittadinanza, è piuttosto difficile da gestire, perchè va calibrato in base alle mansioni svolte ed è difficile verificarne la corretta applicazione (per es. in funzione delle ore ffettivamente lavorate). Poichè il salario minimo si rivolge alle fasce più deboli del mercato del lavoro è improbabile che questi lavoratori possano resistere efficacemente ad un sottoinquadramento o ad una sottodichiarazione dei tempi di lavoro. Ma supponiamo pure che il provvedimento sia applicato correttamente. Cosa potrebbe spingere le imprese a domandare lavoro ad un livello di salario giudicato troppo elevato? Gli effetti macroeconomici sulla domanda aggregata potrebbero anche richiedere un aumneto dei ritmi produttivi complessivi, ma è improbabile che ciò compensi l’effetto negativo sull’occupazione di un maggiore costo del lavoro marginale. Questo significa che il salario minimo dovrebbe essere abbastanza basso da rendere conveniente mantenere o aumentare l’occupazione…ma allora diventerebbe una misura superflua, che potrebbe addirittura contribuire ad abbassare l’intero spettro delle retribuzioni. A questo punto mi chiedo se valga la pena di montare una macchina burocratica e contrattuale infernale per ottenere un risultato così modesto e con il fondato rischio che sia anche controproducente ai fini dell’equità e dello sviluppo.

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