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Un tetto agli spread per evitare salti nel buio

La Banca centrale europea ha dichiarato che è allo studio un nuovo strumento per evitare la “frammentazione” del mercato del credito nell’Eurozona. Un esplicito controllo del livello degli spread potrebbe avere vantaggi rispetto al Quantitative easing.

Piccoli passi e salti nel buio

“Fare piccoli passi in una stanza buia”: così Fabio Panetta, membro dell’executive board della Banca centrale europea, aveva descritto lo scorso febbraio le sfide che attendevano il percorso di “normalizzazione” post-pandemia della politica monetaria europea. Panetta auspicava un’uscita controllata e graduale dalle misure straordinarie degli ultimi anni: fare un passo avanti, verificare che non ci siano ostacoli, e solo dopo procedere con un altro passo.

Il piano presentato il 10 giungo ad Amsterdam da Christine Lagarde è parso a molti investitori più un “grande salto nel vuoto” che un piccolo passo in una stanza buia. Nei giorni successivi, il rendimento sui titoli italiani a 10 anni ha superato il 4 per cento e il differenziale rispetto a titoli tedeschi (spread) ha raggiunto il picco di 253 punti base.

Lagarde ha detto che la Bce è impegnata a evitare rischi di “frammentazione” del mercato del credito nell’Eurozona con gli strumenti già a sua disposizione – ovvero il reinvestimento dei titoli comprati nell’ambito dei due programmi di Quantitative easing varati nel 2014 e all’inizio della pandemia da coronavirus (App e Pepp). E ha anche dichiarato che la Bce potrebbe dispiegare “nuovi strumenti” se quelli esistenti non dovessero bastare. Ma non ha fornito alcuna informazione su che cosa possano essere, esattamente, i “nuovi strumenti”. Di più: ha esplicitamente detto che non c’è alcuna soglia precisa di livello dello spread o di rendimento sui titoli che possa attivare automaticamente l’intervento della Bce.

Il 15 giugno il consiglio direttivo della Bce ha convocato un incontro straordinario. Il comunicato che ne è seguito contiene l’impegno ad “accelerare l’elaborazione di un nuovo strumento anti-frammentazione da sottoporre alla considerazione” del consiglio stesso.

In molti, a ragione, hanno auspicato il passaggio dai rimedi emergenziali a soluzioni più strutturali e stabili di gestione del debito pubblico all’interno dell’Eurozona (vedi la proposta di Massimo Amato su questo sito per una Agenzia europea del debito).

Ma nelle prossime settimane e mesi, i rimedi emergenziali saranno ancora chiamati a evitare che non si precipiti in una nuova crisi del debito sovrano. Ciò non significa che anche in questa fase non si possa ricorrere a strumenti fin qui non considerati.

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Un’alternativa al Quantitative easing

La proposta di una yield curve control (Ycc) è stata discussa non più di due anni fa dalla Federal Reserve. Nelle minute dell’incontro del Federal Open Market Commette del giugno 2020 si legge che “credibili politiche” di Ycc “possono controllare i rendimenti sui titoli governativi, assicurare la trasmissione ai bond privati e, in assenza di annunci di abbandono del target, possono non richiedere larghi acquisti di titoli governativi da parte delle banche centrali”. In effetti, una volta annunciato il livello soglia dei tassi, non ci sarebbe praticamente bisogno di acquistare titoli da parte della banca centrale, dato che il loro prezzo tenderebbe ad adeguarsi spontaneamente a tale soglia. A patto chiaramente di far capire ai mercati che la banca centrale è impegnata a onorare la sua promessa “whatever it takes”. 

Negli ultimi anni le banche centrali di Giappone e Australia hanno adottato politiche di Ycc, rispettivamente sui titoli governativi a 10 e a 3 anni. L’Australia ha cominciato con lo scoppio della pandemia e ha abbandonato il target nel novembre del 2021, nell’ambito di una più generale politica di incremento dei tassi. Nel 2016 la Banca del Giappone ha introdotto un limite sui titoli di stato decennali che è ancora in vigore (attualmente il target è fissato allo 0,25 per cento).

Negli Stati Uniti la Ycc fu adottata durante la seconda guerra mondiale e fu mantenuta fino al 1951. Negli anni della ripresa post-bellica, caratterizzati da alta inflazione, il controllo dei rendimenti assicurò al governo americano denaro a basto costo per i programmi di ricostruzione e permise una rapida discesa del rapporto fra debito pubblico e prodotto interno lordo.

Ci sono buone ragioni per valutare misure del genere nell’Eurozona? Una proposta di Ycc europeo è stata avanzata nel gennaio del 2021 dal governatore della Banca di Spagna – e membro del consiglio direttivo della Bce – Pablo Hernandez de Cos. Nel contesto attuale, una forma di controllo dei rendimenti potrebbe anche essere valutata in relazione agli spread, più che ai singoli titoli dei singoli paesi. L’ancoraggio degli spread permetterebbe alla politica monetaria di continuare un percorso di graduale incremento dei tassi, se ciò fosse ritenuto opportuno in funzione anti-inflazionistica. E manterrebbe un ruolo attivo dei mercati nel determinare, in ultima analisi, la pendenza della curva dei rendimenti cha farebbe da riferimento all’intera Eurozona.

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Quanto agli spread “amministrati”, il loro livello massimo potrebbe essere deciso sulla base di valori storici, per esempio il livello medio di un determinato anno considerato come lo “standard” (come l’anno prima della pandemia). O attraverso bande di oscillazione legate a una regola stabilita in anticipo, purché adatta a garantire l’assenza di frammentazione, in attesa di una soluzione più strutturale di lungo termine. Se i banchieri centrali si sono arrovellati per anni alla ricerca di un ineffabile “tasso neutrale” che garantisca un indirizzo né espansivo, né restrittivo della politica monetaria, forse non si dovrebbe escludere l’idea di uno spread “neutrale”, che assicuri una ordinata trasmissione della politica monetaria stessa all’interno dell’area euro.

Concentrandosi sui prezzi anziché sui volumi dei bond, la Bce non dovrebbe impegnarsi ad acquistare un quantitativo fisso di titoli ogni mese come avviene con il Quantitative easing “tradizionale”. E in futuro potrebbe perfino avviare la riduzione del proprio bilancio, fissando un determinato ammontare di titoli che ogni mese vanno a scadenza, e il cui rimborso non viene reinvestito sul mercato. È ciò che in questo momento sta facendo la Fed, con un calendario preciso della variazione delle soglie di esenzione dal roll-over dei titoli.

È realistico pensare che la Bce possa adottare strumenti simili nell’immediato futuro? Gli ostacoli politico-istituzionali che si frappongono a una proposta del genere sono senza dubbio maggiori di quelli strettamente tecnici. Ma come ha scritto l’ex presidente della Fed Ben Bernanke in un articolo del 2016 sulla Ycc, è lo stesso dibattito su questi temi che può rivestire un ruolo fondamentale: “paradossalmente, educare il pubblico e i mercati sulla disponibilità di più radicali alternative può aiutare ad assicurare che non ci sia mai il bisogno di utilizzare tali alternative”.

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  1. Stefano Scarabelli

    Due osservazioni:
    1) mi sembra che per i reinvestimenti del programma APP non si possa applicare la flessibilità del PEPP (tanto che nel comunicato seguito alla riunione di emergenza si evidenzia che è stata la pandemia – sic! – a determinare la frammentazione);
    2) la Banca centrale del Giappone sta facendo sempre più fatica a mantenere il cap sui titoli decennali a 10 anni allo 0,25% ed il costo in termini di svalutazione dello yen sta facendo traballare il suo commitment.

    • Emilio Carnevali

      Concordo con entrambe le osservazioni. Per questo motivo: 1) i reinvestimenti non saranno sufficienti a contenere la frammentazione; 2) serve uno strumento che permetta ai tassi di salire in linea gli obiettivi della politica monetaria che la banca centrale vorrà darsi, prevenendo le spinte alla frammentazione. Alzare i tassi a breve e contemporaneamente fare il QE per tenere giù gli spread non mi sembra l’approccio ottimale, almeno da un punto di vista strettamente tecnico.

  2. Stefano La Porta

    QUALI SCENARI E QUALI SPERANZE

    Qualche giorno fa la Fed ha alzato i tassi di interesse di 0,75 b.p. lasciano intendere che questa decisione non sarà l’unica da qui alla fine dell’anno. La Fed manovra i tassi per controllare l’economia, alzandoli quando vuole raffreddarla e abbassandoli quando ritiene sia necessario stimolarla, ma questa volta la motivazione è duplice perché l’obiettivo è anche riportare l’inflazione al 2% dall’8% di maggio 2022.

    Poco dopo la Fed, la BCE annuncia di voler prendere la stessa via, decidendo per un aumento dei tassi a luglio, per mettere un freno all’inflazione che anche nell’area Euro sta correndo oltre l’8%.

    L’economia europea non è quella americana e ciò rende il passo della BCE pieno di insidie. Se è giusto tenere l’inflazione sotto controllo e provare a riportarla al 2%, è altrettanto vero che un’azione troppo blanda potrebbe non essere sufficiente e un’azione troppo decisa potrebbe favorire una recessione da cui sarebbe difficile uscire, considerato che si parte da dati macroeconomici non brillanti, pur con differenze tra i vari paesi. Per alcuni sarebbe una recessione breve, sopportabile e superabile nel medio periodo, per altri potrebbe sarebbe grave e duratura nel tempo.

    Data la situazione di partenza, la BCE è davanti ad una delle decisioni più difficile di sempre, rischia di sbagliare comunque. Con tassi più alti e investimenti meno convenienti, quale imprenditore spenderebbe di più per investire nella propria impresa a fronte ad una domanda in calo? Già, perché l’inflazione al 7-8% erode fortemente il potere di acquisto delle famiglie e di fatto toglie dal mercato una parte del reddito spendibile, quindi riduce la domanda privata.

    Quanto sopra vale nello scenario che la BCE attui una vera politica monetaria restrittiva, non cambierà invece sostanzialmente nulla se l’aumento annunciato dello 0,25% rimarrà l’unico.

    Supponiamo che la mossa della BCE sarà reiterata nel tempo. Avrà una ripercussione nei tassi di mercato, rendendo più alti non solo i tassi per ripagare gli investimenti, di cui si è detto, ma anche i tassi dei titoli obbligazionari, come per esempio i titoli di Stato, pur se questi sono condizionati anche da altri fattori, tra cui lo spread. Ciò può portare i risparmiatori a scelte diverse da prima in fatto di allocazione dei propri risparmi, ritenendo appetibili i tassi del momento, cosa che non avviene oggi. Nello scenario ipotizzato, se i tassi di mercato più alti spingeranno i risparmiatori a spostare la liquidità dai conti correnti agli investimenti finanziari, poco cambia. Se invece questo porterà ad un aumento della propensione al risparmio, sarà ulteriormente limata la domanda privata.

    Ciò che mette in difficoltà la BCE è il fatto che in Europa l’inflazione non è causata da un eccesso di domanda, ma dall’aumento dei prezzi delle materie prime ed energetiche importate. In questo caso si parla di inflazione importata e i meccanismi rispondono ad altre logiche. Questo fenomeno è iniziato negli ultimi mesi del 2021: prima di allora il dato era sotto controllo, a tratti fin troppo vicino allo zero. La guerra in Ucraina ha solo acuito un problema che già esisteva.

    Per spiegare un fenomeno economico si parte dalla situazione di equilibrio. L’equilibrio non sottintende una situazione ottimale con piena occupazione e alti redditi, è solo un punto di partenza per fare un’analisi. Per esempio prendiamo due grandezze come produzione e consumo. Se il mercato produce 1000 unità di prodotto e il mercato domanda e consuma 1000 unità di prodotto, il mercato mantiene questo equilibrio fino a quando un evento cambia le carte in gioco.

    Per esempio l’equilibrio dell’inizio del 2020 è stato rotto dalla prima ondata del covid che per via della chiusura di molte attività ha visto una forte diminuzione dell’offerta di beni e servizi e la conseguente perdita di posti di lavoro ha causato una minor domanda privata; da questo un pil in forte contrazione. Per via dell’inflazione sotto controllo la BCE allora non ha toccato i tassi.

    Dopo un faticoso recupero si è raggiunto nel 2021 un nuovo equilibrio. Successivamente i rincari delle materie prime, anche alimentari, e la difficoltà di approvvigionamento delle risorse energetiche hanno portato l’inflazione in Europa dallo zero virgola all’8% di maggio 2022. Il fatto che il rialzo dei prezzi di questi generi sia iniziato prima della guerra in Ucraina rende lo scenario più complesso, se non altro perché la causa non è una sola.

    Con l’inflazione non causata dalla domanda ma dall’aumento dei prezzi delle materie prime ed energetiche, si parla come si è detto di inflazione importata e i tassi della BCE su questo possono fare poco.

    Al momento nel sistema economico si scontrano due grandezze: la produzione e la domanda, a sua volta funzione dei redditi. L’inflazione all’8% comporta un’immediata perdita del potere di acquisto per il lavoratore dipendente che da subito si trova con meno reddito reale (reddito nominale – inflazione = reddito reale). A parità di altri parametri, come la propensione al consumo, egli potrà spendere l’8% in meno contribuendo al calo della domanda reale. Il discorso è leggermente diverso per il lavoratore autonomo o il libero professionista che possono, almeno in teoria, scaricare sul cliente finale i loro maggiori costi.

    Cosa succede all’imprenditore è chiaro. Con i tassi più alti gli investimento sono più cari e meno allettanti e questi, a livello di sistema, potrebbero contrarsi. La domanda globale o domanda aggregata è composta dalla domanda privata + Investimenti + domanda pubblica o spesa pubblica + saldo import export. Tralasciando al momento gli ultimi due fattori, vediamo che la domanda privata e gli investimenti rischiano in questo contesto una forte contrazione. La domanda in calo a sua volta condiziona negativamente la produzione (quale imprenditore privato che produce 100, notando che la domanda scende stabile a 90, continuerà a produrre 100?) e una produzione inferiore nel tempo porta ad una occupazione inferiore e questa ad un minor reddito spendibile.

    Rischiamo una pericolosa reazione a catena.

    In definitiva un reiterato rialzo dei tassi, in mancanza di una inflazione da domanda, è poco efficace se non dannoso. Per non aumentare i rischi di recessione o di stagflazione, la BCE non dovrebbe insistere nell’aumento dei tassi.

    In linea di principio toccherebbe alla politica fiscale aiutare l’economia attraverso una minor imposizione. Minori tasse (sui redditi da lavoro, sulla casa o abbassando fortemente l’iva per esempio) si tradurrebbero in maggior reddito spendibile e aiuterebbero la domanda finale che a sua volta stimolerebbe la produzione, creando un circolo virtuoso anche se differito nel tempo. Probabilmente questa situazione non alimenterebbe l’inflazione perché andrebbe solo a recuperare parte della domanda persa per via della riduzione del potere di acquisto.
    Se tecnicamente potrebbe funzionare, minori tasse portano però a minori entrate per lo Stato che dovrà compensare con altre manovre. E’ una via questa che può essere praticata solo dagli Stati più virtuosi, quelli con un rapporto debito/pil sotto controllo e non è il caso del nostro paese.

    Il discorso è simile se parliamo di spesa pubblica, anch’essa come si diceva parte integrante della domanda aggregata. Un aumento della spesa pubblica sotto forma di manutenzione delle infrastrutture, costruzione o manutenzione di scuole e ospedali, investimenti di aziende pubbliche o perché no, nuove assunzioni nei settori pubblici più in difficoltà, avrebbe da un lato un effetto positivo importante perché stimolerebbe la domanda, ma con la controindicazione di un maggior indebitamento dello Stato. Anche questa linea è praticabile solo dagli Stati più virtuosi in fatto di debito pubblico.

    Al di là dei vincoli di bilancio previsti dalla normativa europea, si ricorda però che Keynes suggeriva per uscire dalla recessione – e noi non ci siamo ancora – di scavar fosse e riempirle (questo è un eccesso di riassunto del pensiero dell’economista, che proponeva un concetto ben più articolato), Questa via era secondo lui attuabile per il forte effetto volano che la spesa pubblica ha sulla domanda: più domanda, più produzione, più investimenti portano a maggiori introiti fiscali per le casse dello Stato. In momenti di crisi, secondo Keynes, è lo Stato che deve fare il primo passo.

    Non tutti si accorgono di un altro rischio che stiamo correndo, la possibile contrazione della propensione al consumo. Quando prende il sopravvento la preoccupazione per il futuro, è possibile che il consumatore medio decida di spendere un po’ meno, magari posticipando qualche spesa per prudenza o per timore che le cose possano peggiorare. Con una guerra alle porte della UE e un’inflazione che non si sa dove arriverà e quanto durerà, non è un punto da sottovalutare. Gli ultimi dato dell’Istat confermano questo timore. Anche in questo caso, meno spesa si traduce in minor domanda privata, terreno fertile per la recessione.

    Non potendo agire dal lato delle imprese e con le difficoltà e i limiti della politica fiscale espansiva e della spesa pubblica, si deve studiare qualche altra soluzione che aiuti la domanda finale. Lasciando stare vie come il bonus rottamazione o assegni una tantum, certamente graditi ma con un effetto effimero, non restano che due possibilità: un corretto e veloce utilizzo dei fondi del PNRR e il recupero della perdita del potere di acquisto dei lavoratori dipendenti pubblici e privati attraverso i rinnovi contrattuali di categoria.

    Per quanto riguarda il PNRR siamo nelle mani del governo che deve accelerare la distribuzione dei 207 miliardi di euro che l’Europa in precedenza ha riservato all’Italia. Di fronte ad un pil nazionale di circa 1800 miliardi, è evidente l’enorme peso che hanno, anche sulla domanda finale, 207 miliardi.
    L’altra via è il recupero dell’inflazione nelle retribuzioni. Ormai siamo tutti più poveri dell’8% rispetto ad un anno fa. Probabilmente chi percepisce redditi medio alti non ne è stato toccato, ma molte famiglie, prima a ridosso della fascia di povertà, oggi ne sono dentro. I rinnovi contrattuali devono essere una priorità, non devono essere visti come una difesa della categoria di turno, ma come una necessità economica per sostenere la domanda privata del paese, elemento essenziale per difendere l’economia. Il lato debole è che i rinnovi contrattuali sono scaglionati nel tempo nelle varie categorie, spesso necessitano di tempi lunghi per la loro conclusione e sono incerti negli esiti. Probabilmente anticipare le scadenze contrattuali e velocizzare le trattative sarebbe opportuno, per il bene del Paese. C’è bisogno di azioni importanti nel breve periodo, perché la crisi è veloce nello spazzare via imprese e a lasciare a casa migliaia di lavoratori. Giù i redditi, giù la domanda, giù la produzione, il recupero diventerebbe molto difficile.

    Ma tutto questo non dipende dalla BCE, ma dalla Politica in parte si.

    Se poi per qualche motivo oggi non prevedibile, il prezzo delle materie prime tornasse ai livelli di qualche mese fa, lo scenario sarebbe più roseo. Ma purtroppo questo non è all’orizzonte.

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