La decisione della Corte suprema statunitense di abolire il diritto all’aborto a livello federale avrà importanti conseguenze negli Stati Uniti. Dal punto di vista economico, maggiori restrizioni all’aborto hanno un impatto molto negativo, sia per le conseguenze dirette che per quelle indirette.
L’aborto è, secondo il dizionario Treccani, l’“interruzione della gravidanza prima del 180° giorno”. La Treccani ci fornisce anche una serie di sotto definizioni che, come vedremo, sono importanti in quanto costituiscono la base della legislazione: “a. spontaneo, dovuto a cause naturali, provocato da cause patologiche; aborto procurato (o provocato o indotto), interruzione volontaria della gravidanza; aborto terapeutico, quello praticato quando la gravidanza costituisce pregiudizio per la salute della donna; aborto interno o intrauterino, tipo di aborto in cui il feto viene ritenuto nell’utero per lungo tempo (mesi o anche anni) senza essere espulso.”
L’importanza delle definizioni fa si che esse stesse siano state oggetto di molti dibattiti e revisioni, basti pensare che nel 1985 fu inviata una lettera alla rivista medica Lancet dal personale del St Mary’s Hospital di Londra, il quale chiedeva espressamente che l’aborto spontaneo venisse ufficialmente chiamato miscarriage anziché abortion, per rispetto alle donne che ne facevano esperienza. Questa pratica si è poi consolidata nel linguaggio utilizzato per descrivere i due eventi, che vengono tenuti separati non su base clinica, ma piuttosto per riflettere il diverso giudizio morale accordatogli dalla società: univoco cordoglio per il miscarriage, giudizio morale per l’aborto.
La questione linguistica è utile a far capire come il dibattito sulla salute sessuale e riproduttiva delle donne, sia sempre stato legato alla questione riguardante cosa possa e non possa fare una donna e sia quindi intimamente connesso ad altri diritti, incluso quello all’istruzione e al lavoro: ne fa un bellissimo excursus storico per gli Stati Uniti Claudia Goldin nel suo ultimo libro ‘Career and Family’ in cui racconta come diverse generazioni di donne istruite abbiano negoziato i limiti loro imposti, sia nella sfera riproduttiva e sessuale, che in quella lavorativa, per conciliare la possibilità di avere una famiglia con quella di avere un lavoro remunerativo (spoiler alert: con tanta fatica e ancora siamo lontane). Sempre ad Harvard, è stato scritto nel 1988 il saggio ‘Il contratto sessuale’ dalla giurista Carole Pateman, che ben spiegava come specifiche limitazioni ai diritti delle donne che passano per il controllo del loro corpo, siano al centro del modello di contratto sociale perseguito dai diversi partiti politici. Non sorprende infatti che, dato un maggior controllo dei conservatori alla Corte Suprema, si sia arrivati alla revoca della sentenza Roe vs Wade, che garantisce il diritto all’aborto negli Stati Uniti.
Ma cosa succede concretamente alle donne quando si riduce l’accesso all’aborto?
Per capire le conseguenze di una maggiore o minore apertura legislativa verso l’interruzione di gravidanza sul benessere socioeconomico delle donne, bisogna considerare i meccanismi che legano l’aborto a variabili molto diverse tra di loro. Dividiamoli in cosiddetti effetti di prim’ordine, ossia gli impatti diretti che la garanzia di accesso all’aborto ha sugli aborti stessi e sulle donne, ed effetti di second’ordine, ossia quelli che discendono dai primi effetti.
Gli effetti di prim’ordine sono stati ampiamente studiati in letteratura e le conclusioni principali a cui si è giunti sono che limitare l’accesso al servizio di interruzione di gravidanza determini una sostanziale diminuzione del numero degli aborti accompagnata da un contemporaneo incremento delle nascite, un drastico aumento delle gravidanze fra le ragazze adolescenti e le giovani donne e un peggioramento della mortalità materna collegato sia al mancato intervento su complicazioni legate alle gravidanza, che al ricorso all’aborto clandestino.
Gli effetti di secondo ordine, che discendono da quelli descritti sopra, richiedono di considerare separatamente le nascite “addizionali”, ossia quelle che in situazioni di maggiore apertura legislativa verso l’aborto non sarebbero state terminate. Non avere la piena libertà di interrompere una gravidanza quando non si è nella situazione psicologica, relazionale o lavorativa adatta, ha un grosso impatto sulle traiettorie di vita di molte donne, soprattutto le più giovani: nel caso in cui non vi siano le condizioni socioeconomiche necessarie, il costo di un figlio, già molto alto per qualsiasi famiglia, sarà particolarmente gravoso. Un’ulteriore aggravante è data dal fatto che le categorie per le quali il costo di figli indesiderati risulta particolarmente alto – come nel caso di persone economicamente svantaggiate, donne sole e ragazze adolescenti – sono anche quelle che generalmente riportano tassi maggiori di gravidanze non pianificate, con conseguente maggiore bisogno di ricorrere all’aborto, anche a causa della non gratuità della contraccezione, il cui costo è tale da non renderla universalmente accessibile. La Figura 1 mostra i livelli di gravidanze indesiderate e non pianificate per fasce di età. A 15 anni, l’85% delle gravidanze sono non pianificate e il 40% non volute. Questi tassi calano progressivamente al crescere dell’età del concepimento, raggiungendo il 25 e 10 per cento per ragazze di 26 anni.
Figura 1 – Tipi di gravidanza per fascia di età
Minori possibilità di interrompere gravidanze indesiderate e diseguale distribuzione all’interno dei diversi strati economici della società del peso di tale situazione, ha come conseguenza un sostanziale peggioramento delle condizioni socioeconomiche di molte donne, nel breve e lungo periodo, che si traduce in una maggiore probabilità di aver bisogno di assistenza pubblica e vivere sotto la soglia di povertà, e di sperimentare un crescente stress finanziario nell’anno della nascita del figlio. Sul mercato del lavoro, le conseguenze di gravidanze indesiderate gravano in maniera diseguale su uomini e donne, da un lato, per la presenza di tante madri single che devono occuparsi esclusivamente dei figli, dall’altro, per l’iniqua divisione delle mansioni di cura all’interno delle coppie, che fa sì che siano generalmente le donne a decidere di restare a casa o accettare lavori part-time per prendersi cura dei figli. Svariate ricerche mostrano come un maggiore accesso al servizio di interruzione di gravidanza si traduca per le donne in un maggiore tasso di occupazione, una maggiore partecipazione al mercato del lavoro, salari più alti, e maggiore probabilità di lavorare full time. La Figura 2 mostra che, a 6 mesi dalla nascita di un figlio, il 61% delle donne che volevano abortire ma non ci sono riuscite (Turnway-birth) vive sotto la linea di povertà, mentre fra coloro che hanno ottenuto un aborto (Near limit) questa percentuale cala al 45%.
Figura 2 – Trends nei livelli di povertà delle famiglie fino a 5 anni dopo aver ottenuto o meno un aborto: Stati Uniti, 2008-2016
A ciò si aggiungono fattori culturali e strutturali: in economia è ormai riconosciuta la presenza del cosiddetto premio salariale di cui spesso godono gli uomini sposati e penalità salariale riservata invece alle madri. Questo è tanto più rilevante in un paese come l’Italia, gravato da norme di genere ancora molto tradizionali, che si riflettono sia nell’altissima percentuale di obiettori di coscienza fra i medici – che rende estremamente complicato per molte donne poter ottenere un’interruzione di gravidanza – che sulla struttura del mercato del lavoro e dei servizi di supporto ai genitori. In Italia, le madri hanno diritto a 5 mesi di maternità, mentre i padri a 10 giorni, fattore che rende, in primo luogo, le donne molto più assenti dai luoghi di lavoro rispetto alla loro controparte maschile, e, in secondo luogo, disincentiva i datori di lavoro a promuovere e assumere donne in età riproduttiva – si pensi al recente scandalo intorno alle dichiarazioni dell’imprenditrice Elisabetta Franchi.
Considerando poi gli effetti del diritto all’aborto sulle adolescenti e le giovani donne, bisogna considerare che avere un figlio da giovanissima cambia completamente la traiettoria scolastica e lavorativa di una donna. La letteratura riporta come concedere il diritto all’aborto comporti una maggiore probabilità di finire gli studi e quindi salari futuri maggiori e crescenti possibilità occupazionali.
Il ciclo degli effetti secondari che passano per il mercato del lavoro è molto importante: minori possibilità lavorative e ridotto potere economico si traducono in una diminuzione sia dell’autonomia delle donne, che del loro potere contrattuale, cui corrisponde una diminuzione della capacità di contrastare la violenza di genere, sia all’interno che all’esterno della famiglia. All’interno della coppia, l’arrivo di un figlio rende più difficile per una donna abbandonare la relazione violenta, sia per ragioni economiche che emotive. Sfruttando i dati raccolti nell’ambito del Turnaway Study – una raccolta di interviste fatte nel tempo a donne recatesi in 30 cliniche americane nella speranza di ottenere un aborto – Roberts et al. (2014) stimano che ottenere un aborto, rispetto a non ottenerlo, sia associato ad una riduzione nel tempo della violenza da parte dal partner. La loro conclusione è che avere un figlio con uomo violento, rispetto a ottenere un aborto, renda difficile per una donna lasciare la relazione.
Al di fuori della famiglia, minori possibilità lavorative, minore autonomia e potere contrattuale rendono le donne più a rischio di violenza e molestie. Si pensi a quanto sia più complicato opporsi alle molestie sessuali sul luogo di lavoro quando non si è nella posizione di poter rinunciare a quel lavoro o quanto l’essere in difficoltà economiche possa spingere molte donne ad accettare posizioni lavorative che le espongono ad un più elevato rischio di violenza – è il caso, per esempio, di professioni che comportano turni di notte.
Vi sono infine importanti effetti sulla salute mentale delle donne che portano a termine gravidanze indesiderate, che si riflettono poi sul benessere e lo sviluppo dei bambini stessi, dato che la depressione materna è fortemente collegata a problemi di sviluppo sia fisico che cognitivo nei bambini e dunque al loro benessere.
Il quadro degli effetti sulle donne della limitazione del diritto all’aborto è dunque complesso ma decisamente negativo: il costo per le donne di modelli di società che prevedono limitazioni dei loro diritti riproduttivi è molto pesante, ed è pesante anche per le società stesse che si privano del loro talento e subiscono i costi economici ed emotivi del declino della loro salute psicofisica.
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Luca Neri
Care autrici, ritengo la 194 una buona legge e sarei favorevole a una seria limitazione dell’istituto dell’obiezioni di coscienza per medici che operano all’interno o per conto del sistema sanitario pubblico. Tuttavia, trovo alcuni passaggi del vostro articolo francamente non condivisibili e addirittura male informati. Quando affermate che l’aborto spontaneo e l’interruzione volontaria di gravidanza non siano clinicamente e moralmente distinguibili commettete un grave errore. Sia dal punto di vista clinico, che dal punto di vista morale e psicologico sono fenomeni completamente diversi. Non dovrebbe esserci bisogno di spiegarlo. L’aborto spontaneo è causato da patologie del feto o condizioni dell’utero incompatibili con la vita e che spontaneamento conducono alla morte del feto stesso. Le conseguenze psicologiche di questo evento sono intense e tal volta perdurano nel tempo, perchè generalmente la madre (e talvolta il padre) che desiderano procreare, stabiliscono immediatamente un legame affettivo con il feto e non si aspettano, non sono preparati alla morte del feto. Questo non è chiaramente il caso in molte interruzioni volontarie della gravidanza. Non dico che non sia possibile provare sentimenti di lutto nei casi di interruzione volontaria di gravidanza, specialmente nei casi in cui l’aborto è deciso per gravi patologie del feto o per tutelare la salute fisica della madre. Dico che le condizioni in cui avviene (motivazione, volontarietà, possibilità di determinare entro certi limiti la tempistica dell’intervento) chiaramente creano differenza importanti nell’esperieza individuale delle madri e nella solidarità sociale che ne consegue. segue…
Francesca M
“…Le conseguenze psicologiche di questo evento sono intense…” in base a quali studi? Io ho avuto un aborto terapeutico di un embrione (cercato e voluto) e non ho riscontrato particolari problemi psicologici. Il legame con un figlio partorito e cresciuto è ben diverso. Come dici tu stesso, le esperienze delle madri sono molto diverse, non generalizzare solo in base alle tue impressioni.
Luca Neri
Non sono impressioni. C’è un’ampia letteratura medica a sostegno di quanto ho affermato. Le donne che hanno un aborto spontaneo hanno un rischio fortemente aumentato di disturbo post traumatico da stress (per intenderci, la stessa malattia psichiatrica riscontrata nei reduci di guerra!) mentre le donne che scelgono di interrompere la gravidanza non hanno alcun rischio aggiuntivo di disturbo post traumatico da stress. Mi sembra sia lei ha trarre conclusioni generali dalle sue esperienze personali.
1. Farren J, Jalmbrant M, Falconieri N, Mitchell-Jones N, Bobdiwala S, Al-Memar M, Tapp S, Van Calster B, Wynants L, Timmerman D, Bourne T. Differences in post-traumatic stress, anxiety and depression following miscarriage or ectopic pregnancy between women and their partners: multicenter prospective cohort study. Ultrasound Obstet Gynecol. 2021 Jan;57(1):141-148. doi: 10.1002/uog.23147. PMID: 33032364.
2. Cumming GP, Klein S, Bolsover D, Lee AJ, Alexander DA, Maclean M, Jurgens JD. The emotional burden of miscarriage for women and their partners: trajectories of anxiety and depression over 13 months. BJOG. 2007 Sep;114(9):1138-45. doi: 10.1111/j.1471-0528.2007.01452.x. Epub 2007 Jul 26. PMID: 17655731.
3. Horesh D, Nukrian M, Bialik Y. To lose an unborn child: Post-traumatic stress disorder and major depressive disorder following pregnancy loss among Israeli women. Gen Hosp Psychiatry. 2018 Jul-Aug;53:95-100. doi: 10.1016/j.genhosppsych.2018.02.003. Epub 2018 May 16. PMID: 29934032.
4. https://bmcwomenshealth.biomedcentral.com/articles/10.1186/1472-6874-13-52
Luca Neri
Il secondo grave errore commesso in questo articolo risiede nell’interpretazione della sentenza che ha annullato Roe vs Wade. La sentenza attuale ha semplicemente rimandato al congresso o agli Stati membri della federazione l’onere di normare la questione inerente all’interruzione volontaria di gravidanza. Non ha affatto abolito il diritto a tale pratica. Roe vs Wade aveva stabilito che l’interruzione volontaria di gravidanza fosse un diritto costituzionale e aveva perfino definito criteri molto stringenti (trimester rules) alle prerogative legislative di congresso e Stati membri. Questo assetto è oggettivamente discutibile tanto che in nessun altro Stato al mondo il diritto all’interruzione volontaria di gravidanza è scritto in costituzione ma è invece normato da leggi ordinarie. La sentenza di qualche giorno fa riporta gli USA in linea con il resto dei paesi democratici. Quella sentenza aveva creato un vulnus istituzionale perchè aveva di fatto avocato ad un organo giudiziario la prerogativa legislativa, uno sbilanciamento di poteri eccessivo persino nell’ambito della common law. Sta ora a Biden chiedere al congresso che producano una normativa civile e libertaria.
Luca Neri
“A ciò si aggiungono fattori culturali e strutturali: in economia è ormai riconosciuta la presenza del cosiddetto premio salariale di cui spesso godono gli uomini sposati e penalità salariale riservata invece alle madri […] disincentiva i datori di lavoro a promuovere e assumere donne in età riproduttiva “. In questo passaggio si fanno innumerevoli speculazioni scarsamente supportate dai dati. Se è vero che gli uomini guadagnano di più dopo il matrimonio, e ancora di più dopo la nascita dei figli e il contrario è vero per le donne, questo non avviene per discriminazioni contro le donne. Avviene perchè gli uomini aumentano le ore lavorate, accettano lavori più impegnativi, cambiano più frequentemente azienda per aumentare il salario rispetto alle donne che privilegiano orari ridotti e maggiore flessibilità per poter gestire la cura dei figli. Questa scelta avviene all’interno delle famiglie ed è il più delle volte il metodo più efficiente per ottimizzare la produttività del tempo dedicato al lavoro retribuito. Si prosegue affermando che l’eccessivo ricorso all’obiezione di coscienza è collegata alla cultura tradizionalista italiana ma non esiste alcuna evidenza che questo sia vero. L’interruzione di gravidanza è una pratica psicologicamente e fisicamente impegnativa, e faticosa per i ginecologi che, ricordiamolo, sono oggi al 60% donne. Il collegamento al trade off tra protezione della maternità e accesso al mercato del lavoro è una occasione persa di far luce su un problema controverso ma importantissimo. E’ vero che la prolungata assenza dal lavoro delle donne a causa della maternità, in una fase della vita lavorativa nella quale si accumula capitale umano e costruiscono occasioni di carriera future, è un enorme svantaggio competitivo per le donne. Questo aspetto viene spesso taciuto nel dibattito pubblico e porre il problema è certamente meritorio. Tuttavia la soluzione non può essere, come sembrano suggerire le autrici, aumentare il congedo paterno obbligatorio, soprattutto in un paese come l’Italia, in cui la produttività non cresce da 20 anni! Occorre eliminare il congedo obbligatorio di maternità (come in USA), specialmente per professioni impiegatizie, e stabilire un congedo volontario (con % decrescente nel tempo di sostituzione del reddito) disponibile alle famiglie
e allocabile, secondo la preferenza delle famiglie, al padre o alla madre, indistintamente.
Luca Neri
Anche il passaggio finale sulla violenza domestica mi pare parziale. Ho letto entrambi gli articoli e l’identificazione dell’effetto causale è tutt’altro che chiara. In Roberts et al. le donne che non hanno ottenuto l’interruzione volontaria di gravidanza provengono da classi sociali significativamente più deprivate che le donne che sono riuscite a richiedere l’interruzione volontaria di gravidanza (e quindi ottenerla) entro il periodo stabilito dalla legge. Questo è un fattore fondamentale di confondimento ed è onestamente difficile ritenere che i proxy usati per l’aggiustamento statistico abbiano eliminato l’errore sistematico. Inoltre, studi sempre più convincenti dimostrano che la violenza domestica è per lo più bidirezionale e le vittime sono equamente distribuite tra i sessi. In entrambi gli studi non è stato valutato il tasso di vittimizzazione dei padri o degli attuali compagni della madre. Nel caso di una maggior prevalenza di male victimization o bidirectional violence nelle coppie che non hanno avuto accesso all’aborto, sarebbe un’evidenza contraria alla reduced bargaining power theory di cui ci parlano le autrici e indicherebbe con maggior probabilità una relazione spuria tra incapacità di richiedere entro i termini di legge l’interruzione di gravidanza, disagio sociale, tendenza a subire/perpretare violenza.
1) Costa, D., Soares, J., Lindert, J. et al. Intimate partner violence: a study in men and women from six European countries. Int J Public Health 60, 467–478 (2015). https://doi.org/10.1007/s00038-015-0663-1
2) Archer J. Sex differences in aggression between heterosexual partners: a meta-analytic review. Psychol Bull. 2000 Sep;126(5):651-680. doi: 10.1037/0033-2909.126.5.651. PMID: 10989615
3) Bates, Elizabeth, Graham-Kevan, Nicola and Archer, John (2014) Testing predictions from the male control theory of men’s partner violence. Aggressive Behavior, 40 (1). pp. 42-55.
4) Bates, Elizabeth (2016) Current controversies within intimate partner violence: overlooking bidirectional violence. Journal of Family Violence, 31. pp. 937- 940(