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Gli studenti stranieri in Italia sono troppo pochi

Gli studenti italiani tendono molto a studiare all’estero, sia temporaneamente che per tutto il ciclo di studi. Ma le università italiane non sono in grado di attirare molti stranieri.

Il grado di internazionalizzazione dell’università è uno dei criteri su cui valutare la qualità dell’offerta didattica di un paese. Da questo punto di vista, nel confronto con la media Ocse, l’Italia ha dei numeri piuttosto deludenti, registrando una “fuga di cervelli” verso l’estero da parte di molti studenti, che non è compensata dagli arrivi di studenti stranieri nel nostro paese.

Nel 2020, quasi 80 mila ragazzi italiani hanno frequentato un’università straniera all’interno dei paesi Ocse. Si tratta del 4 per cento del totale degli studenti universitari iscritti in Italia. Come mostrato in Figura 1, è un dato che, in termini relativi, ci accomuna a molti paesi in via di sviluppo.

D’altra parte, si potrebbe sostenere che la percentuale di studenti che lasciano il paese per studiare all’estero non è così diversa da quella di Francia e Germania, che si attesta anche in questi paesi intorno al 4 per cento. Sarebbe un ragionamento corretto: il fatto che i propri talenti non si fermino all’interno dei confini nazionali, ma si specializzino e mettano a frutto le proprie qualità all’estero dovrebbe essere motivo di orgoglio per il nostro paese. Il problema è che, allo stesso tempo, l’Italia dovrebbe essere in grado di attirare altrettanti talenti dal resto del mondo. Francia e Germania riescono in questo obiettivo: gli studenti stranieri iscritti nei loro atenei sono rispettivamente il 9 e l’11 per cento del totale. In Italia, invece, ci si ferma al 3 per cento. Come sul mercato del lavoro, il nostro paese lascia partire molti giovani di talento e non è in grado di attirarne altri dall’estero.

La scarsa attrattività degli atenei italiani viene sottolineata anche dai numeri sugli studenti Erasmus. È vero che l’Italia è una delle principali destinazioni per gli studenti che partecipano al programma, ma, anche in questo caso, gli studenti italiani che frequentano un periodo di studio all’estero grazie all’Erasmus sono più degli stranieri che decidono di passare un periodo di studio in Italia attraverso lo stesso programma.

Chi sono gli studenti stranieri in Italia

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Come in buona parte dei paesi Ocse, il continente maggiormente rappresentato tra gli studenti stranieri  è l’Asia, soprattutto per il peso di Cina e India (il terzo paese per numero di studenti è l’Iran). Proviene dall’Asia quasi metà degli studenti stranieri, mentre un terzo arriva dall’Europa. In Figura 4 è mostrata la distribuzione della provenienza per area geografica.

Anche in questo caso seguendo le tendenze degli altri paesi, il numero di studenti stranieri aumenta al crescere del livello di corso. Come già detto, in media gli studenti stranieri sono il 3 per cento, ma sono il 4 per cento nelle lauree magistrali e il 16 per cento nei corsi di dottorato. Sembrerebbe un dato piuttosto elevato, ma è inferiore a quello di Francia (38 per cento), Portogallo (33), Germania (23) e Spagna (19).

Non sono disponibili dati per singoli paesi, ma, in media, gli studenti stranieri che studiano nei paesi Ocse tendono a concentrarsi sulle materie Stem (Science, Technology, Engineering e Mathematics). In Italia, la percentuale di laureati in materie scientifiche è piuttosto bassa (poco meno del 20 per cento tra i 20-29enni, contro il 27 per cento circa della media Ue). Un ulteriore motivo per aumentare il numero di studenti stranieri nel nostro paese.

Il primo passo è aumentare i corsi in inglese

Soprattutto a livello di laurea triennale, sono poche le università italiane a offrire corsi in inglese. Si tratterebbe di un primo fondamentale passo per attirare studenti stranieri, che difficilmente decidono di aggiungere l’apprendimento di una nuova lingua, peraltro parlata da un numero limitato di persone nel mondo, agli impegni richiesti dagli studi universitari. Del resto, la preparazione degli studenti italiani è nella maggior parte dei casi insufficiente a frequentare un corso in inglese. Nelle prove Invalsi 2022, oltre il 60 per cento degli studenti di quinta superiore non raggiungeva il livello B2 nell’ascolto in inglese (più del 20 per cento non raggiungeva il B1). Finché non si educheranno gli studenti all’internazionalizzazione, a partire dalla padronanza dell’inglese, sarà difficile attirare capitale umano dall’estero.

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Redditi in Italia in cinque grafici

16 commenti

  1. Lorenzo Luisi

    Cercavo dati sull’argomento dell’articolo e … li ho trovati.
    Posto che il problema/soluzione individuato dal dott. Taddei non mi lascia del tutto soddisfatto (solo per lo snobismo della lingua inglese?) continuo a chiedermi cosa (altro) potrebbe indurre uno studente asiatico a preferire, con tutto il rispetto, Norvegia o Slovenia etc. all’Italia? Sbocchi in campo lavorativo? Ovvero clima e cibo (fattori dei quali ci pregiamo di avere)?
    P.S. Complimenti per le soluzioni grafiche

    • Angelo

      Capisco l’importanza che gli studenti italiani vadano all’ estero per arricchire la loro esperienza, mentre non mi è chiaro quale sia il vantaggio delle università italiane nell’avere un alto numero di studenti stranieri. Un fatto di prestigio?

      • Luigi

        Dal mio punto di vista ci sono almeno 4 motivazioni:
        1. Se vi sono studenti stranieri attratti dal sistema universitario italiano significa che e’ di qualita’.
        2. Studenti stranieri con diversi background arricchiscono il capitale di conoscenze e esperienza del sistema formativo italiano
        3. Studenti stranieri portano capitali e spendono in Italia redditi acquisiti all’estero
        4. Dopo 2,3 o 5 anni di studio in Italia ci si lega al Paese. Avremo stranieri, altamente istrituiti, che tornano nei loro Paesi con l’Italia nel cuore. Verosimilmente acquisteranno all’estero prodotti italiani, torneranno in vacanza e se avranno posizioni di potere avranno sempre un occhio di riguardo per il nostro Paese

  2. Savino

    Il Paese dei balocchi è poco attrattivo per lo studio.

  3. Catullo

    Non so se ho dati errati io ma gli studenti Stem in Italia dovrebbero essere circa il 24%, meno della media Ue ma comunque non così lontani:
    https://www.orizzontescuola.it/mancano-laureati-stem-in-italia-il-24-e-solo-il-15-donne-oltre-4-aziende-su-10-non-trovano-candidati/#:~:text=Cresce%20la%20domanda%20di%20profili,scelto%20di%20studiare%20queste%20materie.
    https://www.i-com.it/2022/03/03/laureati-ict-numeri-crisi/
    Semmai ci sarebbe da capire come mai sono così poche le donne che pure superano gli uomini come percentuale di laureati, mi viene il dubbio che sia un retaggio patriarcale per cui se un uomo non fa una laurea con cui si può trovare bene lavoro spesso preferisce evitare di studiare.

  4. Marco Trento

    Non sono d’accordo con quanto si scrive in questo articolo. Imporre l’inglese alle magistrali e alle triennali non è la soluzione, e questo per molti motivi. Primo, c’è una sentenza della Corte Costituzionale che non permette alle università di sostituire l’italiano come lingua di insegnamento. Bisognerebbe introdurre corsi di laurea paralleli, ma le università sono sottofinanziate e non se lo possono permettere. Secondo, la barriera linguistica è un falso problema. Chiediamo alle badanti ucraine di 50 anni di imparare l’italiano (e il dialetto degli anziani) e non si può chiedere a un brillante ventenne di imparare la nostra lingua? Pensate veramente che per uno studente sudamericano che parla lingue affini all’italiano (spagnolo o portoghese) o per un africano di lingua francese, l’italiano sia una barriera? Terzo: l’esperienza olandese e tedesca mostra che i corsi in inglese aiutano ad attirare studenti stranieri, ma non a trattenerli una volta laureati. Apprendere la lingua del posto è fondamentale per fare restare i ragazzi e il modo migliore per farlo è studiare nella lingua del posto. Altrimenti paghiamo con le tasse di tutti le lauree di studenti indiani che poi tornano in India ad lavorare. Una perdita secca. Quarto, il grande ostacolo all’arrivo di studenti stranieri è legato alla scarsa qualità generale delle università italiane cronicamente sottofinanziate e burocratizzate. Una università mediocre in inglese resta mediocre. Quinto, le lauree in inglese non hanno senso per gli studenti italiani perché si impara meglio nella lingua materna. Inoltre si impone una ulteriore pressione sui licei a introdurre insegnamenti in inglese, sottraendo spazio all’italiano laddove molti ragazzi hanno ancora problemi a imparare l’italiano. L’anglificazione, insomma, non è la soluzione: è parte del problema. Un problema da affrontare su scala europea e globale con una tassazione a carico dei paesi anglofoni con cui coprire i costi delle politiche linguistiche a favore del plurilinguismo. Solo loro a fare i “free rider”.

    • Massimo Taddei

      Soprattutto in certi ambiti (economia e materie Stem) l’inglese è troppo importante per fare finta che imparare in italiano sia la stessa cosa. Sicuramente aumentare la conoscenza dell’inglese e il numero di corsi in lingua non è LA soluzione, ma secondo me rimane un passo importante. Il suo commento mi sembra ignorare la necessità della conoscenza della lingua franca (perché questo è l’inglese) per trovare il proprio spazio nel mondo. Capisco le sue osservazioni (e la ringrazio per averle scritte), ma in buona parte non le condivido.

      • Fulvio Volpe

        La ringrazio della risposta, ma a mio avviso qui si stanno mescolando due cose molto diverse. Una cosa è imparare l’inglese, un’altra cosa è chiedere a professori non madrelingua di insegnare a studenti non madrelingua materie non linguistiche. Uno studente di economia o fisica può benissimo studiare in italiano e imparare l’inglese nel centro linguistico di ateneo. Ma tenere classi dove professori tutti italofoni insegnano a studenti tutti italofoni (con magari qualche eccezione di studente dall’Asia) non ha alcun senso pedagogico, nuoce alla qualità della trasmissione del sapere (cioè le competenze remunerate nel mercato del lavoro). Si impara meglio nella lingua madre, lo dicono tutti gli studi. Le politiche linguistiche all’università dovrebbero essere scritte da linguisti ed esperti, non da ingegneri o chimici, così come il linguista non costruisce ponti e non scrive formule. Per saperne di più suggerisco l’articolo “Per un’internazionalizzazione realmente plurilingue delle Università” in Italiano Digitale, vol 1, p. 77-80 (2017).

        • Massimo Taddei

          Gli studenti non dovrebbero essere tutti italiani e i professori nemmeno, come avviene nelle università di tutta Europa. Bisogna imparare l’inglese dell’economia, della giurisprudenza, della psicologia, della fisica ecc, non l’inglese di conversazione (anch’esso utilissimo ovviamente). Nessuno si stupisce che per studiare la letteratura spagnola sia necessario conoscere lo spagnolo, ma le materie tecniche, secondo molti, si possono studiare in italiano. Non è così: bisogna usare la lingua che si utilizza per trasmettere e condividere il sapere e le nuove scoperte; nella maggior parte dei casi, l’inglese. Dire che studiare in inglese è controproducente perché ci sono solo studenti italiani mi sembra un circolo vizioso. La domanda si crea con l’offerta, sicuramente anche di corsi di qualità (carenza enorme del nostro paese), ma anche con offerta di corsi fruibili da studenti esteri. Lei parla del fatto che gli studenti potrebbero sforzarsi di imparare l’italiano: io sono andato un semestre in Erasmus in Ungheria, avrei dvuto imparare l’ungherese? E non mi dica che è diverso perché l’italiano è più utile dell’ungherese perché, a parte declamare Dante a una festa per impressionare i commensali stranieri, non è molto pratico all’uso.

          • Pietro Della Casa

            L’uso dell’inglese a lezione, almeno per corsi destinati alle lauree di primo e secondo livello, mi sembra davvero assurdo, visto che renderebbe di norma più complessa la vita sia ai docenti che ai discenti, essendo entrambi in maggioranza italiani. E -aggiungo – di persone che parlano in un patetico miscuglio di italiano ed inglese entrambi sgrammaticati ne abbiamo già abbastanza. La conoscenza dell’inglese diventa poi una necessità per leggere/scrivere la maggior parte della letterutura scientifica ed interagire col resto del mondo, ma per pensare la propria lingua funziona meglio… quindi direi che ha senso “passare all’inglese” a livello di dottorato (al limite) e post-doc. Importante eccezione alla sopracitata regola sarebbe naturalmente il caso in cui si potessero assumere i migliori docenti a livello internazionale, a quel punto varrebbe la pena di permettergli di far lezione in inglese. La vedo dura…
            La presenza di studenti stranieri non è invece in generale un vantaggio per la qualità dell’insegnamento o dell’apprendimento (e perché mai dovrebbe? anzi…) ma piuttosto un sintomo dell’appetibilità di un dato ateneo o dell’intero sistema universitario.

          • Massimo Taddei

            Ho già ampiamente risposto sopra. Dire che insegnare e apprendere in inglese nell’università di oggi sia assurdo è un’affermazione che può essere fatta solo da chi non frequenta l’università da molti anni. Le persone con un dottorato in Italia sono lo 0,5 per cento della popolazione adulta. Quelle che hanno una laurea il 15 per cento. Se richiedere che il 15 per cento “più intelligente” d’Italia sappia comprendere e parlare fluentemente l’inglese per lei è troppo, non so che farci.

          • Michele Volpato

            Mi dispiace ma sono in totale disaccordo con l’autore. Una politica linguistica come quella da lei suggerita porta alla graduale dialettizzazione dell’italiano e a gravissime fratture sociolinguistiche fra elite e popolazione. Chi studia solo in inglese fin dalla triennale non acquisirà la terminologia specialistica in italiano (che esiste ovviamente), e non la saprà usare nel mondo del lavoro di riferimento, né saprà trasmetterla. Il sapere deve circolare nella popolazione. Dobbiamo avere medici (stranieri) che non sanno parlare ai pazienti? Virologhi che non sanno comunicare col popolo? Economisti che non sanno scrivere una legge di bilancio comprensibile ai cittadini? Fisici che non sanno rendere edotta la popolazione sui fenomeni naturali perché conoscono solo la versione inglese? La divulgazione e la crescita culturale di una nazione hanno bisogno di università dove si usa il repertorio alto della lingua. Umberto Eco diceva che una lingua è un dialetto con un’università. Anche i professori stranieri in Italia devono sapere insegnare in italiano, non abbiamo bisogno di torri d’avorio e politiche linguistiche neocoloniali. In Danimarca hanno due anni per imparare il danese. Pena il mancato rinnovo del contratto. L’egemonia dell’inglese ci impoverisce e va gestita in modo da limitarne i danni. Ormai molta letteratura tecnica come i brevetti è in cinese, giapponese e coreano. Il mondo sta cambiando. Continuo a non capire perché in Italia in materia di politiche linguistiche non si ascoltano gli esperti. Suggerisco il libro ”l’inglese non basta” di Villa.

        • Pietro Della Casa

          L’articolo suggerito offre effettivamente materiale su cui sarebbe bene riflettere.

  5. CARLO

    Mi chiedo quanto sia facile ottenere un visto di ingresso in Italia per studio. Temo che da molti paesi sia molto difficile viste le nostre politiche di immigrazione.

    • Jeriko

      Non credo ci sia la fila per ottenere il visto per studio in Italia.
      Concordo maggiormente con i commenti precedenti, ritenendo che la mancanza di studenti stranieri in Italia, (in particolare per le materie stem,) rifletta anche la nostra situazione economica.
      Un Paese viene percepito come avanzato principalmente dalla sua economia e dal suo sistema educativo avanzato (universita); le due cose ovviamente procedono in parallelo, anche se a noi piace pensare di poter avere ottime universita in un deserto industriale.

      Che piaccia o meno , non siamo piu un´economia cosi avanzata e non c´e alcun appeal.

      E´ lo stesso motivo per cui tendenzialmente ci sono pochi studenti che dall´Italia vanno a studiare in Albania (le universita ci sono anche li eh), senza nulla togliere a quel Paese.

  6. Giorgio C

    Questo articolo è un’accozzaglia di luoghi comuni. I corsi in inglese vanno fortemente limitati, e non aumentati. Stanno contribuendo al crollo del numero di laureati italiani (e abbassando la qualità della didattica) e non aumentano il numero di studenti stranieri. I pochi che si laureano in inglese in Italia, inoltre, spesso lasciano l’Italia perché non hanno una padronanza sufficiente dell’italiano, quindi dopo aver investito su di loro non riusciamo a inserirli nel nostro tessuto produttivo. Tanto che dal 2021 il Politecnico di Milano obbliga a un esame di lingua italiana prima di laurearsi. In Olanda e Germania se ne parlava già da 10 anni. Gli studenti investono nello studio dell’italiano se hanno possibilità di lavorare in Italia o con l’Italia, paese del G7 e ottava economia del mondo. Smettetela di mettere in giro queste stupidaggini su un’idea tutta sballata di “internazionalizzazione”.

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