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L’ISTRUZIONE FA LA DIFFERENZA

Il tetto al numero di alunni stranieri per classe annunciato dal ministro Gelmini risponde anche al timore che “troppi” immigrati possano pregiudicare l’apprendimento degli italiani. Ma è una preoccupazione confermata dai dati? Utilizzando quelli delle indagini Pisa, si vede che il fattore cruciale non è la quantità, ma la qualità: nei paesi che incentivano l’ingresso di immigrati relativamente istruiti un eventuale incremento della percentuale di studenti stranieri nelle classi finisce per arricchire il contesto formativo e favorire l’apprendimento dei nativi.

In una recente disposizione, il ministro della Pubblica istruzione Mariastella Gelmini ha fissato limiti massimi di presenza nelle singole classi di studenti stranieri con ridotta conoscenza della lingua italiana. In particolare, il numero degli alunni con cittadinanza non italiana presenti in ciascuna classe non potrà superare di norma il 30 per cento del totale degli iscritti. (1)

INTEGRAZIONE E APPRENDIMENTO

Il problema al quale si vuole porre rimedio sembra essere duplice: da una parte, un numero troppo elevato di immigrati, presumibilmente con limitate capacità linguistiche, rischia di creare delle classi “ghetto”, pregiudicando così la possibilità di integrazione nella comunità nazionale. D’altra parte, “troppi” immigrati in una classe possono pregiudicare l’apprendimento dei nativi, perché le risorse umane sono concentrate necessariamente sulla componente più debole.
Mentre il primo problema è ampiamente riconosciuto, ci chiediamo se vi sia evidenza convincente di una relazione negativa tra percentuale di immigrati in una data classe e risultato scolastico dei nativi, nel nostro caso gli italiani. Per rispondere a questa domanda usiamo le indagini Pisa, condotte dall’Ocse nei paesi membri, che contengono i risultati di test standardizzati volti a misurare le competenze nella lettura (e in matematica e scienze) di un campione rappresentativo di quindicenni iscritti alla scuola secondaria, siano essi italiani o immigrati. (2)

UN CONFRONTO FRA STUDENTI

Il semplice paragone dei risultati medi di italiani appartenenti a classi con diverse percentuali di immigrati non è utile in quanto gli studenti, sia nativi che immigrati, non sono assegnati alle classi o alle scuole in modo casuale. Ad esempio, se studenti italiani con minor talento tendessero a finire in scuole o classi con un maggior numero di immigrati, otterremmo dal paragone tra classi una relazione negativa tra percentuale di immigrati e risultato scolastico dei nativi. Tale relazione però sarebbe spuria e non potremmo dire che un’elevata percentuale di immigrati sia la causa dei risultati carenti degli italiani che condividono la stessa classe.
Al fine di depurare i nostri dati dall’effetto di selezione degli studenti nelle scuole o nelle classi, consideriamo dati medi nazionali e compariamo i risultati medi dei nativi in paesi che differiscono nella percentuale di studenti immigrati. Poiché però i paesi differiscono tra loro anche in molte altre dimensioni, è utile disporre per ciascun paese di informazioni ripetute nel tempo. Possiamo così mettere in relazione la variazione nella percentuale di immigrati con la variazione nei risultati medi conseguiti dagli studenti nativi, depurando l’effetto stimato della pluralità di fattori istituzionali che caratterizzano paesi diversi, ma che non variano nel tempo.
Le indagini Pisa sono state condotte nel 2000, 2003 e 2006 e consentono quindi di utilizzare la nostra strategia di stima in un periodo di crescenti flussi migratori. Infatti, in molti paesi Ocse, la percentuale di studenti immigrati è variata in modo anche sensibile durante questi sei anni.
Utilizzando dati di 25 paesi Ocse, troviamo che, se raddoppiassimo la percentuale di immigrati nelle classi frequentate dai quindicenni, il risultato medio dei nativi nei test di lettura diminuirebbe appena dell’1,3 per cento per i maschi e dello 0,9 per cento per le donne.
Certo, si potrebbe obiettare che l’effetto dell’immigrazione nelle classi è più forte nella scuola primaria e secondaria inferiore, e tende a diminuire nella scuola superiore. Una seconda obiezione è che la percentuale di immigrati nelle scuole superiori è relativamente bassa, e che l’intensità dell’effetto negativo della quota di immigrati sui risultati scolastici dei nativi non sia costante, ma aumenti quando il numero di immigrati supera una qualche soglia critica. Si tratta di obiezioni plausibili alle quali, per carenza di dati, non possiamo rispondere. Possiamo però chiederci se l’effetto sui risultati dei nativi della quota di immigrati vari con le caratteristiche degli stessi. Ad esempio, possiamo usare i dati Ocse sul livello medio di istruzione degli immigrati presenti nei paesi Ocse nel 2000.
Data l’importanza riconosciuta del contesto familiare, se i figli degli immigrati che frequentano le scuole secondarie hanno genitori poco istruiti, è possibile che l’effetto che esercitano sui nativi sia più negativo di quello che si avrebbe con figli di immigrati più istruiti.
La figura mostra i risultati: per molti paesi, tra cui il Giappone e gli Stati Uniti, raddoppiare la percentuale di immigrati nelle classi dei quindicenni non ha effetto alcuno sui risultati dei nativi. Per alcuni paesi, tra i quali la Norvegia, il Canada, la Svizzera e la Nuova Zelanda, il livello di istruzione medio relativamente elevato degli immigrati favorisce l’apprendimento dei nativi: se raddoppiassimo la quota di immigrati con caratteristiche simili alle attuali nelle classi, i test di lettura dei nati in Norvegia e Nuova Zelanda aumenterebbero tra il 5 e il 15 per cento. In altri paesi, tra cui l’Italia, la Francia e la Spagna, dove l’istruzione media degli immigrati è particolarmente bassa, raddoppiare la presenza nelle classi di stranieri con caratteristiche simili alle attuali ha un effetto negativo ma modesto sulla performance dei nativi, che diminuisce di meno del 5 per cento (circa l’1 per cento in Italia).
Da questa analisi emerge che il fattore cruciale non è la quantità, ma la qualità dell’immigrazione: nei paesi che incentivano l’ingresso di immigrati relativamente istruiti – il Canada, l’Australia, la Svizzera e la Nuova Zelanda – un eventuale incremento della percentuale di studenti stranieri nelle classi finisce per arricchire il contesto formativo e favorire l’apprendimento dei nativi.

Figura: Percentuale di variazione della performance dei nativi in presenza di un raddoppio della presenza di immigrati in classe, per paese e livello di istruzione medio degli immigrati.

(1) Circolare ministeriale n. 2 dell’8 gennaio 2010.
(2) Definiamo immigrati gli studenti con nati all’estero da genitori stranieri.

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I LIMITI DELLA VALUTAZIONE IMPOSTA PER LEGGE

  1. paolo cesario

    Premessa: sono contrario alla regolamentazione degli stranieri così come sarei stato contrario a quella dei figli di meridionali negli anni 60. Questo non perchè la cosa non porti un disagio ad alcuni, ma perchè tale disagio puntuale (purtroppo per alcuni) porta in tempi relativamente brevi a un più rilevante vantaggio sociale per la comunità (una più rapida integrazione): l’unica affermazione sensata della Gelmini infatti è quella di evitare classi getto che finiscono per diminuire tale vantaggio. Sinceramente tanta fatica di analisi statistica mi lascia perplesso: come gli stessi autori fanno rilevare, il dato disponibile relativamente a 15enni non mi sembra istintivamente molto rilevante. Gli stranieri che arrivano alle superiori provenengono per la maggior parte da scuole italiane, hanno quindi già superato i problemi di lingua e dovrebbero avere motivazione paragonabile almeno a quella dei nativi più scarsi; ho difficoltà quindi a identificare un significato statistico. Cercare di appoggiarsi alla statistica per dimostrare che uno svantaggio non esiste invece di dichiararlo moralmente necessario secondo me non fa un grande favore alla statistica.

  2. GIOVANNI INGROSOS

    Un serio articolo sul 24 ore di alcuni giorni fa, fa notare come questo tetto del 30% in realtà ha come effetto collaterale l’impossibilità di creare classi ghetto per gli immigrati, infatti non vieta ad essi di studiare, ma fa sì che le classi siano miste. E’ vero che la Gelmini non è un "granchè " ma magari, forse per sbaglio, ne fa anche qualcuna buona.

  3. padanus

    I supporti statistici dell’articolo mi paiono traballanti. Inoltre il dato "italia" per l’istruzione è di per se stesso poco significativo. Mentre in Padania si è spesso come e sopra la media europea, al sud il test Pisa mostra spesso livelli scolastici in linea con paesi in via di sviluppo. Lo stesso vale per gli immigrati nelle classi, % alte al nord, % basse al sud. Quindi se l’impatto medio è solo del -1%, l’effetto è tanto maggiore in Padania e quanto minore al sud (diversa concentrazione di immigrati). Il problema è l’italia, servirebbero dati disaggregati.

  4. R.Z

    Mia moglie è insegnante elementare da parecchi anni e la sua esperienza conclude che porre un tetto sia una cosa ragiionevolissima, anzi, il 30 % è ancora una quota elevata. Oppure bisognerebbe che nella classe non ci fossero altri bambini con problemi, in genere lasciati all’iniziative e impegno dell’insegnante, senza sostegni di alcun tipo, quindi.

  5. maria di falco

    Le indagini ed i dati statistici sono utilissimi, soprattutto per i politici che dovrebbero usarli per le scelte e decisioni politiche. Tuttavia, nel caso del tetto del 30% vorrei dire come valutazione generale (al di là di analisi statistiche puntuali) che se lo spirito è quello di non creare ghetti sono d’accordo. Penso infatti a come sarebbe diversa la realtà italiana della Puglia, della Calabria se ad esempio a fare i braccianti agricoli non fossero tutti immigrati sottopoagati e sfruttati, ma ci fossero anche gli italiani. Questo significherebbe tante cose: che il lavoro manuale non è considerato un lavoro di seconda categoria, che gli uomini non sono considerati in base al lavoro svolto, ma in quanto uomini, che il lavoro agricolo non è all’ultimo gradino della scala sociale, che lo sfruttamento non sarebbe così atroce, che c’è uno Stato che si prende cura dell’integrazione, sia degli immigrati sia delle fasce deboli della popolazione autoctona, uno Stato che pensa al benessere della collettivtià, della quale man mano che il tempo passa si aggiungono individui provenienti da paesi diversi a causa dei movimenti migratori. E’ tutta questa cornice che manca, purtroppo!

  6. Adriano Stabile

    Articolo interessantissimo e analisi ben fatta. Alle critiche di Paolo Cesario, ne aggiungerei però un altra: E’ possibile che le scuole con più immigrati, si trovino nelle località più ricche e sviluppate del mondo, che hanno di per se, una scuola più efficiente. O anche che, gli anni in cui un paese ha un economia più forte, sono anche gli anni in cui quel paese attira più immigrazione, magari anche di qualità; e al contempo sono anche gli anni in cui il paese può permettersi un maggiore investimento in scuola. Infine, per quanto riguarda l’immigrazione di qualità, potrebbe essere proprio l’ottimo stato di salute di un sistema scolastico ad attirare immigrazione ( questa ultima questione è più teorica che reale, e si può trascurare ). Riprendendo i primi due punti, si potrebbe dare una chiave di lettura più verosimile, sul perchè i gli anni in cui si registrano maggior immigrati nelle scuole ( in canada e alcuni altri paesi) sono anche gli anni in cui si registrano migliori risultati scolastici. La tesi dell’arricchimento culturale, a 15 anni, è poco credibile. Comunque bellissimo studio che merita di essere corretto e approfondito.

  7. Robert

    Questi discorsi mi sembrano un po’ ingenui. In altri paesi le grandi comunità di stranieri hanno colonizzato intere aree dove sono la maggioranza o la quasi totalità, ragione per cui in molte scuole, per es. qui a Londra, i bambini stranieri o di minoranze etniche sono il 100%. Viste le gravi tensioni e le differenze culturali, economiche e sociali, i vari gruppi etnici tendono sempre di più a separarsi e a vivere in luoghi diversi. Ma non solo: le stesse comunità di stranieri organizzano le loro scuole: la scuola araba per gli arabi, quella hindu per per indiani, quella ebraica per gli Haredi e così via. In Italia succederà presto esattamente la stessa cosa. Non bisogna illudersi troppo circa l’integrazione. Essendo io un italiano all’estero che ha vissuto in vari paesi, so perfettamente che la parola non ha nessun significato. E poi: perché integrarsi in una cultura della volgarità, del degrado materiale e morale come la cultura di massa dell’Occidente di oggi? A volte mi sembra che i fondamentalisti abbiano in fondo ragione, e hanno certamente ragione a tenere i loro figli lontani da tutti questo. Fino al prossimo rimescolamento di carte della Storia, che è ormai alle porte.

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