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Se al Nord la scuola passa alle regioni

Il confronto tra spesa storica e spesa standard per l’istruzione mostra che le regioni del Nord risultano penalizzate rispetto a quelle del Sud. Un passaggio di competenza sulla scuola non provocherebbe dunque danni economici alle altre zone del paese.

La spesa per l’istruzione

Nel dibattito sul regionalismo differenziato (articolo 116 della Costituzione) si sottolinea spesso che il riconoscimento di maggiori e importanti competenze ad alcune regioni, se associato a un finanziamento basato sulla spesa storica, finirebbe per “cristallizzare” le differenze già presenti nella dotazione dei servizi pubblici fra le diverse parti del paese.

Per entità della spesa, per la natura dei servizi e per l’assoluta rilevanza dello stato, l’istruzione pubblica rappresenta un punto di riferimento per molti aspetti emblematico.

In Italia, le responsabilità di spesa per l’istruzione e la formazione extra-universitaria sono articolate come segue:

  • lo stato si fa carico del personale insegnante e amministrativo delle scuole di sua competenza, che vanno dall’infanzia sino alle superiori – compresi gli istituti professionali;
  • le regioni si occupano della formazione professionale integrativa o sostitutiva di quella statale, avvalendosi generalmente di strutture private accreditate;
  • le province e le città metropolitane sostengono gli oneri dei servizi ausiliari e dell’edilizia della scuola secondaria superiore, nonché dei centri di formazione professionale eventualmente loro affidati dalle regioni;
  • i comuni si occupano dei servizi ausiliari e dell’edilizia della scuola primaria e secondaria di primo grado; per la scuola dell’infanzia provvedono all’edilizia e forniscono i servizi ausiliari per quella statale, sostengono per intero gli oneri di quella comunale, versano contributi discrezionali alle scuole private convenzionate.

Fanno eccezione le tre piccole autonomie speciali dell’arco alpino – Valle d’Aosta, Trentino e Alto Adige – che da decenni hanno competenza diretta e finanziano con risorse proprie tutta la scuola e anche l’università. Nel resto d’Italia il complesso della spesa pubblica corrente per l’istruzione extra universitaria è pari a circa 51,6 miliardi di euro e per il 90 per cento risulta in capo allo stato (i dati si riferiscono ai pagamenti in conto competenza e residui, calcolati come media per il triennio 2016-2018). Agli enti locali compete all’incirca il 9 per cento. Alle regioni va un residuale 1 per cento. 

I valori pro capite della spesa per l’istruzione variano in maniera piuttosto ampia: da un minimo di 764 euro della Liguria a un massimo di 1.072 per la Calabria. Valori analoghi si osservano anche per quanto riguarda la spesa dello stato, che per sua natura dovrebbe garantire l’eguale trattamento di tutti i territori: 661 euro per la Liguria e 1.028 per la Calabria.

La spesa standard per l’istruzione

Se l’istruzione dovesse diventare oggetto di decentramento differenziato alle regioni è del tutto evidente che le disparità di spesa “storica” potrebbero essere accettate solo se adeguatamente giustificate. Come si è già fatto per la finanza dei comuni, in attuazione del rinnovato titolo V della Costituzione, occorrerebbe dunque stimare la dotazione finanziaria di cui necessita la regione per gestire l’istruzione, facendo riferimento a indicatori di fabbisogno (oggettivi e indipendenti dalle discrezionalità della politica) che descrivano esclusivamente le caratteristiche demografiche e morfologiche dei territori interessati.

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Applicando questa metodologia, le differenze regionali nella spesa pro capite per l’istruzione statale risultano spiegate per oltre il 90 per cento da tre indicatori di fabbisogno: il numero di studenti, il numero di scuole e la densità della popolazione. In particolare, la spesa è tanto più alta quanto maggiori sono il numero di studenti e il numero delle scuole in rapporto agli abitanti. Il ruolo svolto dalla densità va ricercato invece nella necessità di garantire un accesso “uniforme” a tutta la gamma del servizio istruzione, tenendo conto delle distanze da coprire: pertanto la spesa è minore nelle regioni densamente abitate ed è maggiore dove invece vi è più dispersione.

La somma per abitante che ogni regione dovrebbe ottenere sulla base del peso standard-nazionale, associato ai locali fabbisogni, non è molto dissimile da quella storica. Dai calcoli emerge che gli scostamenti generalmente non superano il 5 per cento, con la sola esclusione della Puglia al Sud (+6 per cento) e del Veneto al Nord (-9 per cento). 

Scuole e scuole standard

Molto meno omogenea è invece la situazione che caratterizza le dotazioni di strutture scolastiche. Non c’è alcun apparente nesso di causalità fra fabbisogni e offerta di strutture: a parità di popolazione scolastica relativa, il numero di scuole può risultare anche doppio.

Se ripetiamo il calcolo dei fabbisogni standard anche per il numero delle scuole in rapporto alla popolazione, la diversa offerta di strutture scolastiche si spiega, per oltre il 90 per cento, con fattori strettamente legati alla natura del territorio. In particolare, il numero delle scuole in rapporto alla popolazione dipende:

  • dalla quota di popolazione che risiede in zone classificate come montagna interna: al suo crescere aumenta il numero relativo di scuole;
  • dalla relativa dimensione demografica: quanto meno popolata è una regione, maggiore sarà il numero relativo di scuole rapportate ai residenti.

Nelle realtà di montagna e meno abitate, infatti, il numero delle scuole è relativamente più elevato per poter garantire alla popolazione un accesso all’istruzione “uguale” a quello della pianura, anche in termini di possibili opportunità di specializzazione formativa. 

Applicando questi parametri nazionali ai dati ragionali, si può stimare lo standard che si osserverebbe se tutti i territori fossero trattati allo stesso modo rispetto agli specifici bisogni. Il risultato è un numero molto simile al dato della dotazione storica – le differenze sono quasi ovunque inferiori al 5 per cento. Fanno eccezione Calabria, Campania, Sicilia e Sardegna, dove lo scarto rispetto allo standard supera sempre il 20 per cento e sfiora il 60 per cento per la Calabria.

Si tratta di quattro regioni che, di fronte al calo demografico e alla necessaria razionalizzazione dell’offerta, hanno ridotto il numero di scuole in misura inferiore a quella riscontrata nel resto del paese. Rispetto al 1980, il Veneto – con un calo dei nuovi nati del 20 per cento – ha diminuito il numero di scuole del 23 per cento; in Lombardia il calo è del 18 per cento, con il 14 per cento in meno di nati. Invece la Campania, con un calo dei nuovi nati del 46 per cento, ha ridotto il numero di scuole del 29 per cento; la Sicilia, con il 47 per cento di nati in meno, lo ha diminuito del 20 per cento; anche in Calabria il numero di scuole è sceso, ma in misura comunque insufficiente, perché il dato medio di iscritti medio per scuola è di 105, contro i 134 dell’Abruzzo, i 205 della Puglia e i 119 della vicina e piccola Basilicata.

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L’esercizio della spesa standard può essere esteso anche all’impatto della numerosità delle scuole, sostituendo al valore effettivo del numero di scuole quello prima calcolato come standard. Le differenze fra le diverse tipologie di spesa sono quasi ovunque contenute. In generale, la spesa “storica” è di poco superiore o inferiore a quella standard per la quasi totalità dei territori del Centro-Nord – salvo che per Lombardia, Veneto ed Emilia Romagna; è maggiore in quasi tutte le regioni del Sud, con picchi significativi soprattutto per la Calabria, la Sicilia e la Sardegna.

Cosa cambia con la competenza regionale

Non è la dotazione di risorse destinate all’istruzione statale a fare la differenza fra le regioni. Il vero problema della scuola italiana, come evidenziano i risultati dei test Invalsi, sono le diverse capacità dei sistemi territoriali dell’istruzione di conseguire esiti uniformi nei livelli formativi. Al Sud, con risorse finanziarie tendenzialmente più favorevoli, i bambini che in seconda elementare hanno punteggi del tutto paragonabili al resto d’Italia, mano a mano che proseguono negli studi perdono sempre più posizioni. E la Calabria, la più avvantaggiata nella spesa, fa peggio di tutti.

Da questo punto di vista, dalla richiesta di alcune regioni del Nord di esercitare in autonomia le competenze in materia di istruzione, finanziandosi in base alla spesa storica – che di fatto le penalizza – non deriverebbe alcun svantaggio economico per i restanti territori del paese. I vincoli dell’ordinamento statale all’organizzazione e ai contenuti dei percorsi formativi non verrebbero certamente meno, come dimostra ad esempio l’esperienza del Trentino. Se poi, con risorse locali, queste regioni decidessero di fare qualche cosa in più, ciò che accadrebbe non sarebbe dissimile da quanto avviene con i comuni o dal favorire implicitamente lo sviluppo di una offerta privata o del privato sociale.

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Il Punto

  1. bob

    L’ Italia ha bisogno come il pane di un Sistema- Paese ( sarebbe da studiare un pò il percorso storico dal dopoguerra ai ns giorni)
    ..altro che di 21 signorie dove sguazzano solo soggetti la cui massima aspirazione “è il confine del quartiere”
    Il Titolo V è la priorità assoluta da rivedere comprese anche le attuali ” autonomie”

  2. Maurizio Cortesi

    Nel confrontare il calo dei nati con quello delle scuole dal 1980 ad oggi bisognerebbe evidenziare quali erano le consistenze iniziali per regione, quindi troverei più utile il confronto tra le dinamiche del numero medio di iscritti per scuola e vedere se l’attuale sottodimensionamento non è magari anche spiegato dal sovraffollamento di allora. Le critiche al sud in generale per me sono motivate, ma debbono essere circostanziate altrimenti si rischia di non capire perché quello che appare, e magari effettivamente è, uno spreco possa essere considerato in loco un progresso. Comunque interessante l’analisi e i dati forniti. Mi pare che anche per la scuola una riorganizzazione degli enti locali con soppressione delle province e drastico accorpamento dei comuni da sostituire con circondari -o cantoni, distretti, comprensori chiamamoli come vogliamo – e città quando abitanti e densità abitativa sono molto alti, con un unico bilancio sia chiaro e una scala territoriale significativa, per esempio almeno 60 kmq che sono solo 2 decimillesimi del territorio nazionale ma che ad esempio in Lombardia è riscontrata in soli 49 dei 1506 comuni esistenti, sia strategica.

  3. Michele Lalla

    A me sembra la serie: “Quando i ricchi piangono”. Forse i fratelli d’italia non conoscono i confini e l’unità dell’Italia e si realizza il sogno leghista della divisione (scissione) del paese, ritornando alla situazione pre 1860, con la gioia dei lighisti che tornano serenissimi.
    Poi, non facevano schifo le scuole del sud?
    O si vuole alimentare il dualismo nord-sud?
    L’articolo è benzina sul fuoco: non ho altre parole. Sono esterrefatto.

    • Filippo Macis

      Gentile signor Lalla,
      condivido pienamente le sue preoccupazioni.
      Disunire regionalizzando la scuola.
      Aggiungo che si sono già fatti troppi danni con la sanità.

      Cordiali saluti
      Filippo

  4. Roberto

    Desidero far presente la situazione di estrema precarietà della formazione professionale di competenza regionale data in gestione a enti privati accreditati. Mi riferisco in particolare al Veneto. Il CCNL non rinnovato dal 2013. L’assenza degli insegnanti di sostegno. L’orario medio settimanale di docenza in aula di 26 ore rispetto alle 18 dei colleghi delle statali. L’assenza di collaboratori scolastici in orario scolastico poiché le pulizie sono appaltate ad aziende esterne che operano in orario extrascolastico.

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