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Cosa significa “poter lavorare”?

Gli “occupabili” riceveranno il reddito di cittadinanza solo per sette mesi. Assieme alla nozione di povero abile, torna così una visione categoriale del sostegno al reddito che contrasta con qualsiasi forma di universalismo, peraltro mai davvero accettato.

Torna la categoria del povero abile

La centralità del tema del reddito di cittadinanza nella campagna elettorale ha portato, come prevedibile, alla decisione del governo Meloni di abolire la misura a partire dal primo gennaio 2024 e di ridurla, nell’ultima versione del disegno di legge di bilancio, a soli sette mesi per gli “occupabili”. La proposta tiene fede alla promessa contenuta nel programma di Fratelli d’Italia, ed è tanto semplice e intuitiva, e dunque efficace in fase di comunicazione, quanto scivolosa nell’applicazione e pericolosa nelle possibili conseguenze. L’idea è quella di “abolire il reddito di cittadinanza per introdurre un nuovo strumento che tuteli i soggetti privi di reddito, effettivamente fragili e impossibilitati a lavorare o difficilmente occupabili” e di puntare su percorsi di formazione e inserimento lavorativo “per chi è in grado di lavorare”.

In attesa di conoscere il testo definitivo della legge di bilancio, rimane aperta la questione di come sarà individuata la categoria degli “occupabili” nel periodo transitorio, ma soprattutto nella misura che lo sostituirà.

Non ci sono, a ben vedere, novità sostanziali nella proposta, ma c’è invece il ritorno di una categoria da secoli al centro del dibattito e soggetta a processi di stigmatizzazione, i cosiddetti “poveri abili”. È però una categoria che funziona nel dibattito pubblico e nelle semplificazioni del senso comune assai meglio che in un processo decisionale che mira a produrre leggi e politiche. Nel farsi categoria normativa, infatti, la nozione di “povero abile” mostra tutta la sua indefinitezza e la difficoltà di traduzione in definizioni operative, e lascia intravedere tutti i rischi e le contraddizioni di una sua applicazione.

La scomparsa del “contesto”

Chi sono coloro che non possono lavorare? Nel testo della manovra in discussione in Parlamento vengono menzionati gli over 60, i nuclei con minori e persone disabili, insieme alle categorie che già nel Rdc erano esentate dalla sottoscrizione dei patti. Le caratteristiche individuali che rendono le persone non occupabili sono però lungi dall’essere ben definite e sicuramente anche agli estensori della norma non sfuggirà l’elementare considerazione che le persone con disabilità possono, eccome, lavorare, così come gli over sessanta e, altrettanto chiaramente, i genitori (anche quelli single). Emerge qui un primo paradosso del farsi norma della categoria di povero abile. Con l’intento di costringere quest’ultimo a non dipendere dalle finanze pubbliche si finisce per istituzionalizzare la categoria dei non occupabili, che sono sì titolari di un maggior diritto al sostegno al reddito, in quanto poveri incolpevoli, ma al contempo privati simbolicamente della possibilità di divenire soggetti attivi nel mercato del lavoro, con buona pace di chi nel tempo ha sostenuto quella battaglia.

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Quel che giustifica l’inserimento in una categoria che ha diritto a un reddito non sono, e non possono essere, le sole caratteristiche individuali, ma piuttosto i mercati del lavoro che generano barriere alla loro occupabilità, o la mancanza di adeguate misure di conciliazione. L’elemento del contesto, nella sua accezione larga che comprende gli assetti socio-economici e l’offerta di policy, è quindi imprescindibile nel definire l’occupabilità. L’intervento normativo che si proponga di farlo si trova inevitabilmente di fronte a una scelta che definire dilemmatica è addirittura riduttivo. O si dividono le persone sulla base delle loro caratteristiche (fisiche, familiari, di capitale umano, e altro), rischiando così di istituzionalizzare, per differenza, l’esclusione dal lavoro, o si accetta che la caratteristica dell’occupabilità sia determinata non tanto (o soltanto) dai soggetti, quanto piuttosto dai contesti in cui questi si trovano a operare. Ma allora, come distinguere la persona con disabilità da un ventenne single in piena salute all’interno di un contesto che non offre possibilità di occupazione (adeguata) a entrambi? In altri termini, se l’impossibilità di lavorare dipende dalla mancanza di lavoro, come operare distinzioni tra chi a quel mercato del lavoro prova ad accedere?

La scarsa visibilità di questa evidente contraddizione ricalca un processo di progressiva individualizzazione e responsabilizzazione della condizione di povertà ben noto da molto tempo, che sembra ormai quasi naturalizzato. Lo slittamento del focus dall’impoverimento alla povertà ha comportato, nel tempo, una “scomparsa dei contesti” nell’analisi della povertà e nell’elaborazione delle risposte di policy, che non riguarda solo le istituzioni, ma che chiama in causa anche parte del dibattito scientifico.

Riportare al centro i contesti e il mercato del lavoro appare invece opportuno per molte ragioni, prima fra tutte quella di mettere un freno alla confusione tra volontà e possibilità di lavorare, che ben si presta a strumentalizzazioni e che alimenta il processo di stigmatizzazione. Il corollario di uno sguardo stretto sulla dimensione individuale è infatti che chi non lavora pur avendo le caratteristiche per farlo manca di volontà o, al più, di capacità adeguate. La risposta, dunque, non può essere che la revoca dei benefici e la sostituzione con percorsi formativi.

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La strada intrapresa dall’esecutivo rinforza una tradizionale resistenza (non solo italiana) a considerare il reddito come un diritto, al pari della salute ad esempio. In direzione contraria a qualsiasi forma di universalismo, anche quello selettivo (che, semplificando, prevede interventi per tutti, purché poveri o, in senso più ampio, bisognosi), la proposta di intervento segna il ritorno di una visione categoriale, che a ben vedere non era mai stata del tutto superata, se si pensa all’esclusione della gran parte degli stranieri dal reddito di cittadinanza. Chiedersi cosa significhi davvero “poter lavorare” non ha dunque solo la funzione di individuare il giusto target della misura, ma di aprire una riflessione sul senso di operazioni di categorizzazione che, inevitabilmente, finiscono per distinguere individualmente i buoni dai cattivi.

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  1. Fabrizio

    Occupabile è un individuo per il quale è disponibile un’offerta di lavoro “appropriata”. That’s all. Mi sembra non esistano paradisi a disoccupazione zero. Tralasciando che i beneficiari finali del reddito son quelli che lo incassano, non i percettori. Il reddito è anche un’iniezione di domanda interna, per dirla con economisti premi Nobel.

    • Firmin

      Continuo a trovare surreale che una legge faccia riferimento ad una semplice probabilità (di trovare una occupazione) piuttosto che a fatti verificabili (p.es. aver rifiutato una proposta di lavoro congrua). E’ paradossale che questo approccio sia propugnato da un governo che dichiara di considerare sacra la presunzione di innocenza e non da qualche funzionario nord-coreano.

    • Rambler

      Giorgia Meloni ha scoperto che “i lavori dignitosi ci sono”. Bella scoperta, qualunque lavoro secondo me è dignitoso…quello che purtroppo non vuole vedere è che a non essere dignitose spesso sono le retribuzioni. Forse anziché accanirsi contro chi non accetta lavori sottopagati o non riesce a trovare nemmeno un lavoro sottopagato dovrebbe preoccuparsi di fare sì che qualunque lavoratore abbia una paga congrua. Ma così metterebbe a rischio buona parte dei voti del suo elettorato, più semplice prendersela con i più indigenti: è la politica bellezza!

      • Francesco

        Concordo. Poi, come ho scritto nell’altro commento sotto, non c’è solo la questione retributiva. Anche i tempi per andare e tornare dal luogo di lavoro contano! Per non parlare di chi dovesse spostarsi: andare a vivere altrove non è gratis. Non vivere la famiglia è un problema, la vita è fatta di relazioni, amicizie.
        Tempo fa ci fu alla cronaca il caso di quel lavoratore che ha rifiutato “il posto di lavoro dei suoi sogni” alla Ferrari, dove avrebbe preso 1700-1800 euro al mese: ma ha fatto i suoi conti ed ha visto che con le spese che avrebbe dovuto affrontare per stare fuori di casa, non ci stava! (tra l’altro lui prende di più col lavoro che ha). Io mi auguro davvero che si metta mano alla questione con estrema razionalità, il lavoro è anche dignità, è orgoglio, ma bisogna fare bene i conti, una cosa è rifiutare un lavoro vicino casa, un’altra rifiutarne uno che assomiglia ad una schiavitù.
        Termpo fa in tv ci fu un confronto tra una imprenditrice di Brescia (settore metallurgico) ed un disoccupato di Napoli: di fronte all’invito della prima di andare al lavoro a Brescia, “giustamente” il disoccupato rispose “ma perché non assume disoccupati di Brescia? Devo spostarmi io da Napoli?”. Con qualche tara, ma le persone hanno anche le famiglie, le loro vite, i genitori. Non sono questioni irrilevanti.

  2. Gaetano Proto

    Purtroppo gli errori grammaticali della proposta del governo sono ancora peggiori di quelli che individua l’articolo. L’errore più grande è quello di non riconoscere l’esistenza della povertà stessa, cioè di una condizione che può riguardare chiunque (perfino gli occupati e i loro nuclei) a prescindere dalla sua collocazione rispetto al mercato del lavoro.
    Un altro mancato riconoscimento riguarda l’esistenza della disoccupazione (invollontaria), ivi compresa quella di lunga durata, che a sua volta non riguarda solo i poveri. Quindi occupare a tutti i costi gli occupabili tra i poveri (ammesso che siano ben individuabili), oltre a essere materialmente impossibile in varie aree del paese, significherebbe aggravare la condizione dei disoccupati non poveri (per esempio i giovani di famiglie non povere).
    Infine, l’approccio all “occupabilità” non è solo categoriale, ma coinvolge arbitrariamente le tipologie familiari: una coppia senza figli = 2 occupabili è conforme al senso comune, ma una coppia con un figlio minore = 0 occupabili non lo è.

  3. Luca Bandiera

    L’uso di categorie per definire chi ha accesso al RDC non preclude l’accesso di queste persone al mercato del lavoro. Piuttosto la riduzione, probabilmente sostaziale, di chi puo ricevere il RDC non e’ stata accompagnata da riforme per facilitare l’occupazione, soprattutto di chi ha un eta’ tra i 18 e 34 anni e l’occupazione delle donne.

  4. Francesco

    Mi distacco un poco dal contenuto dell’articolo, ma mi preme scrivere quanto segue.
    Ho un lavoro buono e sicuro, posso quindi ragionare sul RdC con un po’ di razionalità, non avendo personale “interesse” nell’argomento. Per ragioni di spazio devo sintetizzare.
    Con i buoni pasto prendo sui 2000 euro al mese, 100 vanno via per il treno. Lavoro a 50 km da casa, ho una rete efficiente di mezzi pubblici, me la cavo con due ore di viaggio. Diciamo che un lavoro di questo tipo va bene, non dovrebbe essere rifiutato.
    Qui però si ragiona che una persona dovrà accettare il primo lavoro che gli capita. Allora ragioniamo anche di dignità e decenza? Un lavoro da 1200 euro netti al mese, in un posto dove non ci sono collegamenti validi, diciamo quindi che uno debba magari fare 4 ore di viaggio, spendere 100 euro di abbonamenti (e non parliamo dovesse usare la macchina!): sarebbe giusto non poterlo rifiutare? A me pare di no.
    Voglio sperare si tenga anche conto di altre situazioni, famiglia, figli, disabili, assistenza a persone (uno che fa, prende 1100 euro e poi deve spenderne di più per una badante che guardi il genitore?).
    I politici fanno presto a riempirsi la bocca col “vai a lavorare”, loro quando si spostano si prendono trasferte rimborsi e di tutto di più… Ci sarà un motivo se il RdC c’è in tutti i paesi! E peraltro, la situazione in Italia è peggiore che altrove, nel senso che abbiamo pezzi di paese dove è ben difficile trovare un lavoro decente vicino casa.
    Tra l’altro, sarò paradossale, ma meno male che finora il sistema di collocamento non ha funzionato. Mi spiego. Col sistema attuale, e più ancora con quello ipotizzato per il futuro, può succedere che una offerta “ufficiale” proveniente dal sistema, di un lavoro diciamo “indecente” per stipendio, tempi e situazioni, può finire per “buttare fuori” dal RdC non una sola, ma una serie di persone che “giustamente” lo ritengano inaccettabile. Una unica offerta di lavoro. Grazie dell’attenzione. (Non mi firmo per esteso perché ho fornito alcuni dati che vorrei tenere riservati).

  5. Xenia

    “Poter lavorare” non significa nulla. Vivo in un luogo dove per poter fare 80 km con il treno ci vogliono quasi due ore, così da sempre non hanno mai fatto nulla per migliorare in cinquant’ anni. I politici vivono di stipendio statale quindi non sanno minimamente cosa significa lavorare, tantomeno la Meloni statale lei e statale la sorella che ovviamente lavora in Regione a Roma. I concorsi statali sono truccati da anni, in passato con stipendio a vita ci sono finite intere famiglie di raccomandati. Lo stipendio per una commessa/commesso è meno di mille euro. Se cerchi lavoro e sei over 30 risulti vecchio per leggi di sbarramento assurde che facilitano solo gli under 24. Di cosa questi individui stanno parlando non si sa, non conoscono nulla del vero mondo del lavoro.

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