Le persone che lavorano per le famiglie, per lo più stranieri, sono di gran lunga il gruppo più importante di occupati non regolari. Tra gli impegni del Pnrr c’è la riduzione del lavoro irregolare. Gli interventi per farlo vanno disegnati con attenzione.
I numeri del lavoro domestico e di cura
Dopo Cipro, l’Italia è il paese europeo con la più alta percentuale di lavoratori il cui datore di lavoro è una famiglia, secondo le indagini sulle forze di lavoro Eurostat. Nel 2020 ben il 3,6 per cento dei dipendenti è costituito da lavoratori (o meglio sarebbe dire lavoratrici, perché per quasi il 90 per cento sono donne) che aiutano le famiglie nei lavori domestici o si prendono cura delle persone anziane. Più che agli aspetti culturali, ciò si può attribuire al costo del lavoro molto basso, anche per la diffusissima evasione contributiva, ma soprattutto alla grave carenza dei servizi alle famiglie, pubblici e privati: l’Italia è, dopo la Grecia, il paese dell’Europa occidentale ove minore è la percentuale di occupati nei servizi sociali rispetto alla popolazione.
Per lo più stranieri
Secondo l’indagine Istat sulle forze lavoro, poco meno del 70 per cento di chi dichiara di svolgere un lavoro domestico o di cura non ha la cittadinanza italiana: dei circa 740 mila occupati, quasi 170 mila sono cittadini di un altro paese dell’Unione europea (per lo più dell’Est) e oltre 340 mila hanno la nazionalità di un paese non Unione europea. Per di più il dato è molto sottostimato sia perché parecchie persone che lavorano poche ore o in modo irregolare si dichiarano inattive, sia perché il campione dell’indagine è tratto dalle famiglie registrate nelle anagrafi e quindi non comprende le persone occupate non legalmente residenti, tra le quali moltissime lavorano in nero per le famiglie, come risulta da tutte le sanatorie degli immigrati irregolari. Anche nell’ultima, avviata nel 2020, tra le domande presentate, oltre l’85 per cento riguardava il lavoro domestico.
Una diffusissima irregolarità della condizione lavorativa
Si comprende perché nelle stime di contabilità nazionale, che includono anche gli immigrati che lavorano senza permesso di soggiorno, gli/le occupati/e alle dipendenze da una famiglia ammontino a quasi 1.500.000, con un tasso di irregolarità che supera il 52 per cento. Pertanto, coloro che lavorano in nero per una famiglia costituiscono il 39 per cento dei dipendenti senza un regolare rapporto di lavoro e il 26 per cento di tutti i lavoratori in nero, indipendenti compresi.
Tre le conclusioni che si possono trarre:
a. il fortissimo sfasamento tra le stime di contabilità nazionale e le rilevazioni delle forze di lavoro, non registrato per altri settori, conferma che tra chi lavora in nero per le famiglie molti sono immigrati/e senza permesso di soggiorno (che nel complesso nel 2019 sono stimati in oltre 500 mila, un livello inferiore solo a quello raggiunto negli anni 2000 prima delle grandi sanatorie);
b. coloro che lavorano per le famiglie costituiscono di gran lunga il gruppo più importante di occupati non regolari;
c. escludendo costoro, il tasso di irregolarità del lavoro dipendente in Italia si ridurrebbe di ben 2 punti percentuali, dall’11 al 9 per cento.
Problemi non facili da risolvere
Nella vecchia stagione di lotta al lavoro nero, dal 1999 al 2002, conclusasi con esiti deludenti secondo le stime di contabilità nazionale e i rari studi che ne hanno tentato una valutazione (la riduzione del tasso di irregolarità, infatti, dipese tutta dalle imponenti sanatorie dell’immigrazione), l’accento era posto solo sul lavoro in agricoltura, nelle costruzioni e nella manifattura. Ora, poiché tra gli impegni presi per il Piano nazionale di ripresa e resilienza vi è quello di ridurre di 2 punti percentuali la percentuale di lavoro irregolare (ora oltre il 12 per cento, la più alta dell’Europa occidentale), in un mercato del lavoro sempre più terziarizzato, non è più possibile trascurare interventi sul lavoro per le famiglie. Ma questi interventi devono presentare caratteristiche particolari, poiché l’impossibilità di entrare nelle case impedisce la tradizionale politica di contrasto fondata sulle ispezioni.
1. Molte domestiche e badanti non possono avere un contratto di lavoro perché senza permesso di soggiorno, dunque occorre: a. permettere allo straniero irregolare da un certo periodo di tempo di regolarizzare lo status giuridico in presenza di un datore di lavoro disposto ad assumerlo (una sorta di sanatoria permanente); b. prevedere l’ingresso per ricerca di lavoro grazie a una famiglia-sponsor che offra adeguate garanzie (procedura già prevista, ma abolita dopo un solo anno). Politiche verso l’immigrazione permettendo, cosa non facile nell’attuale situazione governativa.
2. Occorre che l’Inps costruisca un sito dedicato (o meglio ancora una app, come in altri paesi anche non europei), ove una famiglia possa facilmente gestire le assunzioni. Oggi il sito Inps è di difficile accesso e per nulla rivolto all’utente. In particolare, dovrebbe essere di diretto e facile accesso e uso il Libretto famiglia, un sistema di voucher quasi sconosciuto, i cui limiti potrebbero anche essere innalzati per renderlo più simile al modello francese.
3. Non occorre aumentare gli sgravi fiscali, poiché i contributi previdenziali per il lavoro domestico sono bassi e già parzialmente deducibili dalla dichiarazione dei redditi del datore di lavoro, anche se la norma è quasi sconosciuta dalle famiglie. Ulteriori sgravi potrebbero esser previsti in caso di necessità e per famiglie a medio-basso reddito.
4. Chi lavorava in nero rischia di dover pagare al fisco somme elevate per le imposte evase in caso di emersione del rapporto: quel pagamento andrebbe attribuito interamente al datore di lavoro. Così si ridurrebbe il rischio di connivenza tra lavoratore/lavoratrice in nero e famiglia e aumenterebbe la deterrenza.
5. Attualmente l’indennità di accompagnamento in caso di disabilità è erogata alla famiglia senza alcun vincolo di utilizzo. Invece, come in molti paesi europei, potrebbe in tutto o in parte essere vincolata all’assunzione regolare di personale o al pagamento di rette per case di riposo. Una norma simile già vige per alcune erogazioni aggiuntive in Emilia-Romagna.
6. Secondo il modello adottato dall’Agenzia delle entrate, l’Inps dovrebbe applicare una azione di compliance verso le famiglie, identificando quelle con caratteristiche di necessità e di reddito tali per cui potrebbero aver assunto in nero domestiche o badanti e inviando loro lettere di attenzione e di sollecito a mettersi in regola. Ovviamente, norme sulla privacy permettendo.
7. Infine, si può sperare che il Pnrr consenta di aumentare l’offerta di servizi sociali per l’infanzia (asili nido) e gli anziani (case di riposo) e così di ridurre l’abnorme ricorso di parte delle famiglie a personale per il lavoro domestico e di cura.
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Mara Tognetti
Caro Emilio
Nella tua analisi come sempre la realtà è distante. Il punto 3 è assolutamente da rivedere.
Gli sgravi fiscali sono irrisori rispetto ai costi sostenuti per un lavoratore regolare.
Mara Tognetti
Luca Neri
Sono completamente d’accordo che l’analisi è completamente scollata dalla realtà del paese. Il lavoro delle colf e delle baby sitter consente a molte donne di lavorare e In alcune aree del paese è impossibile vivere senza avere due redditi full time. Tuttavia i redditi da lavoro dipendente sono bassissimi. E’ chiaro che i costi di regolarizzazione sono così elevati e la pressione fiscale e contributiva così alta che una stretta sul lavoro domestico comporterebbe una compressione molto importante di questo mercato con conseguenze non triviali sull’occupazione femminile e il reddito complessivo delle famiglie. Possiamo anche avere un atteggiamento moralistico sulla fiscalità, ma difficilmente questo produrrà effetti socio-economici desiderati. La fame di soldi di questo Stato sprecone è insaziabile. Lo dico come lavoratore dipendente il cui netto è solo il 35% del costo aziendale.
Luca Neri
Aggiungo che il costo netto di una colf a Milano è circa 11 euro all’ora. Lo stipendio lordo medio nella città è di circa 31000, che corrisponde ad un netto di 11 euro all’ora. La regolarizzazione del lavoro di aiuto domestico porterebbe il costo orario a circa 15 euro all’ora. Una donna con uno stipendio nella media cittadina dovrebbe lavorare 1h e 20′ per ogni ora di servizi in casa. E’ chiaro che questo tipo di mercato, alle condizioni economiche del paese, può reggersi solo su ampio ricorso al lavoro nero.
G.L.F.
Uno stato serio e democratico non spreca il denaro altrui.
Soprattutto non fa arricchire i ladri di stato, chi ARRAFFA ODIOSI PRIVILEGI, impone tasse al di sopra della spesa utile al cittadino ed estortive.
Le tasse oltre il 10 % sul reddito netto detratte tutte le spese, rappresentano un vero furto di stato comunista da correggere per eliminare i fannulloni e i ladri.
Bruno Perin
Il tema posto da Reyneri è presente da molti anni ma scarsamente preso in considerazione dalla politica tutta.
Se l’obbiettivo è di permettere alle famiglie di poter curare un proprio familiare, potendo accedere a prestazioni di ausilio, occorre sciogliere un nodo a monte. NON ABDICARE ALLE BADANTI LA CURA DELLA PERSONA.
Sciolto questo nodo occorre esaminare tutti gli aspetti dell’assistenza domiciliare, stabilendo gli ambiti di intervento pubblico e defiscalizzando l’intero costo dell’assistenza di ausilio, per lo meno ai soggetti non autosufficienti.
Si tratta di una riforma complessiva che permetta di:
1- Migliorare la professionalità degli operatori (fondo dedicato)
2- Emersione dal lavoro nero ( defiscalizzazione totale e permessi di soggiorno per gli irregolari presenti in Italia)
3- Coordinamento territoriale sul lavoro di cura ausiliaria domiciliare ( riforma della Legge 339/58)
4- Privilegiare le imprese che forniscono servizi di ausilio familiare ( lavoratori più tutelati, professionalità, gettito fiscale e previdenziale certo, controllo tramite accreditamento)
Stefano Pozzo
Mi auguro che il punto 3 sia frutto di un taglio redazionale e non sia stato scritto così dall’autore, perché è un ragionamento privo di ogni logica economica. Lo sgravio fiscale riguarda il costo complessivo e non la composizione dello stesso (retribuzione+contribuzione). E poiché il costo è sostenuto interamente dalla famiglia, se voglio ottenere una convenienza di regolarizzazione, l’unico modo è far si che la totalità di quel costo sia recuperabile fiscalmente. Detto questo, mantenendo la stessa logica, ha ragione Perin: privilegiare servizi organizzati privati permetterebbe anche la certezza della fiscalità e contribuzione dei lavoratori (cosa che oggi avviene presumibilmente in misura ridottissima, anche per i lavoratori regolari, nel settore domestico).
Aldo Amoretti
Condividendo Perin e Pozzo aggiungo un problema. Senza modifiche avremo il totale disinteresse dei lavoratori domestici alla regolarità perché le norme del regime contributivo delle pensioni non daranno loro alcuna pensione. Infatti i bassi livelli contributivi non permetteranno, neppure con 40 anni di lavoro e ai 67 di Fornero, di raggiungere l’importo di una volta e mezzo quello dell’assegno sociale. Ed essendo stata abolita l’integrazione al minimo abbiamo il suo rovescio.
Per gli immigrati tutti bisogna tornale alla regola abolita dalla Bossi-Fini che permetteva all’immigrato che torna al paesello di chiedere a Inps il rimborso dei contributi versati e stipulare le convenzioni con i paesi di origine, come si è fatto per gli emigranti italiani. Si è già visto il fenomeno di immigrati che, tornati a casa con risparmi e con il gruzzolo restituito da Inps hanno aperto attività al proprio paese. E’ una misura che favorirebbe un turn over degli immigrati. Invece, essendo vero che quando si è cattivi spesso si è anche stupidi, l’effetto è che restano qui anche se non è il loro desiderio. Così gli daremo la pensione, la sanità, la scuola e il ricongiungimento familiare. Tutte cose giuste, ma che non sono sempre il loro desiderio. Per molti il desiderio è tornare a casa, ma le norme li spingono a restare.
Aldo Amoretti