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Il costo del lavoro, componente per componente*

È facile avere visioni molto diverse sul costo del lavoro, ad esempio tra imprenditori e lavoratori. Una pubblicazione dell’Istat permette di approfondirne alcune dimensioni, per settore di attività, ripartizione territoriale e classe dimensionale.

Quanto valgono le componenti del costo del lavoro in Italia?

È facile avere visioni molto diverse, e talvolta imprecise, sul costo del lavoro ad esempio a seconda che a parlarne sia un imprenditore o un lavoratore. Una recente pubblicazione dell’Istat permette di approfondire alcune dimensioni del costo del lavoro per settore di attività dell’unità economica, ripartizione territoriale e classe dimensionale.

La Rilevazione sulla struttura delle retribuzioni e del costo del lavoro (Rcl-Lcs) sul 2020 si riferisce ai lavoratori dipendenti di imprese e istituzioni private e pubbliche con almeno 10 dipendenti. Riguarda 12,5 milioni di posizioni lavorative – la metà del mercato del lavoro – distinte tra servizi (71,9 per cento) e industria (28,1 per cento), ripartiti tra settore privato (73,1 per cento) e pubblico (26,9 per cento).

Il costo del lavoro medio per ora lavorata è pari a 29,4 euro: 21,2 euro di retribuzione lorda, 8,1 euro di contributi sociali e 0,1 euro di costi intermedi. Il complesso delle spese sostenute nel 2020 dai datori di lavoro per impiegare lavoro dipendente è in media di 41.081 euro: il 72 per cento è rappresentato dalle retribuzioni lorde (29.591 euro), il 27,7 per cento dai contributi sociali a carico del datore di lavoro (11.366 euro) e lo 0,3 per cento dai costi intermedi (123 euro), che includono pure le spese di formazione (0,2 per cento).

La componente principale del costo del lavoro è la retribuzione in denaro (71,3 per cento), distinta in importi ricorrenti, erogabili in ogni periodo di paga (22.744 euro, 55,4 per cento del costo del lavoro); importi non ricorrenti, tipo mensilità aggiuntive o premi annuali (3.856 euro, 9,4 per cento); remunerazioni per ore non lavorate, come ferie, festività o permessi (2.700 euro, 6,6 per cento) e, residuale, la componente in natura (284 euro, 0,7 per cento). 

La seconda componente sono i contributi sociali a carico del datore di lavoro (27,7 per cento), a loro volta distinti in contributi obbligatori per legge (8.668 euro, 21,1 per cento); contributi volontari e contrattuali (155 euro, 0,4 per cento); accantonamenti del trattamento di fine rapporto (Tfr) (1.521 euro, 3,7 per cento); contributi sociali figurativi (1.023 euro, 2,5 per cento). Infine, ci sono i costi intermedi connessi al lavoro (123 euro, 0,3 per cento).

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Per ogni 100 euro che il datore di lavoro eroga come retribuzione lorda, 38,4 euro sono i contributi sociali a suo carico. Differenziato per settore di attività economica è, in media, il peso di alcune componenti rispetto alla retribuzione lorda: la retribuzione per ore non lavorate ma retribuite dal datore di lavoro incide per il 9,1 per cento, gli importi non ricorrenti pesano il 13 per cento, l’1 per cento sono le retribuzioni in natura, il 3,5 per cento sono i contributi sociali figurativi e il Tfr è il 5,1 per cento (per i comparti del settore pubblico, concentrati nel settore O, il trattamento di fine servizio è conteggiato tra i contributi sociali obbligatori).

Quanto ha lavorato nel 2020 un lavoratore dipendente?

Un lavoratore dipendente ha lavorato in media 1.398 ore all’anno, pari all’82,9 per cento delle ore retribuite (che invece erano 1.686, comprendendo ferie e permessi a carico del datore di lavoro). Per i dipendenti full-time si sale a 1.519 ore (l’82,8 per cento delle 1.834 ore retribuite), per i part-time si scende a 895 (83,2 per cento delle 1.075 ore retribuite). Un dipendente part-time ha lavorato in media il 58,9 per cento di un full-time. Il lavoro straordinario è stato in media di 48 ore, il 3,4 per cento delle ore lavorate.

Tra il 2016 e il 2020, il costo del lavoro per dipendente è diminuito (-1,7 per cento), mentre è aumentato quello per ora lavorata (+5,3 per cento). La differenza tra i due dati è riconducibile in larga misura al forte incremento della Cig nel primo anno pandemico: i settori in cui la forbice tra i due indicatori è più ampia sono quelli che mostrano il calo più consistente delle ore lavorate pro-capite (attività dei servizi di alloggio e di ristorazione; attività artistiche, sportive, di intrattenimento e divertimento; altre attività di servizi). Invece, le ore lavorate per dipendente sono scese in media del 6,6 per cento. Oltre alla Cig, anche la crescita della componente part-time ha determinato un incremento dell’occupazione e una contestuale diminuzione delle ore lavorate pro-capite.

Com’era composto il costo del lavoro in Europa?

A livello europeo, per il confronto, si utilizza il costo del lavoro in senso stretto (esclusi i costi intermedi connessi al lavoro), limitato ai comparti industria e servizi, senza il settore dell’amministrazione pubblica e difesa e dell’assicurazione sociale obbligatoria in quanto settore non diffuso da tutti i paesi. Così definito, il valore del costo del lavoro in senso stretto per ora lavorata è stato pari a 28,3 euro nella media Ue27 e a 32,1 nell’area dell’euro (19 paesi).

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Le differenze tra gli stati europei sono molto marcate: dai 6,7 euro per ora della Bulgaria si sale ai 47,5 euro del Lussemburgo. L’Italia, con un costo del lavoro orario in senso stretto di 29,1 euro, è all’undicesimo posto nell’ambito dei 26 paesi dell’Unione europea (ordinati in maniera decrescente) e si colloca al di sotto della media dell’area euro. In termini comparati il nostro valore è superiore a quello della Spagna ma più basso di Francia e Germania. I contributi sociali per ora lavorata nella media Ue27 rappresentano il 23,7 per cento del costo del lavoro in senso stretto e nell’area dell’euro il 24,3 per cento. Anche in questo caso le differenze tra gli stati membri sono ampie e l’Italia è al sesto posto con 8,1 euro. Se la classificazione viene fatta per incidenza dei contributi sociali a carico del datore di lavoro (esclusi i costi intermedi) sulla retribuzione lorda, l’Italia è il terzo valore più alto con un peso medio per ogni ora lavorata del 38,6 per cento, dopo Svezia e Francia che superano il 40 per cento. Lituania e Romania sono i paesi dell’Unione europea dove i contributi sociali pesano meno sulla retribuzione lorda (rispettivamente 6,1 per cento e 6,4 per cento). 

L’eterogeneità nel costo del lavoro sottolinea la necessità di un allineamento a livello europeo per scoraggiare attività di dumping salariale tra paesi e garantire eque retribuzioni per i lavoratori europei. 

* Le opinioni espresse dalle autrici non impegnano l’Istituto d’appartenenza

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  1. Firmin

    Ho sempre trovato futile la distinzione tra contributi a carico del lavoratore e quelli versati dal datore di lavoro. Come ha sottolineato Bordignon su questo sito, ha senso parlare solo di costo del lavoro totale e di retribuzione (al lordo delle imposte) che arriva al lavoratore. Considero ancora più fuorviante la comparazione internazionale tra contributi sociali che corrispondono a prestazioni pensionistiche e assistenziali molto diverse. Il vero dato che emerge da queste elaborazioni è che il costo del lavoro per occupato in Italia è bassissimo, contrariamente a quanto si dice. Questo significa a che il costo per unità di prodotto resta poco competitivo solo per colpa della scarsa produttività delle imprese.

    • Paolo

      Condivisibile la sua analisi, che speriamo ci aiuti a farci un’idea di quali politiche adottare. Ci sono alcuni punti che emergono chiaramente:

      Le imprese chiedono di diminuire il costo del lavoro, lamentano costi eccessivi, che le proverebbero delle risorse necessarie ad investire (ma non nell’assunzione di nuovo personale), ma a conti fatti ridurre il costo del lavoro non sarebbe rilevante. Molto di più potrebbero fare gli investimenti pubblici (in calo da decenni)

      Il combinato di salari bassi (e in calo) e inflazione rischia di aggravare ulteriormente la situazione, comprimendo sempre più margini già esigui, riducendo ulteriormente la fiducia e di conseguenza gli investimenti. Nei Paesi Bassi, dove la crisi dell’offerta è più accentuata, perché la dipendenza dall’export ha fatto sentire di più la crisi dei mercati internazionali (sia di approvvigionamento che di sbocco) e l’inflazione è più alta, la banca centrale sollecita robusti aumenti delle retribuzioni, per scongiurare un crollo della domanda interna (l’unica che può assorbire l’offerta nazionale) che sarebbe fatale.

      Che sia arrivato il tempo di preoccuparsi della domanda e di tornare a sostenere i redditi?

  2. Emanuele

    “L’eterogeneità nel costo del lavoro sottolinea la necessità di un allineamento a livello europeo per scoraggiare attività di dumping salariale tra paesi e garantire eque retribuzioni per i lavoratori europei.” L’obiettivo di allineare il costo del lavoro, riferito alla parte dei contributi sociali dei paesi con aliquote inferiori implica un corrispondente rafforzamento del welfare che tali contributi coprono nei paesi con maggiori aliquote. Alzare i costi contributivi può essere fatto per legge ma alzare il livello di welfare molto meno. Meno dumping salariale significherebbe alzare i costi dei paesi con meno welfare senza controprestazioni.

  3. Maurizio Cortesi

    Ho già visto e scaricato il lavoro dal sito del vostro istituto: molto interessante ed istruttivo per capire dove e come riformare questa struttura salariale in combinato disposto, come dicono i giuristi, con quella della contrattazione e della fiscalità/previdenza, invece di parlare genericamente di tagliare il costo del lavoro che esprime lo stesso qualunquismo del taglio dei parlamentari.

  4. Stefano

    Articolo molto interessante che evidenzia un dato spesso nascosto.
    Il costo del lavoro in Italia, cd. cuneo, è inferiore a quello esistente in Francia e Germania.
    Quindi se la Germania è (o era) la locomotiva dell’Europa dimostra che non è quello il fattore che rallenta la crescita della nostra economia (così come è utopia pensare di recuperare i maggiori costi dell’energia delle aziende a causa della guerra con un taglio degli oneri contributivi).
    Fiscalizzare gli oneri sociali a carico del datore o del dipendente non è la soluzione, considerato che l’IRPEF, principale imposta statale come gettito, è versata prevalentemente dai dipendenti (che quindi, di fatto, con le loro tasse finirebbero per pagarsi i contributi e quelli a carico dei datori di lavoro).
    Il tema dovrebbe essere piuttosto quello di adottare un welfare sociale minimo a livello europeo, ma è solo utopia parlarne perché nessun paese dell’est europa vorrà perdere il suo vantaggio competitivo per attirare le attività produttive nel proprio territorio (come immaginare che la Cina proceda ad un incremento salariale “unilaterale”.. nuts).
    Peraltro l’allargamento ad est dell’unione europea è stato effettuato proprio per sfruttare tale differenze retributive e mantenere in Europa parte dell’industria (che altrimenti si sarebbe trasferita totalmente in Oriente) e l’inserimento nella UE impedisce la possibilità di agire con dazi doganali per contrastare tali politiche di dumping sociale.
    Quindi l’unica soluzione è investire nella formazione di personale qualificato per rendere i lavoratori italiani più preparati e “resilienti” ed attuare una riforma fiscale complessiva che sposti la tassazione dai redditi professionali e di lavoro alle rendite finanziarie (ovviamente questa dovrebbe essere armonizzata a livello europeo per evitare fughe di capitali) per finanziare il nostro welfare pubblico.

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