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Pensioni colpite dal fiscal drag

Il meccanismo di indicizzazione per fasce delle pensioni, previsto dalla legge di bilancio, dovrebbe proteggere quelle più basse dall’inflazione, senza pesare troppo sulle casse dello stato. Ma il fiscal drag porta a risultati poco equi e trasparenti.

Il problema dell’indicizzazione delle pensioni

Il tema dell’adeguamento delle prestazioni pensionistiche alla crescita nominale dei prezzi nell’anno successivo all’impennata dell’inflazione ha avuto ampio spazio nei commenti di questo sito e, soprattutto, nelle dichiarazioni dell’esecutivo.

La dimensione della massa potenzialmente interessata, pari a 193 miliardi di euro secondo la relazione tecnica di accompagnamento alla legge finanziaria, unita a un incremento dei prezzi del 7,3 per cento su base annua, sempre secondo l’esecutivo, hanno posto il decisore politico di fronte alla necessità di scegliere una soluzione di compromesso tra due obiettivi: il contenimento dei costi per il bilancio pubblico e l’esigenza di non determinare, a seguito di una mancata indicizzazione, perdite importanti nella capacità di acquisto delle prestazioni pensionistiche, soprattutto per quelle di importo basso. Il costo di un’operazione di indicizzazione completa per tutte le prestazioni è apparso subito difficilmente compatibile con i vincoli di bilancio del settore pubblico. La strada per realizzare un’adeguata protezione delle pensioni più basse senza impegnare nel comparto pensionistico quote eccessive di nuova spesa è stata perseguita tramite l’introduzione di un meccanismo di indicizzazione per fasce, con percentuali di adeguamento fortemente decrescenti al crescere dell’importo del reddito da pensione complessivo.

L’attenzione all’obiettivo di garanzia verso il potere di acquisto delle pensioni di importo più basso si è sostanziata nella scelta di assicurare un’indicizzazione completa per i redditi lordi da pensione fino a 4 volte il trattamento minimo (525,38 euro mensili nel 2022, incrementate a 563,73 nel 2023). In termini di reddito annuale, si tratta di soggetti che percepiscono fino a circa 27 mila euro. Secondo i dati Inps, si tratta della grande maggioranza dei pensionati: ad esempio il 72 per cento del totale dei pensionati ha avuto un reddito da pensione inferiore ai 2 mila euro mensili nel 2021. La quota di inflazione recuperata scende all’85 per cento per le pensioni comprese tra 4 e 5 volte l’importo del trattamento minimo e si riduce velocemente fino a raggiungere il 23 per cento per quelle di importo superiore a 68 mila euro annuali.

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Torna il fiscal drag

Proviamo a vedere cosa potrebbe succedere alle pensioni in essere, nel corso del prossimo anno, alla luce degli effetti del nuovo meccanismo di indicizzazione. Per farlo però teniamo in considerazione anche quello che accade ai redditi netti, ovvero a quelli percepiti dal pensionato dopo che la pensione lorda è stata sottoposta a tassazione personale progressiva con l’Irpef.

A questo riguardo la figura 1 mostra, per livelli di reddito lordo da pensione compresi tra 0 e 100 mila euro e guadagnati nel 2022, quale parte dell’inflazione viene effettivamente recuperata sulla pensione al lordo e al netto della tassazione personale nel 2023. La figura evidenzia alcuni aspetti significativi. La struttura dell’indicizzazione è evidentemente progressiva nel caso dei redditi lordi. La situazione è invece molto più discontinua nel caso di quelli netti, per i quali troviamo traiettorie che appaiono difficilmente razionalizzabili.

La causa di questo andamento erratico richiama un fenomeno purtroppo noto e tipico dei tempi di alta inflazione: il fiscal drag. In presenza di un sistema di tassazione personale sul reddito di tipo progressivo, come l’Irpef, la crescita (nominale) dei redditi, causata in questo caso dall’indicizzazione, porta a un aumento dell’incidenza reale della tassazione, anche senza di una crescita reale degli imponibili.

L’effetto è causato, nel caso italiano, da due fattori: i) il passaggio di quote di reddito imponibile in scaglioni con aliquota marginale più elevata; ii) la riduzione delle detrazioni previste sui redditi da pensione e utilizzate per ridurre il carico di imposta nella parte medio-bassa della distribuzione dei redditi.

La figura 1 ci dice che i redditi da pensione fino a 7.900 euro circa risultano protetti dal fiscal drag, poiché fanno parte della no-tax area e sono quindi esenti da tassazione prima e dopo l’aumento nominale. Per livelli di reddito maggiori, e soprattutto nell’intervallo tra 7.900 e i 25 mila euro, dove è compreso il numero maggiore dei pensionati, la dinamica della perequazione sui valori netti è influenzata dai due fattori ricordati sopra. Solo per livelli di reddito pensionistico superiori a 50 mila euro, quando il peso delle detrazioni si azzera e non ci sono più salti di aliquota, la figura recupera una sua razionalità.

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Per essere più chiari due pensionati con reddito da pensione di 8 mila e di 8.400 euro avranno un recupero di inflazione pari, rispettivamente, al 96 per cento e al 75 per cento. Per un pensionato con 14 mila euro annuali poi il recupero tornerà a essere pari all’80 per cento. Sotto il profilo dell’equità e della trasparenza non è certo un bel risultato. Il tema risulta tanto più rilevante se si riflette sul fatto che nell’intervallo dove i salti sono più bizzarri si trova più della metà delle prestazioni pensionistiche.

La sterilizzazione degli effetti

Un secondo tema, altrettanto importante, è quello relativo a costi e ai benefici di quanto osservato qui. Un recupero minore di inflazione da parte dei pensionati nel confronto tra redditi lordi e netti è al tempo stesso un costo per i contribuenti e un guadagno, in termini di minore spesa reale, per lo stato. In altri termini, il fiscal drag migliora, ma in modo surrettizio e poco trasparente, la posizione finanziaria del settore pubblico scaricandone i costi sui pensionati.

Un ultimo aspetto riguarda la sterilizzazione di questi effetti. È possibile farlo? La risposta è sì e lo strumento è l’indicizzazione degli scaglioni e delle detrazioni dell’imposta personale. Una scelta di questo tipo – per la verità mai adottata in Italia (se si esclude il biennio 1990-1991), nemmeno in periodi di inflazione a due cifre – avrebbe reso trasparente il conto dei guadagni e delle perdite, senza introdurre effetti di assai complessa valutazione.

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Il Punto

  1. Giulio

    Passano i decenni, passano i governi, si cambia secolo ma le tematiche di fondo rimangono sempre le stesse come la scarsa trasparenza dell’Irpef, che spinge a subire accertamenti fiscali oppure spinge al nero e a non partecipare al mercato del lavoro anche in presenza di aliquote basse, e i suoi meccanismi diabolici come le detrazioni parametrate al reddito complessivo. Quindi è da riflettere sul perché la cultura politica, giuridica, economica e sociale che permea le istituzioni, la società e l’università italiane spinge alla complessità, a non voler utilizzare esperienze estere di altri stati occidentali come l’Inghilterra dove c’è un’unica fascia di esenzione (mentre in Italia chi ha solo redditi da affitto, ad es. tremila euro, deve pagare l’Irpef per non parlare dell’impossibilità in dichiarazione di chiedere la tassazione ordinaria dei redditi finanziari), oppure a perdere di vista gli obiettivi di equità e di competizione mondiale.
    Un passo verso una maggiore trasparenza era stato fatto nel 2002 quando il meccanismo di calcolo dell’Irpef indicava chiaramente chi doveva pensare a fare la dichiarazione dei redditi (ad es. erano esclusi tutti quelli che avevano meno di 3.001 euro a prescindere dalla tipologia di reddito) ma è durato solo 4 anni.

  2. Maurizio Daici

    Non si capisce perché l’adeguamento degli scarponi di reddito alla perdita del valore reale dei redditi percepiti non sia stato richiesto , negli ultimi decenni, dai sindacati con determinazione. Sì parla di cuneo fiscale, che riguarda una parte dei contribuenti/cittadini e che perciò discrimina tra persone che hanno un reddito uguale (per non dire della flat tax per gli autonomi!), e mai del fiscal drag che incide su tutti i redditi.

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