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Autore: Andrea Boitani Pagina 8 di 16

Boitanijpg Si è laureato alla Sapienza di Roma e ha proseguito gli studi nel Regno Unito (M.Phil. Cambridge). Attualmente insegna Macroeconomia ed Economia Monetaria all’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano, Facoltà di Scienze Bancarie, Finanziarie e Assicurative. Ha fatto parte della Commissione tecnica per la spesa pubblica presso il Ministero dell’Economia (1993-2003) e delle commissioni incaricate del Piano generale dei trasporti (1998-2001), del Piano della Logistica (2004-2006 e 2010-2012). È stato consigliere economico del Ministro dei trasporti (1995-1996), componente del Consiglio di Sorveglianza e del Comitato remunerazioni di Banca Popolare di Milano (2013-2016) ed è stato “esperto” della Struttura Tecnica di Missione presso il Ministero delle infrastrutture e dei trasporti (2016-2018). Fa parte del Consiglio di Amministrazione de “la Verdi”, Fondazione orchestra e coro sinfonico. Autore di “Macroeconomia” (Il Mulino, 3° ed. 2019); “Sette luoghi comuni sull’economia” (Laterza, 2017); “L’economia in tasca” (Laterza, 2017); “Scusi Prof, cos’è il populismo” (con Rony Hamaui, Vita e Pensiero, 2019) e di varie pubblicazioni nazionali e internazionali in tema di economia della regolazione e dei trasporti, di macroeconomia e di economia applicata al settore bancario. Collaboratore di Repubblica – Affari & Finanza e de Il Sole 24 Ore. È stato membro del consiglio di amministrazione di Atlantia. Redattore de lavoce.info.

Alitalia: ammaina-bandiera?

Alitalia rinnova la flotta acquistando velivoli a corto raggio. D’altra parte, le sue destinazioni intercontinentali sono ormai soltanto sedici. Due le ipotesi: la compagnia vuole fare una difficile concorrenza alle low-cost. Oppure punta a diventare sempre più un operatore regionale e aumentare così la sua complementarietà con Air France–Klm. Un vantaggio per gli azionisti in caso di cessione ai francesi. Certo, non sembra proprio che Alitalia possa tornare a essere una grande compagnia di bandiera. Nonostante le promesse e i sacrifici chiesti nel 2008.

CRESCITA? SÌ, DELLE NORME

Nella manovra di ferragosto compare anche l’ennesimo tentativo di liberalizzare i servizi pubblici locali. Escluse l’acqua, causa referendum, e le ferrovie regionali, causa interessi di Ferrovie dello Stato. Per gli altri settori si poteva fare di più e, soprattutto, di meglio. Perché il messaggio agli enti locali dovrebbe essere semplice, chiaro ed equo: prima di prelevare dalle tasche dei cittadini e dei consumatori per finanziare le inefficienze delle gestioni monopoliste, dovrebbero fare le gare e dimostrare di aver così ridotto i costi dei servizi.

LA MIA ALTA VELOCITA È MEGLIO DELLA TUA

Appaiono davvero notevoli le dichiarazioni del governatore della Liguria Claudio Burlando (ex ministro dei Trasporti) che ha sostenuto sui media che l’Alta Velocità Torino-Lione non serve a niente e costa carissima, mentre è essenziale la linea Genova-Milano. In realtà, questa è nota come “terzo valico”, per ricordare che ce ne sono già due su quell’asse, assai poco utilizzati, e pubblicamente dichiarato inutile dall’ad delle Ferrovie Mauro Moretti solo pochi anni fa. Come ha fatto a diventare essenziale tutt’a un tratto? L’ex governatrice del Piemonte Bresso e il governatore attuale Cota, insieme all’ex sindaco di Torino Chiamparino e all’attuale Fassino han sempre assicurato che è vero il contrario e che l’AV Torino-Lione è l’opera più utile che si possa fare. Son tutte persone d’onore, ma chi ha ragione?
La disputa ha anche precedenti illustri: sul “Riformista” due anni fa ci fu un vivacissimo dibattito tra il governatore del Veneto e l’assessore campano ai trasporti Cascetta (professore assai noto nel settore dei trasporti) sui meriti relativi dell’AV veneta e di quella Napoli-Bari. E a proposito della linea AV veneta ancora recentemente (Boitani, Il Sole 24 Ore) alcuni “capitani coraggiosi” di quella regione si offrirono di costruirla a loro spese, certo purché fosse garantito un adeguato ritorno ai loro investimenti (senza precisare da chi ma, chissà perché, sospettiamo che pensassero allo Stato).
Come spiegare questa imbarazzante e “bipartisan” perdita del senso del ridicolo? La motivazione potrebbe essere semplice: si tratta di opere di dubbia utilità, tanto che se gli utenti dovessero pagare con le tariffe una parte non simbolica dei costi di investimento, si scioglierebbero come neve al sole ben prima di essere cementate. Allora devono essere interamente finanziate dalle casse pubbliche, e si tratta di cifre rilevantissime: accaparrarsi una bella fetta dei pochi soldi pubblici in palio fa gola a tutti. Dulcis in fundo, la concorrenza funziona pochissimo in questo settore, per cui una quota consistente dei sub appalti finisce ad imprese locali, che spesso poi manifestano gratitudine ai decisori politici di riferimento (anche in modo lecito, si intende). La funzionalità dell’opera non è davvero in cima all’agenda dei decisori, che nella più parte dei casi inaugureranno i cantieri, ma non ne vedranno la conclusione, essendo i tempi di realizzazione mediamente nell’ordine dei dieci anni. Queste opere tuttavia potranno collegarci ad Alta Velocità ad un importante paese europeo: la Grecia, dove le spese infrastrutturali per le Olimpiadi hanno contribuito non poco allo sfascio dei conti pubblici.

Grecia, peggio di così non si poteva fare

La crisi greca è stata gestita davvero male e ha provocato un notevole aumento dei suoi costi. Ma il caso Grecia mette in luce la debolezza della governance europea e la mancanza di leadership dei governanti. Che si sono mossi sotto la pressione di scadenze elettorali immediate, senza una visione di lungo periodo. Per evitare che si ripetano gli stessi errori, si deve fare un salto di qualità, puntando su un grado di integrazione maggiore dell’attuale. Un primo passo potrebbe essere quello di affidare la gestione delle crisi debitorie a un organismo tecnico e indipendente.

 

LA RISPOSTA AI COMMENTI

Molti sono stati i commenti al nostro articolo. Non è possibile rispondere a ciascuno. Così scegliamo di rispondere (collettivamente) solo ai lettori critici, lasciando da parte quelli che hanno mostrato apprezzamento per i nostri argomenti e hanno avanzato anche spunti meritevoli di approfondimento. Tra i critici prevalgono gli argomenti contrari alla privatizzazione, e ci attribuiscono addirittura una "voglia di privato" dedotta non si sa bene da che cosa. Ma non era e non è nostra intenzione discutere di questo: ognuno la pensi come vuole e vada o non vada a votare come vuole. Non è nostra intenzione dare indicazioni di voto. L’importante è che sia chiaro a tutti per cosa si va a votare. Alcuni degli argomenti critici potrebbero trovarci in linea di principio d’accordo (Stiglitz l’abbiamo studiato anche noi), se quella di cui stiamo parlando fosse davvero una privatizzazione: peccato che, invece, non lo sia affatto.
La campagna referendaria ha profuso una grande quantità di inesattezze e forzature, che ormai hanno dato vita nella mente delle persone a un mostro virtuale. Qui non si tratta di monarchia o repubblica. Non stiamo parlando di sottigliezze, ma di qualcosa di sostanziale. Alla gente che va a votare si sta facendo credere che il voto è "contro la privatizzazione" e "contro l’ingiusto profitto". Perfino la RAI, negli spot informativi, descrive la norma oggetto del primo quesito come quella che "consente l’affidamento della gestione a privati" (sic). Ci dispiace per chi in buona fede lo ha creduto e tuttora lo crede, ma purtroppo non è così.
Primo punto. Checché vi abbiano fatto credere, la norma oggetto del primo quesito non riguarda la privatizzazione dell’acqua (o del servizio idrico), bensì l’obbligo di gara. Se vincerà il no, non ci sarà nessun obbligo di privatizzazione, perché la legge non prevede quello. Se invece vincerà il sì, non ci sarà nessun divieto di coinvolgere privati, perché nella norma che riprenderebbe vita (la cui abrogazione parziale prevista dall’art. 23-bis verrebbe annullata) la gestione dei servizi a rilevanza economica può essere effettuata mediante società pubblica, concessione a privati o società mista, come infatti è stato finora.
L’unica cosa che cambierebbe veramente è che con la vecchia norma la scelta della gestione in house potrebbe avvenire in modo diretto e senza ulteriori spiegazioni (non solo per l’acqua, ma per tutti gli altri servizi locali). Con la nuova norma che si vuole abrogare, invece, il comune che desidera mantenere la gestione pubblica può farlo, (i) se riesce a dimostrare che la gara è inutile, meritandosi la deroga di cui al comma 3, oppure (ii) se l’azienda pubblica partecipa alla gara e la vince. Non esiste alcun obbligo di vendere il 40%: questa opzione serve solo se si vuole a mantenere l’affidamento esistente senza invocare la deroga, ma ci sono sempre le altre due strade, ugualmente possibili e legittime. Molte aziende si stanno organizzando per ottenere la deroga per il mantenimento dell’in house, e dati i criteri fissati molto generosamente dal DPR 168/2010, con ogni probabilità ci riusciranno.
Chi dunque sostiene che il referendum è "contro la privatizzazione", evidentemente non conosce bene la norma che vorrebbe vedere abrogata. E chi, pur conoscendola molto bene, continua a raccontare favole solo perché – se la verità venisse detta fino in fondo – la gente non andrebbe a votare, fa solo disinformazione. Il decreto Ronchi non obbliga nessuno a privatizzare. Abolirlo, non impedisce a nessuno di privatizzare. Chi non ne fosse ancora convinto, è pregato di informarsi meglio.
Secondo punto. Acqua gestita dal pubblico non vuol dire acqua gratis, perché i costi qualcuno li deve pagare. Che sia la fiscalità o la tariffa, questo qualcuno sono sempre i cittadini. È incredibile come tanta gente sembri non capire una cosa così elementare. L’impatto distributivo di fiscalità e tariffe non è identico, ma non è affatto scontato che la fiscalità sia più progressiva (e quindi più egualitaria) della tariffa. Discutiamo semmai di come costruire le tariffe in modo da evitare impatti sociali troppo gravosi: si può fare, ci sono molti modi per farlo. Ma ai referendari preme invece convincere i cittadini che le tariffe sono elevate per colpa del profitto, e che si possano abolire senza aggravio per la fiscalità. Parlano di "fallimento del full cost recovery": ma che fallimento sarebbe, visto che è praticato in tutto il mondo? E soprattutto dalle gestioni pubbliche che funzionano, dalla Scandinavia alla Germania, dall’Olanda agli Usa? Ma se poi gli si chiede come pensano di coprire quei costi cincischiano: li vogliono in fiscalità generale, ma senza aumentare le tasse.
E, nell’impossibile tentativo di far quadrare il cerchio (diritti per tutti, tariffe basse e niente nuove tasse), sono costretti a inventarsi o improbabili riduzioni di altri capitoli di spesa (i mitici cacciabombardieri, la solita riduzione dell’evasione fiscale); a sostenere cose impossibili, come il fatto che se si fanno investimenti per ridurre le perdite questo farà diminuire i costi, e permetterà di finanziare l’investimento con i risparmi, mentre qualunque tecnico sa che accadrà esattamente il contrario, ossia che per ridurre le perdite i costi devono aumentare; o a prospettare strumenti finanziari – patacca, come i bond irredimibili (un vero e proprio furto ai danni delle generazioni future, cui rimarranno i debiti da pagare ma non le reti, perché un bel giorno dovranno essere rifatte daccapo con tariffe più alte o nuovo debito).
La questione tuttavia è: ammesso che la fiscalità riesca a recuperare qualche margine di manovra, rinunciando al cacciabombardiere o catturando qualche evasore, per cosa è opportuno utilizzare in via prioritaria queste risorse? Per diminuire la pressione fiscale? Per gli ammortizzatori sociali, l’istruzione, il welfare, i beni culturali? Oppure per la bolletta dell’acqua? Perché usare il denaro pubblico per finanziare un obbligo di servizio universale che è già affermato e garantito (visto che l’acqua arriva già in tutte le case), e costa in media solo 90 euro all’anno pro capite (25 centesimi al giorno), ed è dunque già alla portata di (quasi) tutti? I cittadini devono sapere che acqua gratis non significa non pagare dazio, ma significa meno spesa pubblica in qualche altro capitolo. E’ legittimo scegliere più acqua a basso prezzo e meno welfare (noi non siamo d’accordo, ma sono ammesse opinioni diverse). Ma non è legittimo far credere che la scelta sia tra acqua gratis e acqua a pagamento.
Sembra che campagna referendaria stia riportando a galla una cultura tipica degli anni 70 e 80 del secolo scorso: quando tutti invocavano diritti, ma nessuno si preoccupava di come avremmo pagato i costi corrispondenti. Il risultato, allora, fu gran parte del debito pubblico che ancora abbiamo sulle spalle. Ci è servito per molti anni a pagare spesa corrente, dalle pensioni baby, a una sanità il cui costo sistematicamente sfondava i tetti previsti, a un settore pubblico usato come ammortizzatore sociale. Ora, non paghi di aver depredato le generazioni future con la finanza allegra di quel periodo, si imbrogliano le carte in modo da farci credere che questo ennesimo pasto gratis si auto-finanzi. I cittadini sappiano che, invece, i pasti gratis esistono solo nel paese dei balocchi. Su questo non sono ammesse "opinioni", così come non ne sono ammesse sulla legge di gravità. L’aritmetica può essere assai sgradevole, ma non è un’opinione, purtroppo (o per fortuna).
Ci preme peraltro di ricordare che, tuttavia, se il secondo referendum dovesse passare, verrebbe abolito l’inciso "adeguatezza della remunerazione del capitale investito", ma non il principio del "full cost recovery", ribadito nello stesso comma dello stesso articolo, giusto una riga dopo.
La tariffa, con o senza referendum, continua a dover coprire il costo del servizio, ossia il costo della gestione, l’ammortamento e il costo del capitale investito. Se la finanza pubblica vorrà mettere a disposizione circuiti agevolati, o al limite anche a fondo perduto, potrà eventualmente farlo (nessuno glielo impedisce: basta votare una legge finanziaria che lo preveda), ma finché non lo farà, il gestore i soldi li deve chiedere al mercato (ossia alle banche, agli investitori). E quel costo andrà pagato.
Terzo punto. L’acqua costa meno se la gestisce il pubblico? Qui si confonde il costo (ossia gli stipendi, i materiali, gli impianti, l’energia, gli interessi sui debiti) con la tariffa. Se le tariffe non coprono i costi, le aziende falliscono. Se le gestioni sono vincolate a recuperare i costi con le tariffe, una diminuzione di queste può aversi solo se i costi diminuiscono, ossia se la gestione diventa più efficiente (usa meno personale, acquista meno servizi o tecnologie meno costose), oppure se non si fanno gli investimenti. In un settore in cui la concorrenza non c’è e anche le gare funzionano male, la presunzione di superiorità del privato da questo punto di vista è spesso contraddetta dai fatti, ma se è per questo ciò non significa neppure il contrario. Vent’anni di studi empirici concludono sostanzialmente in pareggio, e mostrano che l’efficienza aumenta dove il sistema di regolazione funziona meglio (si può fare, senza dimenticare che anche la regolazione indipendente incontra limiti non è certamente una bacchetta magica). Niente osanna alla mano invisibile, dunque: ma neppure ostracismi a prescindere. Se molti lettori avessero la bontà di non partire in quarta citando esperienze note solo in via aneddotica e si volessero confrontare seriamente con la montagna di studi che la ricerca ha profuso in questi anni, scoprirebbero che le cose non sono così ovvie come la vulgata tende a far credere.
Ribadiamo che la norma (e il referendum) non intervengono su una tabula rasa, e che non è certo questo voto il modo per prendere posizione sulla questione. I piani d’ambito sono già approvati, la dinamica tariffaria già prevista (in base alle norme vigenti, uguali per tutti, che il referendum non abroga), le regole per definire revisioni dei piani sono già stabilite. Un’eventuale gara da lì dovrebbe partire; se l’offerta fosse uguale o peggiore rispetto a quella dell’affidamento già in essere, il comune avrebbe tutte le ragioni per mantenere l’affidamento in essere. Dunque le tariffe non possono aumentare oltre a quanto già previsto, ma semmai diminuire, o aumentare di meno.
Qualcosa potrà cambiare, semmai, se cambierà il metodo tariffario normalizzato, cosa che peraltro anche noi auspichiamo: sarà uno dei principali compiti della nuova agenzia di regolazione, che attendiamo al varco. La tariffa deve incentivare il gestore a ridurre i costi (si può: se ci riescono in altri paesi possiamo riuscirci anche noi), consentendogli di guadagnare il giusto (ossia, il costo del finanziamento sul mercato e il premio per il rischio che si assume investendo). Il rischio è una variabile che dipende dalla regolazione: più il costo va in tariffa "a piè di lista", più limitato è il rischio; più il costo è definito ex ante e tenuto fermo, più elevato è il rischio.
Ce n’è abbastanza, a questo punto per dire a tutti, critici e sostenitori: arrivederci a Trento, o meglio a Rovereto, dove sabato 4 uno di noi due (non vi diciamo chi) si scontrerà sul ring con Ugo Mattei, e voleranno, se questo è il clima, botte da orbi. Speriamo che la prospettiva di veder scorrere il sangue faccia aumentare l’audience!

P.S. due risposte ad personam:

A Marco Bersani: prima di affermare cosa "sanno tutti gli economisti", abbia la bontà di consultare qualcuno che l’economia la conosca davvero; se gli economisti che affermano le cose che lui sostiene sono per caso gli stessi che gli hanno suggerito i bond irredimibili, ci viene il dubbio che lo abbiano imbrogliato per bene.

A Salvatore Acocella vorremmo solo ricordare che 1) se gli attuali assetti di regolazione sono molto difettosi (per esempio quello del settore autostradale), non significa che non possano essere messi in piedi assetti migliori, che tendano a minimizzare sistematicamente gli extra-profitti; se altri ci riescono, non è vietato che ci riusciamo anche noi. 2) Poste e Ferrovie non sono mai state privatizzate (in Italia): sia Poste che F.S. sono società per azioni, il cui controllo totalitario è pubblico, di preciso del Ministero dell’Economia. Le informazioni a supporto di tanto sarcastico ideologismo dovrebbero almeno essere esatte. 3) com’è che il settore pubblico è corrotto e incapace quando si affida a privati, e invece non lo è quando gestisce in proprio? Non sarà forse che quando gestisce in proprio inefficienze e disservizi passano più facilmente sotto silenzio? Perché se dal rubinetto esce l’arsenico l’Acea va sbattuta in prima pagina mentre la gestione pubblica di Viterbo invece no? Perché si cita Girgenti Acque (Agrigento, peraltro molto più pubblica che privata, visto che il socio "privato" è il gestore pubblico di Catania) come emblema del disservizio, e si tace che quel disservizio esiste da un secolo e nessuno, né il pubblico né il privato, ha saputo finora porvi rimedio?

REFERENDUM SULL’ACQUA: LE DOMANDE GIUSTE

Domande e risposte sui referendum numero 1 e 2. Non si prevede alcuna privatizzazione dell’acqua, ma la legge non mette in discussione neppure la natura pubblica del servizio, l’universalità dell’accesso, il diritto soggettivo dei cittadini a riceverlo a condizioni accessibili. Non è l’ingresso dei privati nella gestione dei servizi idrici a far salire i prezzi. E in ogni caso la tariffa dovrà continuare a coprire gli investimenti. Da evitare invece che contenga extraprofitti. La gestione dell’acqua è uno dei temi di cui si discuterà a Trento al Festival dell’economia, a cui parteciperà anche uno degli autori di questo articolo.

 

LA RISPOSTA AI COMMENTI

Cari lettori,
“300 parole” è una rubrica  in cui i redattori de lavoce.info esprimono punti di vista con lo stile – talvolta polemico e caustico – che caratterizza i “corsivi” della carta stampata. Può dunque rientrare in questo stile l’uso di qualche metafora “forte”.  Se “vestale” –ancorché usato ironicamente- è tutto fuorché un termine con accezione negativa, il termine pasdaran, come nota l’accorto lettore , individua un combattente guidato dalla fede. Appunto.
Ma l’aspetto più rilevante è un altro: ancora una volta notiamo come il tema dell’acqua pubblica tenda immancabilmente a scatenare reazioni viscerali. Proprio per questo lavoce.info ha organizzato, in occasione del Festival dell’economia di Trento, una serie di “pro e contro”, uno dei quali, il 4 giugno a Rovereto avrà come titolo: “La gestione dell’acqua deve essere totalmente pubblica
 In quest’occasione i partecipanti all’evento verranno chiamati a votare prima e dopo il confronto tra i relatori. Sarà un esperimento interessante per valutare il valore aggiunto del Festival nel cambiare le percezioni.
Tra i relatori vi sarò anche Ugo Mattei. Dispiace che giudichi il nostro tono “aggressivo e insolente”. Gli assicuriamo che il confronto in occasione del Festival non lo sarà, anzi sarà caratterizzato dall’approccio scientifico che  sempre accompagna gli articoli de lavoce e il festival stesso.
Proprio su queste colonne,  infatti, abbiamo già ampiamente trattato l’argomento  (si veda gli articoli di Scarpa, Ponti, Massarutto) evidenziando in più occasioni come il dibattito mediatico sulla cosiddetta "privatizzazione dell’acqua" sia stato fuorviante visto che il 23 bis del decreto legge 25 giugno 2008 n.112 prevede cambi il meccanismo di affidamento e non la proprietà dell’impresa.
Tuttavia l’argomento dell’intervento non era questo, bensì le conseguenze su settori, come quello dei trasporti locali, che con l’acqua nulla hanno che fare e che verrebbero toccati dall’eventuale abrogazione del 23 bis…

I DANNI COLLATERALI DI UN REFERENDUM

In nome dell’acqua pubblica, uno dei quesiti referendari propone l’abrogazione di un intero articolo di legge (il 23 bis del decreto legge 25 giugno 2008 n.112, più volte modificato). Inutile dire che (contrariamente a quanto vogliono farci credere i pasdaran del referendum) quell’articolo di legge non ha nulla a che fare con la proprietà della “risorsa acqua”, ma solo con le modalità di gestione del servizio idrico. È invece utile sottolineare che il 23 bis (come viene familiarmente chiamato dagli addetti ai lavori) riguarda anche altri servizi pubblici locali, tra cui i trasporti. L’eventuale abrogazione del 23 bis, dunque, riporterebbe il trasporto locale alle norme vigenti prima del giugno 2008. Qualcuno potrebbe fare spallucce e dire “poco male: dopotutto, il 23 bis non innovava granché”. Certo, il 23 bis non era la rivoluzione che alcuni speravano (e altri temevano); ma rispetto alla normativa precedente qualche pregio l’aveva. Vale la pena ricordare che – abrogato il 23 bis – tornerebbero a valere esclusivamente le norme del pasticciato e reticente Regolamento europeo CE/1370/2007 e dell’ormai lontano D.Lgs. 422 del 1997, nelle parti migliori purtroppo superato proprio dal Regolamento europeo. Non fosse altro, il 23 bis dice almeno con chiarezza che la modalità ordinaria di affidamento dei servizi è “la procedura competitiva ad evidenza pubblica” e pone una serie di vincoli agli affidamenti “in house”, cui invece il citato Regolamento comunitario lascia più o meno libero corso. Dunque, se il 23 bis verrà abrogato con il referendum del 12 giugno, liberi tutti di ricorrere al “fatto in casa”.
Chissà come è contento il sindaco di Roma Alemanno del regalo che gli vogliono confezionare le vestali dell’acqua pubblica! Proprio nei giorni scorsi, in previsione di un esito abrogativo del referendum, il leader capitolino ha stretto accordi con i sindacati per confermare ad libitum il regime “in house” del trasporto pubblico romano (il fascino del “casereccio” a Roma è irresistibile) e ha poi accettato le dimissioni di quell’amministratore delegato che, nella bufera dei mesi scorsi, era stato nominato alla guida dell’Atac per riportare un po’ di ordine e di moralità in azienda. Purtroppo, il regalo non sarà solo per Alemanno: infatti è ormai esplicita e dichiarata la volontà di buona parte degli amministratori locali di non fare gare per diminuire il costo dei servizi locali, anche in caso di sprechi vistosi o gestioni dissennate: sono certi che le loro imprese non potranno fallire e che i contribuenti (e gli utenti) alla fine saranno chiamati a pagare. Sono anche convinti, evidentemente, che perderanno meno consensi così facendo piuttosto che ottenendo gestioni più sane e meno costose. Anche solo per dare loro finalmente torto, sarebbe bello che il quesito referendario venisse sonoramente bocciato.

PROJECT BOND: MANEGGIARE CON CAUTELA

La Commissione europea vuole rivitalizzare i project bonds, titoli emessi sul mercato per finanziare grandi progetti infrastrutturali. Ciò avverrebbe trasferendo buona parte del rischio finanziario sui bilanci dell’Unione e della Bei, attraverso la concessione di garanzie e di prestiti subordinati. Pur animata da buone intenzioni, la proposta non chiarisce alcuni punti. A partire dalla scelta dei progetti da finanziare. L’esperienza insegna che è forte il rischio di usare denaro pubblico per sostenere investimenti di scarsa utilità collettiva e di alto impatto ambientale.

TRIVULZIO, PIO PER GLI AMICI

Un confronto tra i canoni d’affitto dichiarati dal Pio Albergo Trivulzio con quanto indicato dall’Agenzia del territorio per le corrispondenti zone di Milano rivela sconti superiori anche al 40 per cento. Insomma, mediamente il patrimonio immobiliare dell’ente ha reso molto meno di quanto avrebbe potuto, con un danno per le sue finalità statutarie. Tanto più che le cifre pattuite non sembrano riconducibili a una logica economica comprensibile e a una gestione coerente nel corso del tempo. Come il commissario straordinario dovrebbe affrontare la questione. E cosa chiedere agli inquilini.

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