Molti sono stati i commenti al nostro articolo. Non è possibile rispondere a ciascuno. Così scegliamo di rispondere (collettivamente) solo ai lettori critici, lasciando da parte quelli che hanno mostrato apprezzamento per i nostri argomenti e hanno avanzato anche spunti meritevoli di approfondimento. Tra i critici prevalgono gli argomenti contrari alla privatizzazione, e ci attribuiscono addirittura una "voglia di privato" dedotta non si sa bene da che cosa. Ma non era e non è nostra intenzione discutere di questo: ognuno la pensi come vuole e vada o non vada a votare come vuole. Non è nostra intenzione dare indicazioni di voto. L’importante è che sia chiaro a tutti per cosa si va a votare. Alcuni degli argomenti critici potrebbero trovarci in linea di principio d’accordo (Stiglitz l’abbiamo studiato anche noi), se quella di cui stiamo parlando fosse davvero una privatizzazione: peccato che, invece, non lo sia affatto.
La campagna referendaria ha profuso una grande quantità di inesattezze e forzature, che ormai hanno dato vita nella mente delle persone a un mostro virtuale. Qui non si tratta di monarchia o repubblica. Non stiamo parlando di sottigliezze, ma di qualcosa di sostanziale. Alla gente che va a votare si sta facendo credere che il voto è "contro la privatizzazione" e "contro l’ingiusto profitto". Perfino la RAI, negli spot informativi, descrive la norma oggetto del primo quesito come quella che "consente l’affidamento della gestione a privati" (sic). Ci dispiace per chi in buona fede lo ha creduto e tuttora lo crede, ma purtroppo non è così.
Primo punto. Checché vi abbiano fatto credere, la norma oggetto del primo quesito non riguarda la privatizzazione dellacqua (o del servizio idrico), bensì l’obbligo di gara. Se vincerà il no, non ci sarà nessun obbligo di privatizzazione, perché la legge non prevede quello. Se invece vincerà il sì, non ci sarà nessun divieto di coinvolgere privati, perché nella norma che riprenderebbe vita (la cui abrogazione parziale prevista dall’art. 23-bis verrebbe annullata) la gestione dei servizi a rilevanza economica può essere effettuata mediante società pubblica, concessione a privati o società mista, come infatti è stato finora.
L’unica cosa che cambierebbe veramente è che con la vecchia norma la scelta della gestione in house potrebbe avvenire in modo diretto e senza ulteriori spiegazioni (non solo per l’acqua, ma per tutti gli altri servizi locali). Con la nuova norma che si vuole abrogare, invece, il comune che desidera mantenere la gestione pubblica può farlo, (i) se riesce a dimostrare che la gara è inutile, meritandosi la deroga di cui al comma 3, oppure (ii) se l’azienda pubblica partecipa alla gara e la vince. Non esiste alcun obbligo di vendere il 40%: questa opzione serve solo se si vuole a mantenere l’affidamento esistente senza invocare la deroga, ma ci sono sempre le altre due strade, ugualmente possibili e legittime. Molte aziende si stanno organizzando per ottenere la deroga per il mantenimento dell’in house, e dati i criteri fissati molto generosamente dal DPR 168/2010, con ogni probabilità ci riusciranno.
Chi dunque sostiene che il referendum è "contro la privatizzazione", evidentemente non conosce bene la norma che vorrebbe vedere abrogata. E chi, pur conoscendola molto bene, continua a raccontare favole solo perché se la verità venisse detta fino in fondo – la gente non andrebbe a votare, fa solo disinformazione. Il decreto Ronchi non obbliga nessuno a privatizzare. Abolirlo, non impedisce a nessuno di privatizzare. Chi non ne fosse ancora convinto, è pregato di informarsi meglio.
Secondo punto. Acqua gestita dal pubblico non vuol dire acqua gratis, perché i costi qualcuno li deve pagare. Che sia la fiscalità o la tariffa, questo qualcuno sono sempre i cittadini. È incredibile come tanta gente sembri non capire una cosa così elementare. L’impatto distributivo di fiscalità e tariffe non è identico, ma non è affatto scontato che la fiscalità sia più progressiva (e quindi più egualitaria) della tariffa. Discutiamo semmai di come costruire le tariffe in modo da evitare impatti sociali troppo gravosi: si può fare, ci sono molti modi per farlo. Ma ai referendari preme invece convincere i cittadini che le tariffe sono elevate per colpa del profitto, e che si possano abolire senza aggravio per la fiscalità. Parlano di "fallimento del full cost recovery": ma che fallimento sarebbe, visto che è praticato in tutto il mondo? E soprattutto dalle gestioni pubbliche che funzionano, dalla Scandinavia alla Germania, dall’Olanda agli Usa? Ma se poi gli si chiede come pensano di coprire quei costi cincischiano: li vogliono in fiscalità generale, ma senza aumentare le tasse.
E, nell’impossibile tentativo di far quadrare il cerchio (diritti per tutti, tariffe basse e niente nuove tasse), sono costretti a inventarsi o improbabili riduzioni di altri capitoli di spesa (i mitici cacciabombardieri, la solita riduzione dell’evasione fiscale); a sostenere cose impossibili, come il fatto che se si fanno investimenti per ridurre le perdite questo farà diminuire i costi, e permetterà di finanziare linvestimento con i risparmi, mentre qualunque tecnico sa che accadrà esattamente il contrario, ossia che per ridurre le perdite i costi devono aumentare; o a prospettare strumenti finanziari – patacca, come i bond irredimibili (un vero e proprio furto ai danni delle generazioni future, cui rimarranno i debiti da pagare ma non le reti, perché un bel giorno dovranno essere rifatte daccapo con tariffe più alte o nuovo debito).
La questione tuttavia è: ammesso che la fiscalità riesca a recuperare qualche margine di manovra, rinunciando al cacciabombardiere o catturando qualche evasore, per cosa è opportuno utilizzare in via prioritaria queste risorse? Per diminuire la pressione fiscale? Per gli ammortizzatori sociali, l’istruzione, il welfare, i beni culturali? Oppure per la bolletta dell’acqua? Perché usare il denaro pubblico per finanziare un obbligo di servizio universale che è già affermato e garantito (visto che l’acqua arriva già in tutte le case), e costa in media solo 90 euro all’anno pro capite (25 centesimi al giorno), ed è dunque già alla portata di (quasi) tutti? I cittadini devono sapere che acqua gratis non significa non pagare dazio, ma significa meno spesa pubblica in qualche altro capitolo. E legittimo scegliere più acqua a basso prezzo e meno welfare (noi non siamo d’accordo, ma sono ammesse opinioni diverse). Ma non è legittimo far credere che la scelta sia tra acqua gratis e acqua a pagamento.
Sembra che campagna referendaria stia riportando a galla una cultura tipica degli anni 70 e 80 del secolo scorso: quando tutti invocavano diritti, ma nessuno si preoccupava di come avremmo pagato i costi corrispondenti. Il risultato, allora, fu gran parte del debito pubblico che ancora abbiamo sulle spalle. Ci è servito per molti anni a pagare spesa corrente, dalle pensioni baby, a una sanità il cui costo sistematicamente sfondava i tetti previsti, a un settore pubblico usato come ammortizzatore sociale. Ora, non paghi di aver depredato le generazioni future con la finanza allegra di quel periodo, si imbrogliano le carte in modo da farci credere che questo ennesimo pasto gratis si auto-finanzi. I cittadini sappiano che, invece, i pasti gratis esistono solo nel paese dei balocchi. Su questo non sono ammesse "opinioni", così come non ne sono ammesse sulla legge di gravità. L’aritmetica può essere assai sgradevole, ma non è un’opinione, purtroppo (o per fortuna).
Ci preme peraltro di ricordare che, tuttavia, se il secondo referendum dovesse passare, verrebbe abolito l’inciso "adeguatezza della remunerazione del capitale investito", ma non il principio del "full cost recovery", ribadito nello stesso comma dello stesso articolo, giusto una riga dopo.
La tariffa, con o senza referendum, continua a dover coprire il costo del servizio, ossia il costo della gestione, l’ammortamento e il costo del capitale investito. Se la finanza pubblica vorrà mettere a disposizione circuiti agevolati, o al limite anche a fondo perduto, potrà eventualmente farlo (nessuno glielo impedisce: basta votare una legge finanziaria che lo preveda), ma finché non lo farà, il gestore i soldi li deve chiedere al mercato (ossia alle banche, agli investitori). E quel costo andrà pagato.
Terzo punto. L’acqua costa meno se la gestisce il pubblico? Qui si confonde il costo (ossia gli stipendi, i materiali, gli impianti, l’energia, gli interessi sui debiti) con la tariffa. Se le tariffe non coprono i costi, le aziende falliscono. Se le gestioni sono vincolate a recuperare i costi con le tariffe, una diminuzione di queste può aversi solo se i costi diminuiscono, ossia se la gestione diventa più efficiente (usa meno personale, acquista meno servizi o tecnologie meno costose), oppure se non si fanno gli investimenti. In un settore in cui la concorrenza non c’è e anche le gare funzionano male, la presunzione di superiorità del privato da questo punto di vista è spesso contraddetta dai fatti, ma se è per questo ciò non significa neppure il contrario. Vent’anni di studi empirici concludono sostanzialmente in pareggio, e mostrano che l’efficienza aumenta dove il sistema di regolazione funziona meglio (si può fare, senza dimenticare che anche la regolazione indipendente incontra limiti non è certamente una bacchetta magica). Niente osanna alla mano invisibile, dunque: ma neppure ostracismi a prescindere. Se molti lettori avessero la bontà di non partire in quarta citando esperienze note solo in via aneddotica e si volessero confrontare seriamente con la montagna di studi che la ricerca ha profuso in questi anni, scoprirebbero che le cose non sono così ovvie come la vulgata tende a far credere.
Ribadiamo che la norma (e il referendum) non intervengono su una tabula rasa, e che non è certo questo voto il modo per prendere posizione sulla questione. I piani d’ambito sono già approvati, la dinamica tariffaria già prevista (in base alle norme vigenti, uguali per tutti, che il referendum non abroga), le regole per definire revisioni dei piani sono già stabilite. Un’eventuale gara da lì dovrebbe partire; se l’offerta fosse uguale o peggiore rispetto a quella dell’affidamento già in essere, il comune avrebbe tutte le ragioni per mantenere l’affidamento in essere. Dunque le tariffe non possono aumentare oltre a quanto già previsto, ma semmai diminuire, o aumentare di meno.
Qualcosa potrà cambiare, semmai, se cambierà il metodo tariffario normalizzato, cosa che peraltro anche noi auspichiamo: sarà uno dei principali compiti della nuova agenzia di regolazione, che attendiamo al varco. La tariffa deve incentivare il gestore a ridurre i costi (si può: se ci riescono in altri paesi possiamo riuscirci anche noi), consentendogli di guadagnare il giusto (ossia, il costo del finanziamento sul mercato e il premio per il rischio che si assume investendo). Il rischio è una variabile che dipende dalla regolazione: più il costo va in tariffa "a piè di lista", più limitato è il rischio; più il costo è definito ex ante e tenuto fermo, più elevato è il rischio.
Ce n’è abbastanza, a questo punto per dire a tutti, critici e sostenitori: arrivederci a Trento, o meglio a Rovereto, dove sabato 4 uno di noi due (non vi diciamo chi) si scontrerà sul ring con Ugo Mattei, e voleranno, se questo è il clima, botte da orbi. Speriamo che la prospettiva di veder scorrere il sangue faccia aumentare l’audience!
P.S. due risposte ad personam:
A Marco Bersani: prima di affermare cosa "sanno tutti gli economisti", abbia la bontà di consultare qualcuno che l’economia la conosca davvero; se gli economisti che affermano le cose che lui sostiene sono per caso gli stessi che gli hanno suggerito i bond irredimibili, ci viene il dubbio che lo abbiano imbrogliato per bene.
A Salvatore Acocella vorremmo solo ricordare che 1) se gli attuali assetti di regolazione sono molto difettosi (per esempio quello del settore autostradale), non significa che non possano essere messi in piedi assetti migliori, che tendano a minimizzare sistematicamente gli extra-profitti; se altri ci riescono, non è vietato che ci riusciamo anche noi. 2) Poste e Ferrovie non sono mai state privatizzate (in Italia): sia Poste che F.S. sono società per azioni, il cui controllo totalitario è pubblico, di preciso del Ministero dell’Economia. Le informazioni a supporto di tanto sarcastico ideologismo dovrebbero almeno essere esatte. 3) com’è che il settore pubblico è corrotto e incapace quando si affida a privati, e invece non lo è quando gestisce in proprio? Non sarà forse che quando gestisce in proprio inefficienze e disservizi passano più facilmente sotto silenzio? Perché se dal rubinetto esce l’arsenico l’Acea va sbattuta in prima pagina mentre la gestione pubblica di Viterbo invece no? Perché si cita Girgenti Acque (Agrigento, peraltro molto più pubblica che privata, visto che il socio "privato" è il gestore pubblico di Catania) come emblema del disservizio, e si tace che quel disservizio esiste da un secolo e nessuno, né il pubblico né il privato, ha saputo finora porvi rimedio?