In Italia nascono pochi bambini. Forse non c’è da stupirsi visto che un terzo delle donne nel periodo cruciale per la fecondità ha un contratto a tempo determinato. Favorire l’accesso delle donne al tempo indeterminato per aumentare la natalità.
Autore: Bernardo Fanfani
Ricercatore presso il Dipartimento di Scienze Economico-Sociali e Matematico-Statistiche dell’Università di Torino, affiliato al Laboratorio Revelli e al CRILDA, si occupa di economia del lavoro e relazioni industriali. Ha conseguito il dottorato di ricerca in economia presso l’Università di Torino e il Collegio Carlo Alberto. È stato visiting student presso la Berkeley University.
La legge di bilancio prevede la reintroduzione dei voucher in agricoltura, turismo e ristorazione. L’analisi di quanto accaduto nel 2012-2014 suggerisce che gli effetti relativi all’emersione di nuovi rapporti di lavoro potrebbero essere modesti.
Il modello italiano di contrattazione centralizzata dei salari fatica ad adattarsi alle diverse esigenze di una popolazione di imprese alquanto eterogenea. Lo dimostrano due recenti studi empirici. Il salario minimo potrebbe dare maggiore flessibilità.
Nel 2018 è stato introdotto un incentivo all’assunzione di giovani esteso anche agli under-35. Ha portato a una effettiva crescita dell’occupazione per quella fascia d’età. Il costo è però rilevante. E la chiarezza del quadro normativo è cruciale.
È un’illusione pensare che il salario minimo risolva il problema dei redditi da lavoro bassi. Andrebbe invece ripensato il sistema di contrattazione collettiva per adeguare le regole sui minimi retributivi alla dinamica della produttività delle imprese.
In trent’anni le disuguaglianze nei salari giornalieri sono aumentate meno nel nostro paese rispetto alla Germania. Ma la situazione è ben diversa per le retribuzioni annuali. Bisogna dare più spazio alla contrattazione decentrata e alle deroghe ai Ccnl.