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Autore: Giliberto Capano

Giliberto Capano bwGiliberto Capano è professore ordinario di Scienza Politica all'Università di Bologna (e dal 1 ottobre 2014 anche alla Scuola Normale) È stato preside della facoltà di Scienze Politiche Roberto Ruffilli. È  condirettore della Rivista italiana di Politiche Pubbliche e della rivista Policy & Society. È membro dell'Executive Committee dell'International Political Science Association. È coordinatore del Dottorato in Political Science and Sociology  della Scuola Normale/Unibo. È presidente del Nucleo di valutazione dell'Università di Genova.

Come cambia la governance delle università italiane

A quattro anni dalla discussa riforma Gelmini, l’attenzione si concentra sugli effetti del nuovo sistema di reclutamento e valutazione dell’Anvur. Tre articoli sugli effetti attesi e inattesi della riforma.

Una verticalizzazione squilibrata: rettori, organi di governo e processi decisionali

LA VERTICALIZZAZIONE PREVISTA DALLA LEGGE 240

La riforma Gelmini aspirava a cambiare radicalmente le caratteristiche degli assetti di governo delle università italiane. In particolare, intendeva rafforzare le capacità di governo degli atenei al fine di superare quelle caratteristiche (il bicameralismo simmetrico, la logica corporativa e distributiva dei processi decisionali interni, l’incapacità a prendere decisioni strategiche) che erano ritenute una delle concause del loro cattivo funzionamento e dei loro risultati insoddisfacenti.

La risposta ai commenti

Ringrazio i molti lettori che hanno voluto condividere le loro osservazioni e i loro commenti. Come era forse prevedibile, si sono equamente suddivisi in commenti favorevoli e contrari, ma tutti presentano argomenti degni di ulteriore riflessione. Mi sembra però che la simpatia o l’antipatia per questa legge di riforma renda difficile a tutti rispondere serenamente al principale problema che avevo cercato di porre: una volta riconosciute le contraddizioni fra obiettivi (condivisi da molti) e strumenti/risorse (riconosciuti inadeguati dai più), quali le conseguenze del fallimento (ormai probabile) di questo tentativo di riformare l’università italiana? Il modo in cui si è sviluppato il dibattito politico e culturale, la prova di forza intorno a questo ddl il cui significato e la cui portata va ben al di là dei meriti e demeriti del ddl stesso, mi rendono pessimista su queste conseguenze; e in molti dei commenti ricevuti trovo conferma di ciò.
Facciamo un solo esempio dei molti aspetti contraddittori contenuti nel ddl e dei diversi modi in cui si può rispondere a queste contraddizioni. Il nuovo percorso previsto per il reclutamento (la cosiddetta tenure track) si ispira al sistema seguito dalle migliori università in Europa e nel mondo, ma manca una componente cruciale: l’obbligo per le università di accantonare i fondi per il tempo indeterminato da utilizzare dopo il periodo di prova. Come reagire a questa contraddizione?
Si può incalzare il governo (anche dopo l’eventuale approvazione del ddl) a prevedere quest’obbligo per realizzare un vero percorso di tenure track, con numerosi argomenti: che se veramente vogliamo allinearci ai migliori sistemi universitari occorre seguirne la logica che li ispira e non adottare soluzioni parziali che non riuscirebbero a rispondere a quella logica; che se veramente vogliamo favorire il merito e combattere il nepotismo questo è il sistema migliore, perché qualunque sistema concorsuale può fallire nel valutare le capacità e l’impegno nella ricerca e nella didattica di un candidato, mentre il vederlo alla prova per alcuni anni consente a tutti i colleghi di valutare se il “nuovo acquisto” rende il dipartimento più competitivo o meno. Insomma, si può dire: questo è il principio migliore, ma questo governo (o il prossimo che farà la riforma) deve applicarlo in modo coerente.
Oppure si può rispondere che la tenure track “è ben altro”, che questo dimostra che tutta la riforma è un bluff, che sarebbe bastato applicare seriamente la norma già esistente della conferma in ruolo (dimenticando che questa conferma non è mai stata negata a nessuno…). O addirittura rispondere che in questo modo si estende il precariato, si dà più potere ai baroni, ecc.
Ora, è sotto gli occhi di tutti un progressivo slittamento nel dibattito dalla prima risposta alla seconda e alla terza. E resto convinto che il clima culturale che si è creato (il mutamento nelle posizioni del PD, gli slogans delle proteste amplificati dai media e ormai assorbiti dall’opinione pubblica, il ripensamento di molti rettori) è tale per cui, se la riforma non passerà, sarà il terzo tipo di risposta a dominare. Se e quando il dibattito sulla riforma riprenderà, sarà pesantemente condizionato da questi mutamenti nei valori e negli orizzonti in cui si muovono alcuni dei protagonisti e degli opinion leaders.
Un altro tema evocato da alcuni commenti è il fatto che si sia trattato di un tentativo di riforma poco partecipato. Personalmente sono a favore della concertazione delle riforme importanti, ma si tratta di capire chi devono essere gli interlocutori. L’università è diventata una istituzione fondamentale per la crescita economica e lo sviluppo sociale e culturale di un paese e non può quindi essere governata principalmente da e nell’interesse di chi vi lavora. E’ facile banalizzare l’apertura dei cda agli esterni (che esiste da tempo in tutti i paesi avanzati) presentandola come una volontà di privatizzazione o di spartizione fra i partiti. Certo, questi sono rischi purtroppo sempre presenti (anche se le esperienze straniere mostrano che il vero rischio è il disinteresse e lo scarso impegno dei membri esterni), che bisognerà sempre cercare di combattere. Ma non possono essere usati come alibi da docenti o studenti per evitare di render conto a qualcuno che ha il compito di rappresentare interessi più generali, “altri” dai loro.

L’università della conservazione

Introdurre elementi di competizione fra gli atenei, distribuire una parte delle risorse in base al merito, sottrarre potere alle corporazioni: sugli obiettivi della riforma dell’università esisteva fino a poco tempo fa un consenso molto ampio. Che sembra ora evaporare via via che l’attenzione si sposta sull’inadeguatezza o la contraddittorietà degli strumenti individuati per realizzarla e le parole d’ordine si fanno sempre più ideologiche. Se la riforma non sarà approvata, i propositi di modernizzazione saranno abbandonati e prevarrà la conservazione dello status quo.

 

LA RISPOSTA AI COMMENTI

Come era prevedibile, una parte dei commenti si è divisa in due fronti contrapposti. Da un lato quelli che plaudono a “un articolo finalmente controcorrente”, come ha scritto un lettore, e che “scava fra le macerie del provincialismo”, come ha scritto un altro. Dall’altro quelli che vi hanno visto “una difesa d’ufficio”, o addirittura l’espressione di “una casta che intende perpetuare i propri privilegi”. La maggior parte dei lettori che hanno scritto un commento, tuttavia, entrano nel merito, con osservazioni interessanti per le quali li ringrazio.
Poiché la proliferazione dei corsi di laurea è stata un effetto della riforma del 3+2, un primo gruppo di commenti si sofferma su questo nuovo modello di organizzazione degli studi. Prevale un giudizio moderatamente positivo sulla riforma, con alcune riserve. Chi scrive condivide questa posizione, e in particolare la convinzione che ora la priorità non sia certo un’ulteriore revisione del 3+2, bensì altri aspetti cruciali che questa riforma non ha toccato: un efficace sistema di valutazione, la governance degli atenei, i sistemi di reclutamento e di carriera.
Un secondo gruppo di commenti riguarda l’aumento del numero dei docenti, che la riforma, e la moltiplicazione dei corsi di laurea in particolare, hanno comportato. Le cifre richiamate oscillano fra il 19 e il 32% dal 2000 al 2007. Tuttavia, i confronti internazionali mostrano che in Italia non c’è affatto sovrabbondanza di docenti, né rispetto alla popolazione né in rapporto agli studenti. I dati OCSE per il 2005 danno un rapporto di 20.4 studenti equivalenti a tempo pieno per docente in Italia, a fronte di un rapporto decisamente più basso in Francia, Olanda, UK e USA, e ancor più basso in Germania e Spagna.
Infine, un terzo gruppo di commenti riguarda più specificamente il senso e le conseguenze della moltiplicazione dei corsi di studio. Alcuni lettori continuano a considerarla solo una assurda fonte di costi, altri un falso problema, o una illusione ottica, come si diceva nel mio articolo. Un lettore nota come i dati mostrino che anche in altri paesi alcuni “prodotti universitari” vengono lanciati, falliscono e vengono ritirati dal mercato, in una logica di “sperimentazione come necessaria all’evoluzione”. Ma un altro osserva che il sistema dei crediti, se potesse essere utilizzato in percorsi flessibili anziché rigidi, consentirebbe allo studente di personalizzare il suo curriculum anziché dover scegliere tra alternative che vengono “inutilmente burocratizzate con percorsi diversi chiamati corsi di laurea”. In effetti, il meccanismo delle “classi dei corsi di laurea”, dettato dalla paura di concedere troppa autonomia alle strutture didattiche e dalla mentalità burocratica per cui si assicura la qualità standardizzando ex ante anziché valutando ex post, ha finito con lo spingere le facoltà a moltiplicare i corsi di studio, anziché a contenerli come era nelle intenzioni.
In conclusione, ringrazio i lettori per avere in larga misura compreso come l’obiettivo dell’articolo, e più in generale del lavoro da cui è tratto, fosse di mostrare che, guardando ai dati in chiave comparata, emerge la necessità di valutazioni più equilibrate rispetto ai pregiudizi, alla disinformazione e alla tendenziosità che purtroppo imperano nel dibattito sull’università italiana.

E SULL’UNIVERSITA’ DATI CONTRO PREGIUDIZI

Una delle ricorrenti accuse contro l’università italiana riguarda la proliferazione dell’offerta formativa negli ultimi anni. Che sarebbe legata a interessi corporativi dei docenti. Non mancano le azioni clientelari, ma per lo più è il risultato di un’illusione ottica: l’introduzione del 3+2 ha spezzato il ciclo unico, portando come minimo a un apparente raddoppio del numero di corsi di studio. E corrisponde anche al tentativo di individuare percorsi più mirati al mercato del lavoro. Processi virtuosi, almeno nelle intenzioni, che hanno interessato tutti i paesi europei.

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