Come era prevedibile, una parte dei commenti si è divisa in due fronti contrapposti. Da un lato quelli che plaudono a “un articolo finalmente controcorrente”, come ha scritto un lettore, e che “scava fra le macerie del provincialismo”, come ha scritto un altro. Dall’altro quelli che vi hanno visto “una difesa d’ufficio”, o addirittura l’espressione di “una casta che intende perpetuare i propri privilegi”. La maggior parte dei lettori che hanno scritto un commento, tuttavia, entrano nel merito, con osservazioni interessanti per le quali li ringrazio.
Poiché la proliferazione dei corsi di laurea è stata un effetto della riforma del 3+2, un primo gruppo di commenti si sofferma su questo nuovo modello di organizzazione degli studi. Prevale un giudizio moderatamente positivo sulla riforma, con alcune riserve. Chi scrive condivide questa posizione, e in particolare la convinzione che ora la priorità non sia certo un’ulteriore revisione del 3+2, bensì altri aspetti cruciali che questa riforma non ha toccato: un efficace sistema di valutazione, la governance degli atenei, i sistemi di reclutamento e di carriera.
Un secondo gruppo di commenti riguarda l’aumento del numero dei docenti, che la riforma, e la moltiplicazione dei corsi di laurea in particolare, hanno comportato. Le cifre richiamate oscillano fra il 19 e il 32% dal 2000 al 2007. Tuttavia, i confronti internazionali mostrano che in Italia non c’è affatto sovrabbondanza di docenti, né rispetto alla popolazione né in rapporto agli studenti. I dati OCSE per il 2005 danno un rapporto di 20.4 studenti equivalenti a tempo pieno per docente in Italia, a fronte di un rapporto decisamente più basso in Francia, Olanda, UK e USA, e ancor più basso in Germania e Spagna.
Infine, un terzo gruppo di commenti riguarda più specificamente il senso e le conseguenze della moltiplicazione dei corsi di studio. Alcuni lettori continuano a considerarla solo una assurda fonte di costi, altri un falso problema, o una illusione ottica, come si diceva nel mio articolo. Un lettore nota come i dati mostrino che anche in altri paesi alcuni “prodotti universitari” vengono lanciati, falliscono e vengono ritirati dal mercato, in una logica di “sperimentazione come necessaria all’evoluzione”. Ma un altro osserva che il sistema dei crediti, se potesse essere utilizzato in percorsi flessibili anziché rigidi, consentirebbe allo studente di personalizzare il suo curriculum anziché dover scegliere tra alternative che vengono “inutilmente burocratizzate con percorsi diversi chiamati corsi di laurea”. In effetti, il meccanismo delle “classi dei corsi di laurea”, dettato dalla paura di concedere troppa autonomia alle strutture didattiche e dalla mentalità burocratica per cui si assicura la qualità standardizzando ex ante anziché valutando ex post, ha finito con lo spingere le facoltà a moltiplicare i corsi di studio, anziché a contenerli come era nelle intenzioni.
In conclusione, ringrazio i lettori per avere in larga misura compreso come l’obiettivo dell’articolo, e più in generale del lavoro da cui è tratto, fosse di mostrare che, guardando ai dati in chiave comparata, emerge la necessità di valutazioni più equilibrate rispetto ai pregiudizi, alla disinformazione e alla tendenziosità che purtroppo imperano nel dibattito sull’università italiana.

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