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Autore: Massimo Bordignon Pagina 18 di 25

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Si è laureato in Filosofia a Firenze e ha svolto studi di economia nel Regno Unito (MA, Essex; PhD, Warwick). Si occupa prevalentemente di temi di economia pubblica. Ha insegnato nelle Università di Birmingham, Bergamo, Brescia, Venezia e come visiting professor negli USA, in Svezia, Germania e Cina. Attualmente è professore ordinario di Scienza delle Finanze presso l'università Cattolica di Milano, dove ha diretto anche il Dipartimento di Economia e Finanza e la Doctoral School in Public Economics. Ha svolto e svolge tuttora attività di consulenza per enti pubblici nazionali e internazionali ed è stato membro di numerose commissioni governative, compresa la Commissione sulla Finanza Pubblica presso il Ministero del Tesoro nel 2007-8. È attualmente membro dell'European Fiscal Board, un comitato di consulenza del Presidente della Commissione Europea e Vicepresidente esecutivo dell'Osservatorio sui conti pubblici dell'Università Cattolica.

LA GRANDE ATTESA PER LA GRANDE RIFORMA FISCALE

Il ministro del Tesoro ha annunciato tra gli obiettivi del prossimo anno il rilancio di una grande riforma fiscale che superi la logica dei “rattoppi” degli ultimi anni. Benissimo. Non c’è dubbio che il sistema tributario italiano avrebbe bisogno di una seria e ponderata revisione. Non solo incombe una riforma in senso federale che deve essere ben meditata anche per evitare ulteriori incrementi nella pressione tributaria. Ma questa, oltre che già elevata, è soprattutto mal distribuita. Il prelievo si concentra infatti quasi esclusivamente su pochi cespiti e pochi contribuenti. Tartassiamo i fattori produttivi, lavoro e capitale, e tassiamo troppo poco patrimoni e rendite. L’opposto di quello che dovrebbe fare un paese che ha seri problemi di crescita e ancor più seri problemi di equità. Sempre di più, l’Italia è un paese dove chi nasce ricco resta ricco, mentre chi vuole legittimamente e legalmente arricchirsi con i frutti del proprio impegno e del proprio lavoro non ha la possibilità di farlo. Ma è importante che il ministro si ricordi che la principale riforma necessaria in Italia è la lotta all’evasione e a tutte le forme presenti nel nostro sistema fiscale di elusione e erosione. Non è possibile immaginare che si possa costruire un sistema fiscale più giusto e efficiente finché tra il 50 e il 75%, a secondo delle stime, dei redditi da lavoro autonomo, piccola impresa e liberi professionisti risulta nascosto al fisco. Non è possibile continuare a tollerare che il 50% delle imprese italiane risulti permanentemente in perdita o che il numero dei contribuenti che dichiarano più di 100.000 euro all’anno sia minore del numero delle automobili immatricolate che costano più di quella cifra. Lo stesso sbandierato successo dello scudo (capitali rientrati a consuntivo pari a quasi il 10% del PIL) da un’idea dell’enormità del fenomeno in Italia. Va anche sottolineato che finora i provvedimenti del governo in campo tributario, tra condoni, riduzione dei controlli sui redditi da lavoro autonomo e abolizione dell’Ici, non sono particolarmente incoraggianti. Ma aspettiamo le nuove proposte per discuterne.

EVASORI, ARRIVA BABBO NATALE!

Come era da attendersi, il governo ha deciso la proroga dello scudo fiscale. Chi non ha ancora provveduto a rimpatriare i capitali detenuti illegalmente all’estero potrà ora farlo, con un modico sovrapprezzo, il 6%, invece del 5%, se ci si adeguerà entro febbraio, e il 7%, se lo farà entro marzo. Ed  è facile ipotizzare che se ce ne sarà ancora bisogno per perseguire la strategia del governo, lo scudo verrà prorogato ancora, magari con qualche altro ritocco. Il ministro Tremonti ha presentato i risultati della prima tranche dello scudo come uno straordinario successo, circa 80 miliardi rientrati, per un gettito addizionale di 4 miliardi. In che senso sia stato un successo però non si capisce. Che i capitali siano rientrati davvero e che vadano a finanziare le imprese italiane è tutto da dimostrare, visto che il rientro vero era previsto solo per i capitali detenuti presso i paradisi fiscali. Che viceversa sia stato uno straordinario regalo per gli evasori, oltretutto protetti dall’anonimato è indubbio, come è indubbio il fatto che le maggiori entrate attuali vanno a detrimento di quelle future, visto che per i redditi scudati il fisco non potrà procedere con la normale attività di accertamento, che avrebbe potuto condurre domani a entrate ben maggiori. Di più, i condoni sono in genere pericolosi perché generano aspettative di futuri condoni, aumentando la propensione ad evadere al presente. Figuriamoci un condono a fisarmonica come questo, dove prima si pone un limite improrogabile, e poi lo si sposta a piacimento, oltretutto facendo intendere che se ci sarà bisogno lo si sposterà ancora. E’ un fisco che tratta con i guanti bianchi gli evasori. E che incredibilmente, con buona pace dell’equità fiscale,  fa invece la faccia feroce con quei contribuenti che avendo dichiarato l’imponibile, usano il ravvedimento operoso per spostare in avanti il pagamento delle imposte, in una situazione di crisi economica e carenza di liquidità. Ma qual è il senso di questa politica tributaria?

FUORI DAL PANTANO DELL’IRAP

L’Irap è un’imposta sostanzialmente corretta sotto il profilo economico, ma profondamente odiata dai contribuenti. Va dunque migliorata. E forse in parte sostituita. Se possibile all’interno di una più vasta riforma del sistema tributario italiano. Ma certo senza abbandonarsi a improvvisazioni e studiando seriamente gli effetti dei diversi possibili provvedimenti. Se l’obiettivo è invece sostenere l’economia, sono possibili altri interventi congiunturali di maggiore efficacia.

LA SANITÀ DI SACCONI

Da mesi le Regioni si rifiutano di partecipare alle varie Conferenze Stato-Regioni e cercano affannosamente, e finora senza successo, un incontro risolutore con il Presidente del Consiglio. Il principale tema del contendere è il finanziamento della sanità per il prossimo biennio, che le Regioni considerano del tutto insufficiente. E infatti gli studiosi si aspettano che tutte le Regioni, e non solo quelle più inefficienti, finiranno con i conti in rosso il prossimo anno. Si osservi inoltre che a causa del blocco delle addizionali Irpef e Irap decretato dal governo, le Regioni non possono più contare su strumenti tributari propri per far fronte alle emergenze, nonostante i continui annunci di federalismo fiscale. Eppure, il Ministro Sacconi ha detto pubblicamente, alla trasmissione Ballarò di martedì scorso, che la posizione delle Regioni è sbagliata perché il governo ha invece aumentato il finanziamento della sanità di ben 3,5 miliardi nel biennio, sfidando anche il pubblico a controllare le cifre. Che succede allora? Di che si lamentano i Presidenti delle Regioni? La tabella aiuta a fare chiarezza. Sacconi non mente sulle cifre del sistema sanitario, ma cita solo i dati che gli convengono, dimenticandone altri che viceversa sono più importanti. Come si osserva dalla tabella, è vero che il finanziamento di "base" – escludendo cioè manovre e ulteriori finanziamenti – cresce di 3,5 miliardi nel biennio; ma quello "effettivo", cioè quello che davvero importa per i bilanci delle regioni, cresce solo di 0,471 miliardi nel 2010 e di 2,1 miliardi nel 2011. La ragione è che nel 2010 vengono meno i 434 milioni destinati alla seconda tranche di finanziamento per l’abolizione dei ticket (ticket che formalmente rientrano nella sovranità delle Regioni, ma che l’ultimo governo di centro sinistra ha abolito, compensando in misura insufficiente le regioni, e che il governo di centro destra ha deciso di non compensare affatto) e gli 800 milioni di risparmi sulla spesa farmaceutica (il risultato di un’azione fortemente voluta dalle Regioni, le quali contavano di destinare le economie ai nuovi farmaci, in particolare oncologici) che verranno invece trattenuti e utilizzati dallo Stato. Difficile dunque dare ragione a Sacconi.

L’IMBIANCHINO DI SACCONI

Nel suo recente intervento alla riunione dei giovani industriali, il ministro del Welfare, Maurizio Sacconi, ha invitato i giovani ad accettare anche i lavori più umili, come l’imbianchino, piuttosto che inseguire una formazione fatiscente, come le lauree in scienze della formazione. Se l’obiettivo fosse solo quello di riconoscere dignità anche all’imbianchino, o ai lavori manuali in generale, nulla da dire. Ma l’intervento racchiude anche un sottile messaggio ideologico, che ben si inserisce nell’offensiva culturale più generale portata avanti dall’attuale governo. È un’offensiva che tende a riproporre il “buon tempo antico” come la soluzione dei problemi italiani odierni, crisi globale inclusa, e che trova orecchie interessate in una parte della società italiana, come gli industriali. Che difatti, dicono i resoconti della stampa, si sono spellati le mani per applaudire il ministro.
Il messaggio è semplice. Basta con questi giovani che vogliono lavorare nella finanza o nell’industria culturale. Torniamo invece alla fabbrica e al duro lavoro nella manifattura, e tutto andrà come prima, come al tempo del mitico miracolo italiano. Insomma, come recitava una canzone, anch’essa dei bei tempi andati, il problema italiano è oggi più che mai che “anche l’operaio vuole il figlio dottore”. Facesse l’operaio, invece, saremmo a posto.
Ahimé, nulla di più falso. Intanto, la scuola e l’università italiana ripresentano imperterrite le disuguaglianze sociali pre-esistenti, invece di correggerle come dovrebbero. Il numero dei diplomati e laureati italiani poi è ancora nettamente inferiore alla media europea; e il divario di competenze degli studenti italiani rispetto alla media dei paesi sviluppati è, soprattutto in alcune zone del Paese, abissale. La bassa qualità del capitale umano italiano è al contempo causa ed effetto del circuito perverso di bassa produttività e bassi salari in cui l’Italia pare si sia adagiata negli ultimi anni. La terza media è probabilmente sufficiente se si tratta di operare un tornio o far girare una macchina. Non lo è se si devono produrre quei servizi a sostegno della moderna industria che ne rappresentano buona parte del valore aggiunto. A Sacconi e a chi l’applaude andrebbe ricordato che grazie ad alcune circostanze favorevoli si può diventare ricchi anche essendo ignoranti. È difficile però che si resti ricchi, se si rimane ignoranti, quando quelle condizioni mutano.

COSA CI SARÀ DOPO LA CRISI

E’ la peggiore crisi dagli anni Trenta. Ma è utile guardare più lontano nel tempo, per capire le possibilità del nostro paese, che oltretutto ha beneficiato meno della crescita precedente. Aumenteranno disavanzi e debiti pubblici, in particolare nei paesi avanzati. Si ridurrà la domanda Usa ed è illusorio contare sulla Cina per riavviare un modello fondato sulle esportazioni. Servirebbero una politica fiscale sempre più europea e riforme strutturali. Difficili da realizzare. Ma l’alternativa è una progressiva emarginazione dell’Europa. E dell’Italia.

LA CRISI NEL VOTO DEGLI ITALIANI

Al contrario di quanto accade in altri paesi, in Italia la crisi economica rafforza il governo, almeno per il momento. Le intenzioni di voto indicano che sono proprio le categorie più colpite, e soprattutto i giovani, ad affidarsi a Silvio Berlusconi. Dopo le elezioni, il governo non potrà dunque ignorare il segnale mandato dal settore più sofferente, ma anche più dinamico, della società. Non è il momento delle strategie dei due tempi: bisogna fare subito le riforme, per migliorare le condizioni delle giovani generazioni.

UN ANNO DI GOVERNO: FEDERALISMO

I PROVVEDIMENTI

Che è successo nel primo anno del IV governo Berlusconi ai rapporti finanziari tra governi, o per dirla più semplicemente al federalismo fiscale? Nulla di nuovo rispetto al Berlusconi II e III. Allora come ora, dichiarazioni eclatanti a favore del decentramento e del federalismo, fatte apposta per far contenti pezzi della maggioranza, si sono accompagnate a comportamenti concreti che vanno esattamente nella direzione opposta.

Dal lato delle entrate:

Si è abolita l’Ici sull’abitazione principale, il più importante tributo comunale (costo stimato: 1,7 miliardi di euro). La cancellazione dell’imposta contrasta con il principio dell’autonomia tributaria sancito dalla Costituzione. E se anche fosse vero che le perdite di gettito saranno interamente coperte da trasferimenti, del che c’è da dubitare, almeno a sentire i sindaci che ancora aspettano di vedere i soldi, il risultato non è ovviamente lo stesso in termini degli incentivi.
Sempre in contrasto con l’obiettivo dell’autonomia tributaria, il Dl 93/2008, come l’analogo intervento deciso nel 2002, ha bloccato la possibilità di introdurre variazioni nell’addizionale comunale all’Irpef, così come dell’addizionale regionale sull’Irpef e sull’Irap. (1)
Ironicamente, la Ruef (aprile 2009) attribuisce il blocco dei tributi locali al desiderio di “sostenere i redditi e di ridurre la pressione fiscale”. Peccato che il blocco e la riduzione dell’Ici siano stati introdotti a pressione fiscale invariata, cioè con l’aspettativa che i due interventi saranno finanziati interamente da incrementi nei tributi erariali.

Dal lato delle spese:
Nell’ambito della manovra sulle spese per il 2009-2011, il contributo più rilevante al risanamento è stato richiesto agli enti locali, attraverso il patto di stabilità interno, con risparmi di spese correnti stimati in 3,4 miliardi di euro nel 2009, 5,5 nel 2010 e 9,5 nel 2011, somme che rappresentano circa il 40 per cento dei risparmi complessivi in ciascun anno. Per avere un punto di riferimento, i risparmi delle spese statali (per la parte corrente) sono stimati in 3, 3,5 e 6,3 miliardi di euro rispettivamente. Naturalmente, è tutto da vedere se questi risparmi di spesa siano conseguibili, soprattutto alla luce della presente crisi economica.
È stata fortunatamente messa da parte la proposta del Consiglio regionale della Lombardia sull’attuazione dell’articolo 119 del Titolo V della Costituzione (cosiddetta bozza Formigoni), nonostante che questa fosse enfaticamente prevista nel programma elettorale del Partito delle libertà. Al suo posto, è stata invece approvata definitivamente dal Parlamento la legge delega “Calderoli”, che riprende in molte parti l’analogo provvedimento presentato dal governo Prodi. La legge delega è piena di buoni principi, molto vaga e contraddittoria in alcune parti. Comunque, richiederà diversi anni per essere pienamente applicata. E nel frattempo?

(1) Se sarà davvero così. Il blocco della addizionale Irpef ha infatti scatenato un contenzioso tra Stato e comuni, che reclamano il diritto di portare avanti gli incrementi decisi nel 2008 per gli anni successivi e già iscritti nei bilanci di previsione. Per il momento, la Corte dei conti ha dato loro ragione. Si aspetta di vedere se il governo farò ricorso.

SENZA NUMERI NON C’E’ FEDERALISMO

Le norme sul federalismo fiscale sono assai complesse e non sarà facile attuarle. Ma se si vuole davvero mettere su un binario corretto il dibattito, la prima cosa da fare è predisporre un quadro di riferimento quantitativo condiviso dei dati disponibili. Bisogna costruire al più presto un sistema informativo appropriato sui dati territoriali, che consenta di raccordare le informazioni che arrivano dalle diverse fonti, spesso contraddittorie tra di loro. Un’operazione di questo tipo accelererebbe l’avvio del federalismo molto più di qualunque legge delega.

QUESTO FEDERALISMO NON HA I NUMERI

In un immaginario dialogo, un discepolo ingenuo pone al suo illuminato Maestro alcune domande all’indomani dell’approvazione in Italia di una importante legge delega. Si scopre così che il federalismo fiscale è un elettrone, che aspetta di essere osservato. E per questo, il grande sacerdote si rifiuta di dare i numeri. Mentre le vie dell’opposizione sono imperscrutabili come le stelle. Ma la grande riforma risponde perfettamente alle esigenze della comunicazione politica.

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