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Autore: Massimo Bordignon Pagina 22 di 25

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Si è laureato in Filosofia a Firenze e ha svolto studi di economia nel Regno Unito (MA, Essex; PhD, Warwick). Si occupa prevalentemente di temi di economia pubblica. Ha insegnato nelle Università di Birmingham, Bergamo, Brescia, Venezia e come visiting professor negli USA, in Svezia, Germania e Cina. Attualmente è professore ordinario di Scienza delle Finanze presso l'università Cattolica di Milano, dove ha diretto anche il Dipartimento di Economia e Finanza e la Doctoral School in Public Economics. Ha svolto e svolge tuttora attività di consulenza per enti pubblici nazionali e internazionali ed è stato membro di numerose commissioni governative, compresa la Commissione sulla Finanza Pubblica presso il Ministero del Tesoro nel 2007-8. È attualmente membro dell'European Fiscal Board, un comitato di consulenza del Presidente della Commissione Europea e Vicepresidente esecutivo dell'Osservatorio sui conti pubblici dell'Università Cattolica.

Sanità, oh cara …

Per il 2007 il “patto per la salute” siglato da esecutivo e regioni prevede un maggiore esborso dello stato in cambio dell’impegno dei governatori a stabilizzare la spesa sanitaria al 6,7 per cento del Pil e del mantenimento delle sanzioni automatiche per gli inadempienti. Ma perché la sanità è una spina nel fianco di tutti i governi? E come uscirne? Dovremmo superare i limiti di una programmazione puramente finanziaria della spesa. E definire i livelli essenziali di assistenza sulla base delle risorse disponili. Legandone la quantificazione ad analisi empiriche e best practice.

Quanto vale il Patto di stabilità interno

Il contributo degli enti territoriali alla manovra finanziaria può realisticamente essere solo marginale, attorno ai 2-3 miliardi di euro al massimo. Anche se non necessariamente implica un risparmio per l’erario, è una buona idea sostituire i vari vincoli sulla spesa locale con uno sul saldo. Contemporaneamente, però, andrebbe rimosso il blocco sulle addizionali regionali e comunali. Restano da risolvere le questioni di quale saldo utilizzare e se inserirvi la spesa per investimenti. Tuttavia, per il futuro serve un sistema adeguato di sanzioni e incentivi.

Il federalismo dietro il referendum

Più chiari i rapporti tra livelli di governo se la riforma costituzionale esce confermata dal referendum? Non proprio: il limite principale delle nuove norme è di prevedere troppi decisori. Il rischio è la confusione e la crescita della spesa. Se è vero che si supera il bicameralismo perfetto, si definisce “federale” un Senato che ha pochi legami con i territori. Quanto al federalismo fiscale, rimane del tutto inalterato l’articolo 119, che invece andrebbe modificato. E con le norme di transizione c’è il rischio che a Regioni ed enti locali sia tolta ogni autonomia sulle proprie entrate.

Ma i conti non tornano

A quindici giorni dalle elezioni i numeri forniti dal ministero dell’Interno continuano a suscitare dubbi. Il dato che colpisce maggiormente è la percentuale di partecipazione al voto. Il ministero indica per la sola Italia un’affluenza dell’83,6 per cento. Nostri calcoli la fissano a circa l’82 per cento. Inferiore dell’1,72 per cento rispetto al 2001. Con buona pace della retorica sulla “straordinaria mobilitazione degli elettori”. Vero invece che i voti validi sono aumentati. Ma solo perché il sistema era più semplice?

Il match point del doppio turno

Il problema dell’Italia non è la sostanziale equivalenza in termini di consenso delle due coalizioni. Anzi, significa che il sistema politico italiano ha ormai trovato un suo schema bipolare e competitivo. La questione è invece la legge elettorale, che va cambiata. Il maggioritario a doppio turno, già utilizzato nell’elezione dei sindaci, unisce due pregi: limita la capacità di ricatto dei partiti estremisti e consolida gli incentivi all’aggregazione tra le forze politiche in due schieramenti contrapposti. E va abbandonato il bicameralismo perfetto.

Nonostante la legge elettorale

I dati del nuovo Senato confermano la regola: chi cambia la legge elettorale perde e i parlamentari che l’hanno votata vanno a casa. Il turnover dei senatori dei partiti della vecchia maggioranza è radicalmente aumentato. Nonostante la legge, c’è una nuova maggioranza. Ma è risicata. Serve allora una Grosse Koalition? Non con un elettorato così polarizzato per professioni come emerge dai sondaggi. Si rischiano solo veti incrociati e immobilismo

I poli e il federalismo fiscale

Le difficoltà economiche e il mutato clima sociale spingono entrambi i poli a insistere più sulla solidarietà territoriale che sull’autonomia. Proposte specifiche mancano su entrambi i fronti. La Cdl si dimentica della devolution. Offre però un patto agli enti territoriali: cedere parte del patrimonio in cambio di risorse derivanti dal recupero dell’evasione fiscale. L’Unione richiama la necessità della “concertazione” tra livelli di governo. E di un Patto di stabilità interno che torni a occuparsi dei saldi di bilancio e non di vincoli sulla spesa.

Tutti i danni della legge elettorale

Già senza padri a pochi mesi dalla sua approvazione, la nuova legge elettorale rende incerto il formarsi di una maggioranza conforme in entrambe le Camere. Ma non solo. Chiunque vinca avrà a disposizione pochi voti di margine per portare avanti il suo programma. Messi in discussione bipolarismo e alternanza, aumenterà il potere di veto e di ricatto dei partiti più piccoli. E il sistema delle liste bloccate ci consegna una classe politica meno responsabilizzata e meno efficiente. Una legge da cambiare, ma non sarà facile trovare i numeri per farlo.

Corsi e ricorsi: Via l’Ici sulla prima casa?

A volte ritornano. Dal governo in affanno riemerge la proposta dell’abolizione dell’Ici lanciata, prima delle elezioni, dallÂ’allora Presidente del Consiglio, Silvio Berlusconi. Giusto quindi ricordare quanto scrivemmo in quell’occasione.”

Il federalismo negato

Tanti interventi correttivi sulla spesa, tutti incapaci di cogliere i risultati sperati. Perché non hanno inciso sui nodi strutturali. A partire dalla questione della finanza locale. Vincoli di bilancio rigidi non sono credibili se gli enti locali non sono dotati di strumenti finanziari adeguati. Né possono essere imposti se la legislazione nazionale interviene continuamente sulla legislazione di dettaglio nelle competenze locali, riducendone l’autonomia di azione. Eppure, una corretta interpretazione del Titolo V offre la ricetta per affrontare strutturalmente questi problemi.

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