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Autore: Milena Gabanelli

CARTE DI CREDITO? PRENDIAMO ESEMPIO DAGLI STATI UNITI

L’articolo di Thomas Tassani che riprende la mia idea lanciata sul Corriere della Sera di tassare il denaro contante mi spinge a scrivere alcune precisazioni: la mia proposta, come ho scritto è una provocazione, che magari discussa a mente aperta potrebbe portare
a qualcosa di buono. Premesso questo, l’articolo 53 della costituzione recita:
“Tutti sono tenuti a concorrere alle spese pubbliche in ragione della loro capacità contributiva. Il sistema tributario è informato a criteri di progressività”. La costituzione sancisce quindi primariamente il dovere di ogni cittadino di concorrere alle spese pubbliche, e in questo senso un’imposta sul contante è un’imposta come un’altra. Dopo di che, spetta agli esperti disegnare il sistema di compensazione (crediti d’imposta o quant’altro) volto a rispettare i criteri della progressività e della capacità contributiva.
Nella proposta le banche agirebbero da sostituto di imposta per lo Stato. Sarebbe quindi facile immaginarsi che in fase di dichiarazione dei redditi la tassazione dell’uso di un modesto ammontare di contante
possa essere detratto dalla tassa sul reddito, colpendo così solo l’uso eccessivo. In considerazione del fatto che il pagamento con mezzi tracciabili non sarebbe soggetto a tassazione, l’utilizzo eccessivo di contante evidenzia una forza autonoma economica (che spesso cerca di non essere manifesta).
Negli Stati Uniti la carta di credito ed il bancomat sono usati anche nei “farmers markets”, ovvero l’equivalente dei nostri mercati dove i contadini locali portano le loro merci. Da circa due anni, la Square
Inc. commercializza un oggetto di tre centimetri di lato che, inserito nel foro dell’auricolare di un telefonino, permette a chiunque di accettare pagamenti con carta di credito.

L’UMILIAZIONE

Il regolamento votato dalla Commissione parlamentare di vigilanza, su delibera dell’Agcom, è stato esteso anche alle tv private, che hanno poi fatto ricorso al Tar. Finché il tribunale non si pronuncia, la norma, che è restrittiva rispetto alla legge sulla par condicio, ed ha gravi profili di incostituzionalità, vale anche per le tv private. Questo è un fatto gravissimo di cui, a mio avviso, non si è percepita la portata. In nessun paese democratico sono mai stati chiusi i programmi di approfondimento in diretta. Una decisione che costringe i giornalisti a calpestare ciò in cui credono e che priva il pubblico del diritto ad essere informato.
La norma scritta da Beltrandi (Partito radicale), quella che ha imbavagliato tutti, dice: “Le trasmissioni di informazione, con l’eccezione dei notiziari, a partire dal decorrere del termine ultimo per la presentazione delle candidature, sono disciplinate dalle regole proprie della comunicazione politica”.
Le regole della comunicazione politica sono quelle che regolano le tribune politiche: parlano tutti in uguale tempo. Impossibile trasformare un talk in tribuna politica e così si chiudono i talk e si impedisce ai programmi registrati di parlare di argomenti politici o intervistare politici.
Il fatto che Report invece vada regolarmente in onda non è indice di libertà, poiché la ragione è dovuta al fatto che è un programma registrato (quindi sottoposto ad un controllo preventivo), e la condizione è che non tratti argomenti politici, e non intervisti uomini politici. È un po’ complicato, visto che perfino a monte di un buco per strada c’è sempre un sindaco che ne deve rispondere. Nella mia non breve carriera professionale non ho mai vissuto un momento più umiliante.

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