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Autore: Roberto Convenevole

Professore Associato di Politica economica presso l’Università di Cassino.

Più evasione quando l’Iva aumenta

Con la legge di stabilità, il Governo prevede per il 2013 l’aumento di un punto percentuale dell’aliquota Iva ordinaria e ridotta. Tuttavia, i dati sembrano indicare che il precedente incremento avvenuto a settembre 2011 non solo non ha contenuto la perdita di gettito dovuta alla recessione, ma l’ha amplificata. Una spiegazione possibile è che si sia registrata una maggiore evasione, motivata presumibilmente proprio dall’aumento dell’aliquota oltreché dalla crisi.

Quello che gli studi di settore non dicono

Se gli studi di settore devono essere uno strumento per combattere l’evasione fiscale, non solo devono funzionare meglio, ma devono anche fornire le informazioni “giuste”. Il generico inserimento nei modelli statistici dei nuovi indicatori di coerenza non è sufficiente ad ampliare la base imponibile. Bisogna risolvere il paradosso dei costi, che non entrano nella definizione dei ricavi, ma intervengono nella determinazione della base imponibile. Altrimenti, avere più contribuenti congrui equivale a crescita dell’evasione. Come è accaduto dal 2000 al 2003.

Perché l’Iva funziona male

Nel loro intervento del 16 giugno Giampaolo Arachi e Alberto Zanardi, con il contributo di Carlo Fiorio che ha sviluppato interessanti considerazioni sugli effetti distributivi, hanno riproposto tal quali le argomentazioni pubblicate su Il Sole-24Ore del 9 giugno 2005. (1)
Un anno fa la manovra sulle aliquote Iva doveva servire a finanziare un alleggerimento dell’Irap, oggi un alleggerimento del cuneo fiscale. Lungi da me intenti polemici, vorrei precisare i motivi che rendono infondata la tesi che attribuisce la scarsa produttività dell’Iva alla struttura delle aliquote applicate in Italia.

Lo studio europeo

Lo studio della Commissione europea cui gli autori fanno riferimento espone i dati relativi all’anno 2000. (2) Incidentalmente osservo che il 2000 rappresenta il massimo storico assoluto nel rendimento dell’Iva italiana dal 1973 in poi: l’Iva di competenza essendo risultata pari al 6,5 per cento del Pil (serie Istat antecedente l’ultima revisione); nel 2005 siamo calati al 5,9 per cento (sempre vecchia serie, vedi il grafico in fondo).
Lo studio è stato condotto su dati delle contabilità nazionali dei singoli Stati membri (Sm) e non già su dati di fonte fiscale come avrebbe dovuto essere. Pertanto, per quanto concerne le proxy delle basi finali imponibili si sono utilizzati dati statistici, mentre per l’aliquota implicita si è fatto il rapporto tra un dato fiscale (l’Iva di competenza per i criteri di Maastricht) e ciò che si ritiene sia la base finale imponibile Iva. Non mi sembra sia questo un procedimento corretto da un punto di vista logico perché inevitabilmente si scambiano tra loro cause ed effetti. È cosa nota, infatti, che tutt’ora permangano seri problemi di confrontabilità dei dati statistici. degli Stati membri. Ergo, i consumi finali della famiglie dei singoli Stati possono non essere tra di loro omogenei, a prescindere dall’ampiezza dei consumi finali esenti.

Un confronto Italia-Francia

Nella tabella 2 sottostante espongo, per due Stati membri, il ragionamento che si dovrebbe fare per capire di cosa stiamo parlando. Per memoria, nella tabella 1 riporto la griglia delle aliquote legali esistenti in Francia e in Italia: le aliquote ridotte sono da noi poco meno che doppie di quelle francesi e l’aliquota normale è di poco superiore (4 decimi di punto).
Utilizzando i dati delle dichiarazioni, con riferimento al 2004 si può osservare che in Francia l’aliquota finale sulle vendite è risultata pari al 16,21 per cento mentre in Italia è stata del 18,06 per cento. In sostanza, se si considerano le operazioni imponibili spontaneamente dichiarate dai contribuenti Iva, l’aliquota finale sulle vendite è risultata in Italia superiore di circa l’11,4 per cento (1,85 punti).
Sugli acquisti con Iva detraibile, sempre spontaneamente dichiarati, l’aliquota francese è risultata pari a 16,46 per cento mentre quella italiana è stata del 19,30 per cento (2,84 punti in più, pari a uno scarto del 17,3 per cento circa). Queste sono dunque le aliquote finali medie che si sono realizzate nel sistema economico dei due Stati membri sulle vendite imponibili e sugli acquisti detraibili.
La sintesi delle due aliquote applicate ai rispettivi flussi determina un’aliquota finale del sistema, sulla base imponibile finale che rimane incisa, che è pari a 15,50 per cento in Francia e 14,80 per cento in Italia (lo scarto è di 7 decimi di punto pari a –4,5 per cento a danno dell’Italia rispetto alla Francia).
A questo punto, anche uno studente liceale capirebbe che la minor resa dell’Iva italiana (cioè il “Vat burden” di cui parla lo studio della Commissione) non dipende dalla griglia delle aliquote bensì da qualcos’altro: gli acquisti portati in detrazione.
Se, per l’Italia, il funzionario che ha redatto il rapporto, un economista dell’ufficio “Economic analysis of taxation”, non è arrivato a questa conclusione non è colpa mia. Di sicuro ha utilizzato un procedimento analitico che lo ha portato fuori strada.
L’aumento delle aliquote comunque mascherato e giustificato non farebbe che complicare la situazione, cioè il cattivo funzionamento strutturale dell’Iva, fornendo una scorciatoia illusoria più volte percorsa in passato. In sostanza, il sistema Iva italiano somiglia molto a uno scolapasta con grossi buchi: l’obiettivo dovrebbe pertanto essere quello di trasformare lo scolapasta in colabrodo (fori significativamente più piccoli).
L’unico argomento che ancora rimane a sostegno della proposta di aumento delle aliquote Iva è dunque squisitamente politico e, come tale, non assoggettabile a obiezioni di tipo logico: si tratta in definitiva della decisione di spostare potere d’acquisto da una parte della popolazione (chi si trova sotto la soglia di povertà, i pensionati al minimo, i salariati a basso reddito) verso le imprese genericamente intese.

(1) “Iva più europea per varare i tagli”, Il Sole-24Ore, 9 giugno 2005.

(2) “Vat indicators”, working paper n.2/2004.

 

Tabella 1: la struttura delle aliquote legali in Francia ed in Italia

• (1) aliquote (2) aliquota (3) aliquota implicita (4) divario in %

• ridotte normale media aliquota normale

• Francia 2,1 5,5 19,6 15,5 22,1

• Italia 4 10 20 15 25

• Media UE-15 – 19,4 15,9 18

 

Tabella 2: l’Iva sulle operazioni imponibili e sugli acquisti detraibili nel 2004

FRANCIA

volumi

imposta

aliquota

Totale operazioni imponibili

2.965.604

Totale imposta

480.806

16,21

Base finale imponibile

769.381

Imposta

119.254

15,50

Acquisti ad Iva detraibile

2.196.223

Imposta

361.552

16,46

ITALIA

volumi

imposta

aliquota

Totale operazioni imponibili

2.287.807

Totale imposta

413.188

18,06

Base finale imponibile

559.115

Imposta

84.229

14,80

Acquisti ad Iva detraibile

1.718.692

Imposta

331.641

19,30

FRANCIA / ITALIA

volumi

imposta

aliquota

Totale operazioni imponibili

129,63

Totale imposta

116,36

89,76

Base finale imponibile

135,19

Imposta

141,58

104,73

Acquisti ad Iva detraibile

127,34

Imposta

109,02

85,28

Nota bene: l’Iva sulla base finale è quella di competenza economica di fonte Istat e Insee.

Il nodo dell’Irap

L’Irap così com’è oggi assicura una rendita fiscale alle imprese ad alta intensità di capitale all’interno di uno stesso settore, ma anche ad interi settori di attività: banche, telecomunicazioni ed energetico rispetto al settore industriale in senso stretto. Uno sgravio integrale sul costo del lavoro li avvantaggerebbe ulteriormente. Per aiutare l’industria esportatrice, invece, è assolutamente necessario redistribuire il carico fiscale mediante una razionalizzazione dell’imposta, intervenendo poi sull’aliquota per abbassarla ulteriormente.

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