Secondo il Presidente del Consiglio l’Italia non è un Paese multietnico. Non è chiaro cosa voglia dire Silvio Berlusconi con questa affermazione. In Italia, secondo l’Istat, gli stranieri residenti sono circa 3,9 milioni su una popolazione totale di 60 milioni, quindi attorno al 6,5 per cento. Questa percentuale è inevitabilmente destinata a salire nei prossimi anni fino a raggiungere, secondo alcune proiezioni, il 10 per cento nel 2020. Uno su dieci stranieri residenti, ai quali si aggiungeranno gran parte degli italianissimi figli degli attuali stranieri. Ma la presenza di etnie diverse la osserva già ora chi accompagna i propri figli a scuola o semplicemente sente da loro racconti sui compagni di classe dai nomi come Jair, Biniam, Selma. La osserva chi va a correre al parco durante il weekend e vede partite in cui squadre composte da peruviani, filippini e italiani sfidano altre squadre composte da brasiliani, marocchini e italiani. La osserva chi ha parenti anziani assistiti da badanti lituane o donne eritree che fanno le pulizie in casa. La osserva chi rientra a casa la sera nelle carrozze stipate della metropolitana o chi guida per le strade delle nostre città e si vede chiedere lelemosina ad ogni semaforo. Insomma, la multietnicità dell’Italia si vede dappertutto. Ovunque, tranne forse alle feste di compleanno delle diciottenni di Casoria.
Autore: Tito Boeri Pagina 22 di 38
Tito Boeri è professore di economia presso l'Università Bocconi di Milano e Senior Visiting Professor alla London School of Economics. È stato senior economist all’Ocse, consulente del Fmi, della Banca Mondiale, della Ue, dell’Ilo oltre che del governo italiano. Dal marzo 2015 al febbraio 2019 ha ricoperto la carica di Presidente dell'Inps. È Consigliere Scientifico della Fondazione Rodolfo Debenedetti. È stato editorialista del Sole24ore, de La Stampa e de La Repubblica e ha collaborato con quotidiani esteri quali il Financial Times e Le Monde. È tra i fondatori del sito di informazione economica www.lavoce.info e del sito federato in lingua inglese www.voxeu.org.
Il governo Berlusconi si è insediato da un anno. E’ dunque tempo di un primo bilancio di quanto fatto e non fatto. Proponiamo ai lettori una serie di schede che coprono tutte le aree che hanno una rilevante implicazione sull’andamento dell’ economia italiana. Hanno un denominatore comune: l’attivismo del governo, che ha permesso di conquistare spesso i titoli di apertura dei giornali. Ma le misure effettivamente varate si contano sulle dita di una mano. E nessuna di queste può definirsi una riforma. Anche di fronte alla crisi, si è scelta la linea dell’immobilismo. Parafrasando un famoso allenatore di calcio: “tanti tituli, sero riforme”.
Finalmente abbiamo la Relazione unificata sull’economia e la finanza. Era un documento atteso e importante per capire come è evoluta la strategia di politica economica del governo dopo l’aggravarsi della crisi e per avere un quadro più preciso sullo stato dei conti pubblici. Certifica le conseguenze dell’immobilismo di fronte alla crisi. La spesa pubblica aumenta accentuando il suo squilibrio a favore di pensioni e dipendenti pubblici, mentre disavanzo e debito peggiorano in modo consistente. E le stime potrebbero essere troppo ottimistiche sul lato delle entrate.
La strada del governo per affrontare la crisi è basata sull’attendismo. Una strategia rischiosa che può costare cara al nostro paese. Anche perché non è detto che il peggio sia passato. Vi sono segnali positivi nell’economia mondiale, ma sull’Europa incombe la crisi dei paesi dell’Est. In più il terremoto rischia di peggiorare ulteriormente i nostri conti pubblici. E’ tempo di definire con chiarezza le priorità di politica economica. Poniamo quattro domande in merito al Ministro Tremonti. Augurandoci che risponda al più presto.
Il Governo ha tempo fino a domani per decidere se tenere in un’unica consultazione, in un unico election day, elezioni europee, amministrative e referendum sulla legge elettorale. Lo stato risparmierebbe 173 milioni (stime, probabilmente per difetto, del Ministro Maroni che, più da esponente di un partito che da Ministro, si è speso molto per non fare l’election day), e i cittadini risparmierebbero altri 200 milioni di costi indiretti. In totale 373 milioni: uno spreco di risorse che non possiamo permetterci soprattutto dopo il terremoto in Abruzzo.
Un Governo responsabile dovrebbe prenderne atto, tenere conto del plebiscito che sul web c’è stato in questi settimane a favore dell’election day e, dunque, cambiare la data del referendum.
Eppure quello che si profila all’orizzonte è un "compromesso" molto costoso per i contribuenti e per chi ha bisogno di aiuto dallo Stato: il referendum sulla legge elettorale si dovrebbe tenere il 21 giugno con il secondo turno delle amministrative. E’ un compromesso che costerebbe al contribuente circa 300 milioni, tra costi diretti e indiretti. Infatti, il ballottaggio in Italia, in genere, coinvolge un terzo dellelettorato potenziale e solo i collegi in cui ci sono elezioni provinciali e in cui si vada al ballottaggio. Secondo le nostre stime, solo 21 delle 63 province potenzialmente coinvolte, torneranno a votare a due settimane dal voto alle europee. Le altre 88 province italiane (81 per cento del totale) saranno chiamate a votare unicamente per il referendum. Di qui lo spreco enorme di risorse che si avrebbe anche in questo caso.
Ma che razza di compromesso è questo? Qui stiamo barattando una soluzione che fa risparmiare soldi allo Stato e tempo e denaro alle famiglie con una soluzione che costa ai contribuenti e a chi va a votare – e che per giunta riduce la partecipazione al voto, uno dei valori conclamati nella nostra Costituzione – pur di fare un piacere a un partito. E perché gli italiani tutti devono subire il diktat di un partito, votato dall’8 per cento dei cittadini? E un compromesso inaccettabile soprattutto dopo il terremoto.
Secondo il Corriere della Sera la ricognizione ministeriale sulledilizia scolastica è in dirittura darrivo. Questa è una buona notizia. Lanagrafe delle strutture scolastiche potenzialmente pericolose era iniziata nel 96 ma nessun governo laveva portata a termine. Un plauso va quindi al Ministro Gelmini. Dopo un inizio sconcertante, basato su proposte irrilevanti (voti al posto dei giudizi), dannose (il maestro unico) o inutilmente populiste (il "libro unico"), che sembravano indicare che il Ministro avesse in mente di riportare la scuola italiana agli anni 70, cè stata una decisa correzione di rotta. La flessibilità promessa alle famiglie nello scegliere limpegno scolastico dei figli, garantendo il tempo pieno a chi ne facesse richiesta, e adesso lanagrafe delledilizia scolastica mostrano un approccio meno ideologico e più orientato ad affrontare i problemi della scuola. Ma il resoconto del Corriere è impietoso. Dei 43 mila edifici scolastici, solo un terzo è stato costruito negli ultimi trenta anni! Più di mille sono stati costruiti prima dellOttocento e più di tremila tra il 1800 e il 1920. Di quasi 7mila edifici non si sa neanche la data di costruzione. Dopo il 1990 solo il 22% delle strutture è stato ristrutturato. Sono cifre indegne di un Paese civile, senza voler usare laggettivo sviluppato. Una scuola in cui le aule sono pericolose, ma anche semplicemente una scuola in cui i bagni non sono utilizzabili, in cui mancano palestre e laboratori, senza parlare di strutture didattiche di supporto come i PC, è una scuola in cui motivare i ragazzi allo studio è unimpresa ardua. Ci saranno, lo immaginiamo, i benaltristi, quelli secondo cui ben altri sono i problemi della scuola italiana. E vero, la scuola italiana ha molti altri problemi, ma i numeri di queste anticipazioni sono semplicemente inaccettabili. Non si può morire schiacciati dal cedimento di un soffitto in unaula di lezione come a Rivoli e come ieri poteva capitare in una scuola materna a Verona. Le priorità sono importanti per un governo: prima del ponte sullo Stretto si rinnovino le scuole italiane, il ponte sul futuro dei nostri figli. Servirà anche a rilanciare leconomia, perché i lavori per le manutenzioni, a differenza di quelli per il ponte, si attivano subito.
Un mese fa il Ministro dello Sviluppo Economico, Claudio Scajola, aveva dato dei corvi agli industriali per avere previsto un Pil in calo del 2,5 per cento nel 2009. Oggi le stime più aggiornate del Centro Studi Confindustria sono di un meno 3,5 per cento.Il Ministro del Welfare Sacconi le ha accolte con un Qualcuno ama il peggio. Poche ore dopo il Ministro dellEconomia Tremonti, dopo aver pronosticato che ormai lArmageddon finanziario è alle spalle, dichiara mi stupisce che qualcuno faccia ancora delle previsioni. Passano due giorni e alla riunione del G8 lavoro, lOcse presenta le sue stime sulla disoccupazione, prevista a due cifre entro il 2010 per i paesi dellorganizzazione. Il commento di Sacconi è leggermente più cauto, ma ugualmente caustico: Non aiuta il continuo prodursi di previsioni in sequenza l’una con l’altra
spesso le stesse organizzazioni che le fanno sono costrette a correggerle.
È certamente vero che fare previsioni è difficile, e che ci sono stati e ci saranno errori. Ma qual è il punto che vogliono fare Sacconi, Scajola e Tremonti? Che è meglio non fornire informazioni disfattiste al pubblico? Oppure che loro hanno visto nel futuro che la crisi è finita, mentre tutti gli altri sono degli incapaci?
È vero che ci sono dei segnali che inducono a un cauto ottimismo, tra cui alcuni dati dal settore delledilizia statunitense. Ma altri dati, dallandamento della produzione industriale in tutto il mondo ai sentimenti di imprese e consumatori in alcuni paesi non danno alcun segnale di ripresa. E molti dirigenti di impresa in vari settori (quindi non gli odiati economisti con la testa fra le nuvole) hanno detto chiaramente che non vedono spiragli a breve. Sul settore finanziario, infine, cè unenorme incertezza: gli stessi CEO di Citibank e Bank of America, dopo aver annunciato profitti record nei primi due mesi del 2009 (annunci che avevano dato il via al recente rally azionario), hanno dovuto correggere il tiro su marzo; ed il mercato sa benissimo che cè ancora una concreta possibilità che qualche banca non possa sopravvivere senza una nazionalizzazione di fatto. La disoccupazione, infine, è chiaramente in aumento ovunque, e per molti il processo è solo iniziato.
Può darsi benissimo che Sacconi, Scajola e Tremonti abbiano ragione, e che OCSE, Fondo Monetario, e organizzazioni nazionali si sbaglino alla grande nel predire forti cali del Pil in tutto il mondo. Ma ci piacerebbe sapere perché. La strategia di comunicazione del governo sembra invece essere quella di stravolgere ogni teoria economica comunemente accettata, per cui un macchinoso sostegno temporaneo di 2 miliardi allacquisto di elettrodomestici dovrebbe portare a un aumento dei consumi di 15 miliardi, o 1,3 miliardi per il fondo di garanzia delle piccole imprese potrebbero generare nuovi prestiti bancari per 70 miliardi. Con dei moltiplicatori così enormi, risolvere la crisi mondiale sarebbe uno scherzo da ragazzi. E certo non aiuta che i media accettino queste cifre senza un minimo di vaglio critico.
Ringraziamo molto Anastasia e Trivellato per il loro commento alla nostra proposta e i tanti lettori per i loro incoraggiamenti e anche osservazioni critiche. Lo scopo del nostro articolo era proporre dei costi di base per un sussidio universale ai disoccupati. Riteniamo che sia utile, a questo stadio, avere stime un pò più precise su quello che potrebbe costare un sussidio unico. Una volta accettato il concetto, sarà importante e doveroso entrare in maggiori dettagli, e il commento di Anastasia e Trivellato va esattamente in quella direzione.
Con riferimento alla platea degli ammessi al sussidio, le stime del nostro articolo si riferiscono effettivamente a un sussidio da erogare a tutti i disoccupati con eccezione dei giovani disoccupati senza alcuna esperienza. Tra le eccezioni e le esclusioni previste da Anastasia e Trivellato, riteniamo che la più importante sia quella relativa ai disoccupati che precedentemente erano fuori dalla forza lavoro. Viceversa, sulla differenze tra cessazioni volontarie e involontarie preferiremmo procedere con grande cautela, anche perché la distinzione tra le due è una delle più difficili questioni in economia del lavoro (quando si tratta davvero di dimissioni spontanee e quando invece di dimissioni spontanee?). Normalmente questo problema lo si affronta introducendo un periodo di attesa, prima della fruizione del sussidio, per chi formalmente ha volontariamente lasciato unazienda.
Con riferimento alla relazione tra durata del sussidio e periodo contributivo, nel nostro calcolo di base non abbiamo inserito alcuna durata minima. Siamo daccordo che si dovrebbe operativamente ipotizzare un periodo contributivo minimo, che riteniamo possa essere di sei mesi lavorativi nellultimo anno, in modo da evitare laccesso al sussidio per il lavoro strettamente stagionale.
Con riferimento alla stima dei costi, siamo effettivamente convinti che i 15,6 miliardi di stima ipotizzati nel nostro articolo siano ragionevoli. Come abbiamo indicato nellarticolo, abbiamo utilizzato una retribuzione media per i dipendenti a tempo indeterminato pari a 22.000 euro, pari a 18.000 euro per i lavoratori a tempo determinato e pari a 8.000 euro per i lavoratori precari. Nelle nostre stime il sussidio medio pagato a queste tre categorie sarà pari a 716 euro mensili, ottenuto da una media ponderata (dai flussi in ingresso medi nel periodo 2003-7) di un sussidio di 1.000 euro per i lavoratori a tempo indeterminato, di 800 euro per i lavoratori temporanei e di 500 euro per i precari. Tra laltro, i nostri 15,6 miliardi sono il doppio dei costi attuali a cui fanno riferimento Anastasia e Trivellato. Non deve perciò sorprendere che, nonostante la platea aumenti da 600 mila attuali a 1,8 milioni circa, il costo totale raddoppi. Basta ad esempio ricordare che la probabilità che un lavoratore a tempo indeterminato perda il lavoro è di circa l1 per cento, mentre per un precario è del 15 per cento e come ricordiamo sopra – la retribuzione di un precario è circa un terzo rispetto al lavoratore a tempo indeterminato.
Editorialino del Sole24ore pagina 12. Non firmato. Titolo "Un Compromesso per il referendum". Un incipit che fa rabbrividire: "in politica non sempre le soluzioni migliori sono quelle praticabili". Si narra della data del referendum sulla legge elettorale. L’anonimo editorialista ritiene che chi stima in 400 milioni il costo di non tenere il referendum assieme alle elezioni europee ed amministrative del 7 giugno "esagera" (dove, come e quando? e perché rendere anonimi anche gli autori delle stime impedendo ai lettori di documentarsi?), ma conviene, bontà sua, che il costo comunque "sarebbe significativo". Tuttavia "la Lega non accetterà mai quella data", cioè il 7 giugno, per un election day. Ecco allora la proposta di "mediazione": "si voti il 21 giugno con il secondo turno delle amministrative". Come documentato su questo sito, costerebbe comunque 315 milioni in più dell’election day. Domanda: perché un giornale economico prende il diktat di un partito, votato dall’8 per cento degli italiani, come un imperativo categorico? In economia ci sono dei vincoli da rispettare e, dunque, dei compromessi da trovare: come in una famiglia, non ci si può permettere tutto, una casa del 20 per cento più grande, la moto e la macchina nuova, magari anche la botte piena con la moglie ubriaca, perché c’è un vincolo di bilancio da rispettare. Ma cosa c’entra Bossi con il vincolo di bilancio? Qui stiamo comparando una soluzione che fa risparmiare soldi allo Stato e tempo e denaro alle famiglie con una soluzione che costa ai contribuenti e a chi va a votare — e che per giunta riduce la partecipazione al voto, uno dei valori conclamati nella nostra Costituzione — pur di fare un piacere a un partito. Tra quali diverse esigenze dei cittadini sta il Sole24ore cercando di mediare? In nome di cosa vorrebbe farci buttare via più di 300 milioni di euro in un periodo di crisi? In questo caso il compromesso è solo tra i soldi dei cittadini italiani e l’interesse di un partito politico. Per noi è rilevante solo il primo. Ci stupiamo nello scoprire che per il Sole24ore sia rilevante anche il secondo.
Secondo le nostre stime, un sussidio unico garantito a tutti i disoccupati, indipendentemente dal tipo di contratto, assicurando in partenza il 65 per cento della retribuzione precedente e non meno di 500 euro al mese costerebbe a regime circa 15,5 miliardi. Sostituirebbe però indennità di mobilità, sussidi di disoccupazione ordinari e a requisiti ridotti e gestioni speciali per edilizia e agricoltura che ammontano in media a 7,5 miliardi all’anno. Potrebbe essere interamente finanziato con un contributo di circa il 3 per cento delle retribuzioni. Anche se nella fase di transizione alcuni costi dovrebbero essere coperti dal bilancio dello Stato.