Con l’accordo per annacquare la direttiva sui servizi, l’Europa ha perso un’altra occasione per svegliarsi dal torpore determinato dalla sclerosi burocratica e fiscale che attanaglia molti paesi. E sembra impiegare le maggiori energie a contrastare, invece che a favorire, le liberalizzazioni. La “nuova” Bolkestein è una norma monstre, dove le eccezioni sono più numerose delle regole. Scomparso il principio del paese di origine, gli Stati nazionali avranno in mano armi potenti per depotenziare anche le poche libertà previste.
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Alcuni dei rischi paventati dagli oppositori alla direttiva sono reali. Però, negli emendamenti proposti il principio del paese di origine è depotenziato radicalmente, privandolo di qualsiasi capacità di liberalizzazione dei mercati nazionali dei servizi. Mentre l’accordo tra popolari e socialisti europei addirittura lo cancella, sostituendolo con una nuova formulazione che si presta a due letture opposte. L’effettiva portata di una direttiva di tale rilevanza sarebbe alla fine affidata alla incensurabile interpretazione della Corte di giustizia.
Senza un mercato integrato dei servizi l’Europa non potrà mai ambire a essere un’economia dinamica e competitiva come quella degli Stati Uniti. La direttiva Bolkestein cercava di far sì che le legislazioni dei paesi membri in questo campo diventassero rapidamente compatibili con le norme dei trattati europei. Ora, il compromesso raggiunto è il risultato di cedimenti progressivi agli interessi particolari di singoli paesi e categorie. E già si levano le voci in favore dell’esplicita introduzione del principio del “paese di destinazione”. Condannandoci a un lento declino.
La “Proposta di direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio relativa ai servizi nel mercato interno”, comunemente conosciuta come “Direttiva Bolkestein”, non si applica a tutti i servizi. Alcuni di questi sono espressamente esclusi, altri invece vengono inclusi solo nel campo di applicazione delle previsioni della Direttiva relativa alla sola libera circolazione dei servizi e vengono esclusi al diritto di stabilimento. Successivamente sono state proposte sostanziali modifiche nel numero e nella tipologia di questi servizi.
Cosa dobbiamo aspettarci dall’eventuale approvazione del compromesso sulla direttiva servizi? Avremo un’apertura, seguita in alcuni paesi da nuovi freni alla concorrenza. Molte disposizioni saranno annullate dalla Corte di giustizia. Ma lo shock concorrenziale sarà reale e duraturo, anche se minore rispetto alla Bolkestein. E’ una soluzione equilibrata. Che soddisferà chi temeva l’adozione indiscriminata della nozione di paese dÂ’origine. Piacerà meno invece ai contrari all’idea stessa di estendere il principio della concorrenza al settore dei servizi.
Il mercato europeo dei servizi è molto meno integrato di quello dei beni. Ma dall’esame delle regolamentazioni dei singoli paesi si ricava qualche sorpresa. Per esempio, la Germania si comporta molto bene, seconda solo al Regno Unito. Più interessante è però notare che anche i nuovi Stati membri, i principali difensori della direttiva Bolkestein, hanno norme molto rigide. E allora nella creazione di un mercato unico dei servizi, forse i problemi maggiori non dovranno affrontarli i vecchi paesi membri, ma i nuovi, che dovranno liberalizzare tanto quanto la Francia o l’Italia.
Gli abusi di posizione dominante di Eni nel mercato delle importazioni di gas si sono gradualmente tradotti non soltanto in un ostacolo alla liberalizzazione, ma anche in una carenza strutturale di offerta. A questo si aggiunge una insufficiente capacità di stoccaggio per la modulazione stagionale. La sostituzione della ripartizione pro-quota con un meccanismo d’asta ridurrebbe la convenienza economica di alcuni utilizzi dello stoccaggio. In questi giorni, avrebbe indotto i fornitori a offrire sconti significativi per i contratti interrompibili.
La magistratura continua a svolgere un provvidenziale, ma improprio, ruolo di supplenza ad autorità regolative e amministratori che non vigilano sul rispetto delle regole. La plausibile presenza di intrecci fra il progetto Unipol-Bnl e lo scandalo finanziario connesso alla Banca Popolare Italiana giustifica cautela nel concedere l’autorizzazione all’Opa su Bnl. Che rimane un boccone troppo grosso per Bnl. L’impresentabilità  dei “finanzieri ribaldi”  non deve nascondere le debolezze del “salotto buono” del capitalismo italiano.
Dopo uno scandalo come Parmalat, è difficile presentarsi sui mercati finanziari internazionali senza una seria disciplina penale del falso in bilancio. E dunque bene ha fatto il Parlamento a rivedere il blando regime introdotto nel 2002. Ora però l’emendamento al testo di legge sul risparmio azzera la novità , salvo un inasprimento di pena nel caso di grave danno ai risparmiatori. Una scelta criticabile perché lancia il messaggio che la repressione delle frodi contabili non è una priorità in Italia. E perché accresce il costo del capitale per tutte le imprese italiane.
La vicenda della Banca popolare di Lodi dimostra come ancora una volta sia fallita l’intera catena dei controlli. Sulle omissioni o collusioni sarà compito della magistratura individuare le responsabilità , ma è importante chiedersi se gli assetti di governance della banche, e in particolare delle popolari, siano adeguati per prevenire fenomeni patologici. Senza aspettare l’intervento del legislatore, si possono adottare alcune misure che impediscano l’affermazione di nuclei dirigenti autoreferenziali e sganciati da qualsiasi verifica sul loro operato.