Da anni si parla di spending review, di analisi minuziosa di ogni capitolo di spesa, volta ad accertare e rimuovere sprechi di denaro pubblico, ma sin qui nulla è dato sapere sulle modalità e sui primi esiti di questo processo. Dovrebbe riguardare non solo l’amministrazione centrale dello Stato, ma anche le amministrazioni pubbliche soggette alla vigilanza dei ministeri. Il principio dovrebbe essere quello di identificare spese che non contribuiscono a raggiungere gli obiettivi che sono stati affidati alle diverse amministrazioni o che li raggiungono solo a fronte di spese molto più alte del necessario. La legge che istituisce le spending review richiede espressamente il contributo dei cittadini e degli esperti nell’identificare questi sprechi.
Ecco allora un nostro primo modesto contributo. Girando tra i siti delle amministrazioni pubbliche abbiamo trovato all’indirizzo un “programma di sostegno a progetti sperimentali ed innovativi” della Civit, la Commissione di valutazione della pubblica amministrazione istituita dal ministro Brunetta e affidata ad Antonio Martone. Il costo del programma è di 4,3 milioni di euro. La Civit, come recita il suo stesso nome, ha come finalità istituzionale quella di garantire la valutazione, la trasparenza e l’integrità delle amministrazioni pubbliche. Non sappiamo chi abbia valutato questo progetto prima di approvarlo. Sappiamo solo che stanzia 800.000 euro per realizzare il “portale della trasparenza”, 470.000 euro per “l’individuazione di metodologie di misurazione e valutazione adottate dalle pubbliche amministrazioni”, 400.000 euro per la “ricognizione degli strumenti di programmazione, controllo e rendicontazione della performance”, 400.000 euro per “la sperimentazione di un progetto per la misurazione e valutazione dell’apporto di ciascuno all’outcome”, e così via, con una serie di sottoprogetti che essenzialmente ripetono tutti la stessa cosa ma spezzano i 4,3 milioni in importi più piccoli.
Qualcosa ci sfugge. Non sono proprio questi i compiti istituzionali della Civit? E allora perché è necessario valutarli sperimentalmente impegnando una mole così ingente di risorse? Dato che questo progetto prevede anche “lo snellimento dei processi organizzativi al fine di ridurne gli sprechi”, vogliamo noi fornire il nostro “apporto all’outcome”: aboliamo questo progetto. E ragioniamo sul significato di un organismo come la Civit che costa ogni anno 8 milioni di euro alle casse dello Stato per sperimentare come valutare sperimentalmente la valutazione. Di se stessa.
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Il giudizio più importante sull’operato del governo Monti nei suoi primi cento giorni è quello dei mercati. E ci dice che lo spread tra Italia e Germania sui titoli decennali è sceso del 30 per cento mentre si è dimezzato quello fra Italia e Spagna. Ora l’azione deve passare dalla gestione dell’emergenza alle scelte davvero importanti che rilancino la crescita economica del nostro paese. A partire dai due terreni sin qui prescelti: mercato del lavoro e liberalizzazioni. Con riforme che eliminino la dualità del primo ed estendano le seconde ad altri comparti, come banche e assicurazioni.
La manovra Monti è recessiva? Intanto, un intervento sulla spesa invece che sulle entrate produrrebbe effetti ancora più recessivi. Tuttavia, le simulazioni mostrano una crescita significativa dell’economia sommersa. E allora un risanamento dei conti pubblici che non implichi anche una pericolosa ricomposizione strutturale dell’economia, dovrebbe prevedere un’azione di forte contrasto all’evasione. Significherebbe una minor pressione fiscale complessiva, che genererebbe una riallocazione di risorse virtuosa dal settore sommerso a quello di mercato.
I ritardi nei pagamenti della Pa verso i fornitori generano gravi danni al sistema delle imprese. Tuttavia, sono incerti sia l’ammontare sia la natura dei debiti. Potrebbe trattarsi di impegni presi nonostante stanziamenti insufficienti di cassa ovvero di competenza. In entrambi i casi, si tratterebbe di somme non registrate nelle statistiche sul debito pubblico. Se i due aspetti non saranno chiariti è difficile si possa arrivare a una soluzione che attenui i problemi delle imprese e corregga i difetti del nostro sistema di gestione e controllo della spesa pubblica.
Le stime preliminari della crescita del Pil del quarto trimestre certificano che l’economia europea è probabilmente entrata in recessione nel quarto trimestre 2011. Di sicuro, lo sono già Italia, Spagna, Portogallo e Grecia insieme a Belgio e Olanda. Il governo Monti è intervenuto con dure misure che forse hanno in parte contribuito nel brevissimo termine a peggiorare la recessione, ma raddrizzano una situazione che avrebbe portato al default. Ed è più chiaro perché Mario Draghi abbia inondato di liquidità i mercati monetari e finanziari europei prima di Natale.
La Grecia ha certamente un problema di competitività. Sindacati e partiti di centrosinistra dovrebbero perciò accettare una riduzione del salario minimo, ma inferiore al 22 per cento richiesto dalla troika. In cambio dovrebbero pretendere da governo e imprenditori l’impegno a introdurre ammortizzatori sociali per le famiglie di disoccupati e lavoratori poveri. Il ripristino della legalità ovunque, senza lavoratori in nero. La riduzione immediata dei prezzi da parte delle imprese. E un aumento graduale del salario minimo nel futuro prossimo, man mano che l’economia cresce.
L’Italia sarà capace di restituire dinamiche sostenibili al proprio debito pubblico, e soprattutto, al costo del suo finanziamento? Agli attuali tassi di interesse, a quanto ammontano gli avanzi di bilancio primario necessari a centrare l’obiettivo? Sono cifre realistiche, per gli anni a venire, che è davvero possibile raggiungere? Per rispondere a queste domande, ecco alcune simulazioni dell’evoluzione del rapporto tra debito e Pil. Che sotto l’ipotesi di un bilancio in pareggio dal 2014, può ritrovare equilibri virtuosi anche con il permanere di alti tassi di interesse.
Alexander Hamilton, primo segretario al Tesoro Usa, stabilì che il governo nazionale si sarebbe assunto i debiti contratti dai singoli stati durante la guerra di indipendenza. Perché il nuovo Stato non sarebbe stato credibile senza il pieno controllo dei suoi debiti e senza poterne garantire la restituzione. Moneta comune e Fed arrivarono dopo. L’Europa ha scelto il percorso inverso. Pensando che l’unione monetaria avrebbe indotto una convergenza economica e creato le basi per una solida unione. Forse, per la soluzione di lungo periodo della crisi dell’euro servirebbe un Hamilton europeo.
La riunione informale del Consiglio europeo ha visto qualche ulteriore passo avanti negli aggiustamenti ai meccanismi di governo economico dell’Unione e dell’Eurozona. E per fortuna anche qualche passo indietro, con il pareggio di bilancio che basta e avanza a garantire il rientro dall’eccesso di debito. Non c’è ancora una soluzione per correggere gli enormi squilibri dei pagamenti correnti tra i paesi dell’euro. Ma almeno, dopo aver accontentato la Germania sulle regole di bilancio, l’agenda si allarga alle questioni della stabilità finanziaria e della crescita.
Il fiscal compact, approvato ieri da venticinque paesi dell’Unione Europea, ridotto in pillole contiene due regole. La prima (da alcuni definita, non si capisce bene perché, golden rule) è il pareggio di bilancio, o meglio il divieto per il deficit strutturale di superare lo 0,5 per cento del Pil nel corso di un ciclo economico. La seconda regola fissa un percorso di riduzione del debito pubblico in rapporto al Pil: dovrà scendere ogni anno di 1/20 della distanza tra il suo livello effettivo e la soglia del 60 per cento.