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Categoria: Conti Pubblici Pagina 63 di 102

LO SPETTRO DEL 1992

Si dice che la sfiducia espressa dai mercati nei riguardi dell’Italia la scorsa settimana sia dovuta al dissesto delle finanze pubbliche e alla debolezza del governo. Che però sono un tratto costante del nostro paese. Quello che è cambiato, invece, è il saldo delle partite correnti della bilancia dei pagamenti. Peggiorato di circa un punto di Pil dal 2006, proprio come era avvenuto negli anni precedenti la crisi del 1992. Se la causa del nervosismo dei mercati è almeno in parte il debito estero, l’approvazione della manovra difficilmente chiuderà la partita. 

ABOLIRE LE PROVINCE? SI RISPARMIA POCO

Le province spendono circa 12 miliardi di euro all’anno, ma 6 miliardi non sono facilmente comprimibili perché si tratta di rimborsi di prestiti e spese per manutenzione del patrimonio immobiliare. Anche da una sua eventuale dismissione non si otterrebbe molto, a meno di non pensare di vendere edifici scolastici e strade. Quanto al personale, spesso proviene da altre amministrazioni ed è chiamato a svolgere le nuove funzioni attribuite dalle leggi Bassanini. Insomma, al massimo si possono risparmiare 2 miliardi l’anno.

OLTRE LA MANOVRA

Nel dibattito pubblico l’attenzione si è concentrata solo sulla manovra del luglio 2011 dimenticando gli effetti di trascinamento dei vari interventi di finanza pubblica precedenti. Una valutazione complessiva dei dati di bilancio indica che le entrate hanno giocato un ruolo importante, ma inferiore al 50 per cento nella riduzione del deficit. E che più che di rinvio della manovra al 2013-14, si dovrebbe parlare di un alleggerimento sul 2012 rispetto al 2011.

SÌ AI TICKET, MA CON DIVERSO TRATTAMENTO FISCALE

Dei due ticket introdotti con la  manovra di metà luglio, quello  di 25 euro sull’uso inappropriato del pronto soccorso è stato ampiamente accettato ma quello di 10 euro per la ricetta  con prescrizioni specialistiche (visite mediche, esami di laboratorio, diagnostica per immagini, terapie riabilitative, eccetera) è stato ampiamente contestato. Non solo iniquo ma anche irrazionale, ha scritto su queste colonne Nerina Dirindin ( 19.07). Esso, infatti,   devia dalla struttura pubblica molti esami a basso costo e profittevoli, rendendo conveniente effettuarli  presso presidi privati senza ricetta. In effetti, varie regioni  stanno cercando di evitare o di modulare diversamente tale ticket.
Ma questo mossa avventata del governo non deve ingannare sulla  necessità di affrontare con realismo il tema generale del ticket in sanità, data la prospettiva di una crescita  della spesa cui il finanziamento pubblico, bloccato dalla necessità di azzerare  il deficit ed abbassare il debito, non riesce a far fronte. Del resto, è doveroso ricordare che una stretta molto dura sulla sanità venne introdotta  anche dal Governo Prodi nella seconda metà degli anni Novanta, ai tempi della rapida riduzione del deficit per entrare nell’eurozona. Orbene, in termini generali siamo tra coloro che  giudicano positivamente il ticket, ma  chiediamo  che ne sia distribuito   meglio l’onere attraverso una nuova configurazione del rapporto tra ticket e fiscalità.

 PRO E CONTRO IL TICKET

 Per giustificare tale tesi, richiamiamo i termini del dibattito. Innumerevoli le critiche al ticket: non riduce la domanda, perché le ricette le stila il medico, non il paziente; è regressivo, colpendo relativamente di più il povero del ricco; è dannoso per la salute, perché scoraggia il ricorso a cure tempestive; è negativo per la stessa finanza pubblica perché la mancata cura genera cure tardive più costose; è insensato sul piano gestionale perché comporta costi di esazione quasi pari al gettito.
La tesi a favore del ticket sostiene che tali affermazioni non hanno validità universale, ma dipendono dal reddito medio, dall’istruzione e dall’organizzazione sanitaria; e di fatto non sono vere nel concreto contesto della sanità nei paesi europei che al ticket ricorrono sovente. Ma soprattutto va ricordato che da tempo i consumi sanitari nelle società ricche non sono più limitati alle cure necessarie per patologie serie. Alla sanità si ricorre anche nella ricerca della piena efficienza fisica e mentale, con due conseguenze: che una parte significativa della domanda diventa elastica al prezzo e che essa, pur legittima, non è necessariamente più meritevole di tutela di altre domande di servizi pubblici. Allora, di fronte a un grave problema di bilancio pubblico, se non bastano i filtri posti dall’autolimitazione del paziente o dalla saggia parsimonia del medico, e di solito non bastano, diventa inevitabile razionare le cure in altro modo, sperando di tagliare o di inviare alla medicina privata solo la domanda meno importante per la salute. I mezzi sono: restrizione dei servizi garantiti, cattiva qualità dei servizi forniti, lunghe code di attesa, ticket. Il ticket può allora avere dei punti di merito rispetto ad altre soluzioni o almeno essere un legittimo ingrediente di una combinazione di strumenti di razionamento, specialmente se si ritiene che il paziente, aiutato dal medico, sappia distinguere tra esami e cure più o meno rinunciabili. Tanto più che se ne può modulare l’uso, differenziando il ticket per patologie e per livelli di reddito e si può quasi annullare il costo dell’apparato di esazione attraverso l’informatica.

IL TRATTAMENTO FISCALE

 Ciò detto a favore del ticket come opportuno strumento di controllo della domanda, e solo in via subordinata come strumento di finanziamento della sanità, va aggiunto che esso andrebbe diversamente collegato alla fiscalità. Riespongo qui una mia vecchia e inascoltata tesi. (1) Mette al centro il significato dell’intervento pubblico in sanità: evitare che il reddito insufficiente distolga dalle cure necessarie e quindi tutelare l’individuo e la famiglia dagli eventi gravi, non già azzerare o attenuare una spesa sanitaria marginale nell’economia dell’individuo e della famiglia. Saltando per brevità passaggi intermedi e dettagli fiscali, tale approccio porta a configurare un sistema di ticket incisivi e generalizzati, con esenzioni a priori limitate ai casi di povertà e con un conguaglio fiscale in sede Irpef che preveda tre casi: nessuna agevolazione per la spesa annua complessiva inferiore a una prima soglia di incidenza percentuale sul reddito del contribuente; detrazione di una percentuale della spesa dall’imposta per la parte di spesa compresa tra la prima e una seconda soglia; rimborso integrale, di norma sotto forma di credito d’imposta e quindi con rimborso materiale limitato al caso d’incapienza in sede Irpef, per la parte di spesa superiore alla seconda soglia.
Un esempio, immaginando che le soglie siano 1 per cento e 2,2 per cento del reddito e che il contribuente abbia un reddito lordo di 30mila euro. Primo caso, spesa annua per ticket inferiore a 300 euro: tutta a suo carico Secondo caso, spesa di 660 euro: avrebbe l’attuale detrazione del 19 per cento sulla seconda tranche di 360, pagando quindi 592 euro. E questa spesa, pari a circa il 2 per cento del suo reddito, sarebbe il limite massimo, perché spese ulteriori gli sarebbero integralmente rimborsate.
Le soglie andrebbero ovviamente definite dopo attente analisi della distribuzione dei redditi e della domanda di cure. Ma l’esempio fatto fa intuire che, comunque determinate entro confini ragionevoli, ne deriverebbero entrate più significative di quelle attuali e tuttavia con accettabili impatti sotto il profilo dell’equità grazie ai limiti fissati su misura del contribuente. Il sistema proposto  porterebbe anche vantaggi sul piano del controllo fiscale, attirando l’attenzione sulle domande di rimborso e inducendo pertanto a una autocensura dei contribuenti infedeli. Si potrebbe poi pensare di usare la più significativa entrata da ticket anche come mezzo per premiare la diversa produttività degli operatori sanitari, così stimolando a offrire più servizi nell’ambito della sanità pubblica e riducendo il fenomeno delle liste di attesa, che è problema grave sotto il profilo dell’efficacia sanitaria e dell’equità. Ma questo è un tema aggiuntivo su cui converrà tornare.

 (1) G. Muraro,”Il valore dell’equità in campo sanitario nelle società contemporanee”, in G. Costa e F. Faggian (a cura di), L’equità nella salute in Italia. Rapporto sulle diseguaglianze sociali in sanità, Fondazione Smith Kline, Franco Angeli, 1994, pp.43-56.

IL TEMPO (NON) È DALLA NOSTRA PARTE

L’Italia non è ancora spacciata. D’altra parte, le attuali difficoltà italiane sono largamente frutto di problematiche interne. E il tempo stringe perché il mercato oggi percepisce elevati rischi di breve periodo. Lo dimostrano i dati sull’andamento dei Cds. E allora l’aggiustamento di bilancio non va realizzato nel 2013 e nel 2014 come prevede la manovra, ma subito. Perché domani potrebbe essere troppo tardi.

NON TUTTI I DEFAULT SONO UGUALI

È sbagliato mettere sullo stesso piano i rischi di una crisi del debito per l’Italia e il probabile sforamento del tetto del debito pubblico negli Stati Uniti. La nostra è una crisi reale, quello americano è un problema legal-contabile, risolvibile con escamotage temporanei. E infatti il tasso d’interesse a cui una banca americana può chiedere soldi in prestito non è aumentato negli ultimi giorni. Se ne parla tanto perché la spesa pubblica sarà un tema cruciale delle prossime elezioni presidenziali Usa.

UN TICKET CHE PORTA ALLA SANITÀ PRIVATA

Il ticket di 10 euro previsto dalla manovra altera i prezzi relativi fra strutture sanitarie pubbliche e strutture private: per un gran numero di accertamenti a basso costo il ricorso al servizio pubblico si rivela più costoso. Difficile dunque raggiungere l’obiettivo di aumento delle entrate, sul quale punta la manovra. Intanto, però, si consegna al privato una parte della specialistica ambulatoriale sulla quale si concentrano molte delle aspettative dei produttori del settore e dei gestori di fondi integrativi. 

I NUOVI NUMERI DELLA MANOVRA

La manovra è stata potenziata sul piano numerico, non su quello dell’efficacia. A regime gli aumenti delle tasse contano per il 60 per cento dell’aggiustamento e sono regressivi. Questo potrebbe accentuare gli effetti recessivi della manovra riducendone l’impatto sui conti pubblici. Legittimo interrogarsi sulla fattibilità politica di questi inasprimenti fiscali che andranno a colpire soprattutto i ceti più deboli mentre i parlamentari si sono concessi un nuovo sconto nei tagli ai loro compensi. Le stesse coperture dei tagli a Regioni ed Enti Locali sono discutibili. Continuano a non esserci misure per lo sviluppo.

L’EGOISMO DEI POLITICI

I politici italiani sono riusciti ancora una volta a evitare una riduzione di stipendio, pur nel momento in cui approvavano una manovra con pesanti effetti sui cittadini. Non è che l’ultimo esempio della scarsa qualità della nostra classe politica. In un paese a democrazia matura, gli stessi elettori dovrebbero automaticamente punire i comportamenti devianti, costringendo così i partiti a selezionare con maggiore attenzione i candidati. In Italia è soprattutto la legge elettorale che lo impedisce.

È LA DEBOLEZZA DELLA POLITICA CHE MINACCIA L’EURO

Quella a cui stiamo assistendo da venerdì scorso sui mercati finanziari è una crisi di fiducia nella governance politica dell’Italia, ma anche dell’Europa. Il vertice dell’Eurogruppo di lunedì non ha raggiunto alcun vero risultato. Il coinvolgimento del settore privato pesa come un macigno sulla trattativa relativa al piano di assistenza finanziaria alla Grecia. Con proposte di soluzione diverse tra il piano tedesco, quello francese e l’ipotesi del buyback. E così l’euro rischia sempre di più.

 

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