Lavoce.info

Categoria: Conti Pubblici Pagina 65 di 103

LE RAGIONI DEL DIVARIO PRODUZIONE INDUSTRIALE-FATTURATO

Il problema di divergenze sistematiche tra andamento della produzione industriale e quello del fatturato del medesimo settore, opportunamente depurato dell’effetto della dinamica dei prezzi (cioè deflazionato), si pone da ormai qualche anno e, in particolare, da quando l’Istat ha completato la copertura degli indici dei prezzi alla produzione, includendo anche quelli relativi al mercato estero. Questa disponibilità di più informazioni e punti di vista sul medesimo fenomeno ha arricchito l’informazione, ma ha esposto l’Istituto alle critiche da parte di chi preferirebbe un quadro univoco, del tipo di quello che sembra prevalere (ma la lettura superficiale inganna) nel panorama tedesco.

UN CONFRONTO EUROPEO

Va messo subito in chiaro che la situazione italiana non è atipica, ma simile a quella di altri importanti paesi europei in cui i due indicatori sono misurati in maniera indipendente, come dimostra il seguente esercizio sui dati aggregati del fatturato del settore manifatturiero, deflazionato con gli indici dei prezzi alla produzione totali, per i quattro maggiori paesi europei e per l’aggregato dell’area euro (Uem). (1)

Tra i quattro paesi, quello con la maggiore coerenza è la Germania, dove i due indicatori sono calcolati sulla base di una stessa indagine. Ciò che colpisce è, semmai, che anche utilizzando un metodo così “internamente coerente” le divergenze non si evitano: nel 2010 la crescita annua della produzione supera quella del fatturato deflazionato di oltre un punto percentuale e, nel confronto tendenziale relativo ai primi quattro mesi del 2011, il divario si amplia a circa 2,5 punti percentuali. Il fatto che il differenziale sia a favore della produzione industriale non rassicura, in quanto conferma una tendenza comune a tutto il periodo: in questo paese, cioè, la produzione fornisce sempre un segnale più favorevole (distorto verso l’alto?).

Nel caso della Spagna le differenze sono ampie ma non sistematiche, alternandosi spesso di segno; riguardo al periodo recente risalta il fatto che la ripresa del 2010 sia quantificata in maniera molto diversa dai due indicatori: +2,1 per cento il fatturato deflazionato, +0,6 per cento la produzione.  

Infine, la situazione francese e quella del nostro paese sono per molti versi simili: il fatturato mostra una performance sistematicamente migliore e in alcuni anni il divario è molto ampio; in assoluto, le differenze sono significativamente maggiori per la Francia, con un massimo di quasi 7 punti percentuali nel 2009 (anno che segna il massimo anche per l’Italia con 4,6 punti).

Per l’area Uem si ripete il consueto (per gli statistici) “miracolo dell’aggregazione”: sommando paesi con differenze tra i due indicatori di ampiezze difformi e segni opposti, si giunge a un segnale complessivo che in termini di media annua è molto coerente.

IL CASO ITALIANO

Sgomberato il campo dalla tesi della “anomalia italiana”, è comunque necessario capire meglio se ci sia un problema e come affrontarlo. Per verificarlo è necessario operare un confronto il più accurato possibile: per questo la deflazione del fatturato va operata al livello di massima disaggregazione (3 cifre della Ateco, disponibili a tutti gli utilizzatori) ed escludendo le componenti (circa il 10 per cento) per le quali non esiste una sovrapposizione nei due indici. (2) L’esercizio conferma la crescita più rapida del fatturato (figura 1), anche se fino al 2008 le differenze nei tassi di variazione sono piuttosto contenute (0,7 decimi di punto nel 2007, 0,9 nel 2008). Nel 2009, invece, l’impatto della crisi viene misurato in maniera diversa: in media d’anno la produzione cala del 19 per cento mentre il fatturato reale del 15 per cento. Sebbene ciò non metta in alcun modo in dubbio l’ampiezza della recessione, la differenza è significativa ed è probabilmente da attribuire a due fattori: un marcato calo ciclico delle scorte e il fatto che alcune componenti del fatturato (quelle più connesse alle attività terziarie incorporate nel settore industriale) ne hanno attenuato la caduta. Per converso, nella prima fase della ripresa, misurata dalla variazione media del 2010, produzione e fatturato reale segnano crescite assolutamente allineate (6,9 per cento per entrambi). La forbice si riapre nella parte finale del 2010, portando a un marcato divario. In tale fase la differenza tra i due indicatori è spiegabile in parte dal ciclo delle scorte, che, riducendosi, avrebbero alimentato la crescita maggiore del fatturato rispetto alla produzione.

QUALCHE CONCLUSIONE

Come abbiamo visto la divergenza tra i due indicatori esiste (in Italia come in altri paesi), ma è tornata significativa solo nei dati più recenti (ultimi 6-8 mesi). Se questa differenza sarà circoscritta nel tempo, con un effetto analogo a quello di altri episodi specifici che si individuano sia negli indicatori italiani, sia in quelli degli altri paesi (ad esempio, la differenza di segno opposto, registrata nei dati tedeschi dell’ultimo anno) resteremmo nella fisiologia del confronto tra strumenti di misurazione differenti. Se invece persistesse una dinamica differenziale si aprirebbe un problema più serio ed è per questo che l’Istat sta, preventivamente, approfondendo l’analisi a livello settoriale fine e a livello di dati di impresa.

Ad esempio, l’Istat sa bene che unrinnovo annuale del campione di prodotti e imprese (innovazione recentemente apportata per gli indici dei prezzi industriali) potrebbe aiutare a superare alcune rigidità dei

metodi basati su basi fisse quinquennali, quale quello applicato alla produzione industriale, ma prima di cambiare metodologia occorre esplorare con attenzione tutti i pro e i contro di una tale soluzione, coscienti che gli utilizzatori sarebbero i primi a criticare qualsiasi discontinuità non pienamente motivata e verificata. D’altra parte, se è vero che l’indice di produzione può risentire di un’eccessiva rigidità dovuta alla definizione quinquennale del campione di prodotti da seguire, va considerato che il fatturato tende ad incorporare componenti di attività di servizio, e in particolare di attività commerciali, che non possono (correttamente) essere riflesse nella produzione industriale. D’altra parte, nel caso di imprese multinazionali italiane, il fatturato può risentire di vendite contabilizzate dalla “casa madre” collocata in Italia per produzioni realizzate all’estero: data l’espansione dell’attività delle multinazionali italiane documentata dalle rilevazioni dell’Istat questo fenomeno potrebbe contribuire a spiegare una divergenza sistematica e crescente nel periodo più recente tra i due indicatori, inducendo a privilegiare, per l’analisi congiunturale dell’industria, l’indicatore della produzione e non quello del fatturato.

In conclusione, la molteplicità dell’informazione determina certamente minore coerenza immediata ma arricchisce il quadro e, tramite l’integrazione, conduce a una misurazione più completa. In questa ottica, la produzione industriale e il fatturato deflazionato debbono essere considerate delle proxy dell’evoluzione dell’attività produttiva che vanno poi integrate dalle statistiche strutturali per trovare, infine, coerenza nei conti nazionali. Ad esempio, dall’analisi integrata di tutti questi indicatori emergono fenomeni di “spiazzamento” della produzione nazionale sul mercato interno: in altri termini, come documentato nel Rapporto annuale (pag. 22-23), proprio i settori nei quali la produzione industriale è ancora oggi su livelli prossimi a quelli, minimi, del 2009, hanno visto un fortissimo aumento delle importazioni. Sembra quindi utile non solo cercare spiegazioni “statistiche” alla scarsa performance dell’industria manifatturiera, ma approfondirne anche le motivazioni “economiche”, magari per identificare politiche industriali più adeguate ai casi dove le imprese italiane incontrano maggiori difficoltà.  

(1) Operare la deflazione a livello del totale invece che a livello disaggregato costituisce ovviamente un’approssimazione, ma il confronto con il secondo metodo, presentato più avanti per i dati italiani, indica che i risultati sono molto vicini.

(2) Più precisamente, sono comprese nell’indagine del fatturato, ma non in quella sulla produzione industriale, le classi: 051, 061, 082, 089, 091, 142, 182, 237, 266, 267 e 304. Viceversa, fanno parte del campo di osservazione dell’indice della produzione industriale, ma non del fatturato, le classi 351 e 352.

LA RISPOSTA DELL’AUTORE

L’INTERPRETAZIONE DEL GAP

Ringrazio Gian Paolo Oneto per il commento che arricchisce la discussione fornendo una più precisa evidenza dello iato produzione/fatturato (con un confronto omogeneo) e informando che all’Istat si è all’erta sulla questione e che si considera la possibilità, se il differenziale col fatturato reale non dovesse rientrare, del rinnovo annuale, anziché quinquennale, del campione della produzione industriale (come già fatto per i prezzi alla produzione). Segnalo che questo problema è stato affrontato anche nel recente Rapporto del Centro Studi Confindustria (Scenari economici, giugno 2011).
Nel mio articolo non ho intenti critici, ma cerco di sfruttare a fini interpretativi il gap apertosi tra le due variabili per ricavare indicazioni su fenomeni di grande interesse, ma difficili da osservare: le modifiche di composizione di prodotti/imprese indotte, tra operatori eterogenei, dalle spinte selettive della recessione. Da questo punto di vista, il fatto di avere due indicatori diversi, come in Italia, fornisce maggiori possibilità di lettura della distruzione creativa rispetto al caso tedesco in cui si hanno due indicatori simili. Proprio per tale motivo, se l’Istat dovesse passare a un indice di produzione a base mobile sarebbe da suggerire di conservare comunque quello a base fissa. 
Due considerazioni su altrettanti rilievi avanzati da Oneto. La prima riguarda l’esclusione che si fa nel suo commento di andamenti atipici italiani rispetto a quelli europei, anche a prescindere dal caso tedesco. Osservando le dinamiche congiunturali nella fase di ripresa, su cui si focalizza l’attenzione del mio articolo, mi sembra che vi sia invece una disomogeneità (v. figure 1-4).

La seconda attiene all’interpretazione. Nell’articolo attribuisco la causa del divario a mutamenti del mix. Se così fosse c’è da attendersi che quando si aggiornerà la struttura di pesi/imprese/prodotti dall’anno 2005 al 2010 la produzione tornerà ad avvicinarsi al fatturato. Ne conseguirebbe un maggiore allineamento del ciclo industriale dell’Italia agli andamenti europei. Il che, tra l’altro, significa: nulla di miracoloso, solo normalità. Nel commento questa interpretazione viene ritenuta poco probabile e declassata al rango di spiegazione statistica, mentre si richiama l’influenza di altri fattori: terziarizzazione, ruolo delle multinazionali, spiazzamento a opera dell’import. Questi fenomeni sono tutti rilevanti, ma non mi convincono. Erano peraltro nella lista dei sospetti anche in occasione della precedente esperienza (2005-2008) di apertura del gap tra le due variabili, poi sostanzialmente eliminato dal semplice cambio di base della produzione. Ma stiamo all’oggi. La terziarizzazione della manifattura è un fenomeno importante da tenere d’occhio (come ricordato da Fabiano Schivardi al recente convegno annuale de lavoce.info ed è certamente causa di differenze tra produzione e fatturato, ma non mi pare che si abbiano evidenze di una sua intensificazione nell’ultimo periodo tale da dare luogo al divario osservato; se così fosse dovremmo peraltro rallegrarcene, visto che la differenziazione di prodotto, cui porta la terziarizzazione, è la strada per il successo competitivo a disposizione delle imprese italiane. Analogamente, si è bensì verificata una crescita delle attività dei gruppi multinazionali italiani nel 2010, ma è stato un fenomeno comunque limitato nel panorama delle imprese industriali nazionali (ha riguardato il 38 per cento delle multinazionali che a loro volta sono il 16 per cento delle imprese residenti e coprono il 15 per cento del fatturato). Infine, lo spiazzamento a opera di prodotti importati dovrebbe avere influito ugualmente su produzione e fatturato, a meno che non si sia trattato di un aumento di acquisti dall’estero di beni poi rivenduti senza subire alcuna trasformazione, ma anche per tale fenomeno non mi sembra vi siano chiare evidenze nei dati disponibili. Per questi motivi propendo per la tesi del rimescolamento produttivo causato dalla recessione (forse più intenso in Italia rispetto a quanto si è verificato in Francia e Spagna, visti gli andamenti dei due indicatori congiunturali).

L’EUROPA E LA PAURA DEL CONTAGIO

È la paura del contagio ad altri paesi che spinge a rifiutare l’ipotesi di una ristrutturazione del debito della Grecia. Eppure l’evidenza empirica sull’andamento degli spread dei Cds suggerisce che una ristrutturazione ordinata del debito greco ha oggi meno probabilità rispetto al passato di produrre una dirompente fuga dall’Europa. Dunque, il destino degli altri paesi problematici riposa ora più che mai nelle loro mani e nella credibilità delle politiche di risanamento che intendono attuare. Vale naturalmente anche per l’Italia.

LE IMPRESE ITALIANE DOPO LA RECESSIONE

Produzione e fatturato tornano a dare messaggi contrastanti sul ciclo industriale italiano. La congiuntura appare lenta e quasi ferma per il primo indicatore; più robusta e non così distante dall’Europa per il secondo. La riapertura di un divario tra le due statistiche riflette probabilmente i mutamenti di composizione nell’output industriale indotti dai processi selettivi della grave recessione.

PRODUZIONE INDUSTRIALE NELL’EUROZONA

 

TORNARE A CRESCERE, UN OBBLIGO PER L’ITALIA

La malattia del nostro paese è la bassa crescita. È questo ciò che rende l’Italia vulnerabile alla crisi del debito pubblico. Il governo dovrebbe perciò agire contemporaneamente su due piani: precisare quali misure di aggiustamento intende adottare da qui alla fine della legislatura per rispettare gli impegni presi senza rimandarle ai posteri; e indicare un’agenda di riforme strutturali a costo zero per le casse dello Stato che ci mettano nelle condizioni di tornare a crescere nei prossimi dieci anni. Noi continueremo a offrire il nostro contributo costruttivo aggiornando le proposte già su questo sito e formulandone di nuove.

La Grecia privatizza. Ma è la cura giusta?

La Grecia annuncia un importante piano di privatizzazioni. Tra l’altro, passerebbero ai privati i porti, compreso quello del Pireo. Il debito del paese dovrebbe così ridursi di circa il 17 per cento. Ma per quanto meritevoli di per sé, riusciranno le privatizzazioni a risolvere il problema della solvibilità della Grecia? Per raggiungere questo risultato, dovrebbero rendere gli enti privatizzati molto più profittevoli rispetto alla gestione pubblica. Ipotesi nella quale i mercati non sembrano credere, almeno per ora.

LA PIÙ FINALE DELLE CONSIDERAZIONI

In un paese in cui la classe dirigente ha scarsissima cultura economica e le statistiche non sono considerate un bene pubblico, le Considerazioni finali del Governatore di Banca d’Italia sono molto importanti. Le sei stilate da Mario Draghi non mostrano alcuna accondiscendenza verso il potere politico. Molte delle sue raccomandazioni non sono state ascoltate, ma hanno tolto copertura alla difesa dello status quo. Chi lo sostituirà in Banca d’Italia deve essere altrettanto indipendente: per questo non può venire dalle fila dell’esecutivo. Un post scriptum a commento di una proposta di Eugenio Scalfari.

UNA NUOVA REGOLA: NON PAGA PANTALONE

L’enorme debito pubblico, unito allo scarso supporto politico di cui godono le riforme, rende l’Italia un osservato speciale delle agenzie di rating e delle organizzazioni internazionali. Come rassicurare agenzie e italiani di domani? Con una nuova regola: “Non paga Pantalone”. Significa la fine del populismo come prassi politica. Quel populismo che porta a sottolineare solo l’aspetto politicamente pagante e di parte delle politiche e a far apparire le riforme come stupidi sacrifici. Mentre si dovrebbe parlare sempre dei due lati del bilancio pubblico: le entrate e le uscite.

LA RISPOSTA AI COMMENTI

Ringrazio i lettori per gli interessanti commenti che mi sembra integrino proficuamente l’articolo e costituiscano un utile spunto per continuare a dialogare su questi temi.
I fattori culturali sicuramente contano, esiste un clima generale privo di una "visione" che sappia guardare al futuro, oltre il breve termine. E’ verissimo, come dice Michele Giardino, che il primo pessimo esempio di questo clima è rappresentato dalla mancanza di idee di chi gestisce la cosa pubblica: il mio ultimo riferimento al bisogno di politica industriale aveva proprio questo senso: non devono essere solo gli imprenditori a "darsi una mossa"; e il vero politico riformista deve anche avere il coraggio, in tema di piccole e medie imprese, di sfidare l’impopolarità.
E’ chiaro, come sostiene Guido Meak, che se non si trovano percorsi facilitati per chi deve assumere e andare all’estero si è condannati al nanismo, ma qui la risposta la dà direttamente Maria Crisitina Pace con la quale concordo pienamente: le regole devono disegnare tutte le possibili opportunità, ma poiché, sul terreno della crescita, si è visto che più di tanto da comportamenti spontanei non ci si può aspettare, meglio spingere e, per riassumere, incentivare il piccolo che vuole crescere, ma disincentivarlo se vuole rimanere piccolo. Condivido, infine, le osservazioni di Paolo Mariti sulla mancanza di competenze professionali e gestionali, ma ho la sensazione che sia il classico cane che si morde la coda, perchè la piccola dimensione non consente adeguati e forti investimenti in formazione e ricerca. Anche su questo terreno una seria e rigorosa politica industriale può fare molto.   

Pagina 65 di 103

Powered by WordPress & Theme by Anders Norén