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Categoria: Unione europea Pagina 53 di 98

SPREAD DEI VERTICI EUROPEI

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EUROBOND, LEZIONI AMERICANE

Gli Eurobond, come forma di mutualizzazione del debito, sono ormai visti da molti come l’’unica soluzione alla crisi dell’’euro. I sostenitori di questa tesi guardano ai primi anni degli Stati Uniti, quando il governo federale guidato da Alexander Hamilton decise di farsi carico di tutto il debito dei singoli stati, molti dei quali erano in bancarotta a causa della spesa sostenuta nella guerra di indipendenza.
Tuttavia, guardando con più attenzione questa vicenda, ci si accorge che l’’esperienza americana non è né un paragone utile né un precedente incoraggiante per gli Eurobond. (1)

L’EUROPA DI OGGI NON È L’AMERICA DI IERI

Innanzitutto, farsi carico a livello federale di uno stock di debito è diverso dal permettere ai singoli stati di emettere in futuro un flusso di bond sotto la responsabilità collettiva di tutti gli stati membri. Hamilton non doveva preoccuparsi del problema di azzardo morale, dal momento che il governo federale non garantiva il nuovo debito emesso dai singoli stati. E infatti alcuni stati raggiunsero livelli di indebitamento insostenibili circa 50 anni dopo, ma non furono “salvati” dal governo federale.
Inoltre, raramente viene sottolineato che il debito federale (di circa 40 milioni di dollari) era ben superiore al debito dei singoli stati (di circa 18 milioni di dollari): farsi carico del debito dei singoli stati non era quindi una decisione fondamentale per il successo della stabilizzazione finanziaria dei neonati Stati Uniti, ma una naturale conseguenza del fatto che la maggior parte del debito si era creato combattendo per una causa comune.
Inoltre, l’’assunzione del debito statale da parte del governo federale fu accompagnata da uno schema di perequazione orizzontale: gli stati con livelli di debito minori ricevettero dei crediti verso il governo federale al fine di livellare fra i diversi stati l’onere pro capite del debito.
Inoltre, in quel periodo, le fonti di entrata più efficaci erano le tasse e le tariffe doganali, quindi a livello di efficienza aveva molto più senso che il debito pubblico fosse gestito a livello federale.
Anche in termini di distribuzione del potere interno, l’’operazione aveva i suoi vantaggi: una volta che gli stati non erano più chiamati a rispondere del loro debito, non era neanche necessario che aumentassero le entrate attraverso la tassazione diretta, operazione che avrebbe potuto ostacolare il nascente mercato interno Usa .
Questo è ciò che accadde: quando lo stato federale si fece carico del debito dei singoli stati (che in ogni caso era una piccola frazione del totale), le entrate statali diminuirono dell’’80-90 per cento. Per un certo periodo, gli stati divennero fiscalmente irrilevanti.
Ma l’’elemento chiave per la stabilizzazione finanziaria fu una profonda ristrutturazione: Hamilton stimò che il governo federale poteva raggiungere un livello di entrate sufficienti per pagare circa il 4 per cento di interessi sul totale del debito, un tasso nettamente inferiore rispetto al 6 per cento dovuto sulle obbligazioni esistenti.
Sia i detentori di debito statale che i detentori di titoli federali ricevettero un paniere di obbligazioni a lungo termine, alcune al 3, altre al 6 per cento di interesse e con un periodo di grazia di dieci anni. Il paniere fu costruito in modo tale da avere un tasso di interesse medio del 4 per cento. Come diremmo oggi, “il valore attuale netto” del debito totale (federale e statale) fu ridotto di circa la metà, applicando il consueto exit yield del 9 per cento.
Inoltre, la lunga scadenza dei nuovi bond federali implicava un rischio di rifinanziamento pari a zero:sarebbe stato molto imprudente esporre il governo federale a questo pericolo, dal momento che l’’operazione al suo inizio fu giustamente percepita come molto rischiosa.
Per i primi anni, il debito assorbì più dell’’80 per cento delle entrate federali e il minimo shock negativo avrebbe potuto portare alla bancarotta il nuovo governo federale. Ma fortunatamente accadde l’’esatto opposto: le entrate federali triplicarono negli anni successivi grazie all’’impatto del boom dovuto alla ricostruzione del dopoguerra e continuarono a crescere rapidamente aiutate da fatto che gli Stati Uniti si mantennero neutrali, mentre le guerre devastavano il continente europeo.
Dieci anni dopo l’’inizio del programma di consolidamento del debito, le entrate degli Stati Uniti erano quintuplicate.
Viceversa, oggi in Europa le prospettive di crescita sono alquanto ridotte e il pagamento degli interessi, anche nei casi di Grecia e Italia, costituisce meno del 20 per cento del totale delle entrate. Il vero problema è il rifinanziamento del debito esistente in una economia stagnante. Per esempio, l’’Italia presto avrà un bilancio in pareggio in termini strutturali, ma deve affrontare il problema di rifinanziare il vecchio debito, in scadenza ogni anno.
Con un tasso di inflazione al 2 per cento, garantito dalla Bce, e reali prospettive di crescita di solo l’1 per cento, i mercati finanziari capiscono chiaramente che qualsiasi tasso di interesse superiore all’’atteso tasso di crescita del Pil del 3 per cento creerà un effetto “valanga”.
Eliminare i dubbi riguardo alla sostenibilità del debito in Europa richiederebbe quindi una profonda ristrutturazione. La crisi fiscale dell’’eurozona potrebbe certamente essere risolta se tutto il debito pubblico esistente fosse trasformato in Eurobond con un tasso del 3 per cento, una scadenza a 20 anni e un periodo di grazia di 5 anni. È facile prevedere l’’effetto che questo avrebbe sui mercati finanziari.

QUANDO NON CI FU SALVATAGGIO

Un esempio più interessante per l’’attuale situazione dell’’Eurozona è invece quanto accadde, sempre negli Stati Uniti, mezzo secolo dopo la ristrutturazione del debito di Hamilton.
Nel 1830-1840, alcuni stati avevano sovra-investito in quella che ai tempi era la principale tecnologia di trasporto: i canali. Quando il boom dei canali finì, otto stati e territori (che rappresentavano circa il 10 per cento della popolazione statunitense), non furono in grado di ripagare il loro debito verso prestiti principalmente inglesi.
I banchieri inglesi, ovviamente, minacciarono di non investire mai più in attività di quegli inaffidabili degli americani. Facendo affidamento sul precedente di Hamilton, probabilmente avevano investito con il presupposto implicito che il “salvataggio” sarebbe stato ripetuto. Ma nonostante le minacce dei creditori esteri, il governo federale non intervenne per salvare gli stati in difficoltà. La richiesta di intervento non fu accolta perché non riuscì a ottenere la maggioranza richiesta dal processo decisionale (“metodo comunitario” nel gergo dell’Unione Europea): sarebbe stato sufficiente ottenere l’assenso della maggioranza degli stati (Senato) e della popolazione (Camera dei rappresentanti).
La minaccia di essere esclusi dai mercati dei capitali internazionali era una questione seria per gli Stati Uniti, ai tempi il principale mercato emergente, che avevano bisogno di molti flussi di capitale per sviluppare le infrastrutture necessarie in un continente inesplorato. Ma passato un certo tempo i flussi di capitale inglese verso gli Stati Uniti ripartirono. Gli investitori ovviamente preferiscono essere ripagati da qualcun altro quando il debitore non può pagare, ma il passato è passato e gli investitori in fondo sanno che tutti gli investimenti hanno un rischio.
Discorsi simili si sentono anche oggi: molti sostengono che gli investitori internazionali staranno alla larga dai mercati europei se sosterranno delle perdite sui debiti sovrani dell’’eurozona. Ma questo scenario è, nel lungo periodo, improbabile. Inoltre, l’’eurozona non necessita di capitale estero, è una economia matura con una bilancia corrente in equilibrio e dovrebbe diventare una esportatrice di capitale, dato il suo attuale livello di Pil pro capite e dato l’’invecchiamento della popolazione europea.
I default furono costosi: gli anni 1840-1850 furono un periodo di bassa crescita e di continue pressioni da parte dei creditori esteri che, alla fine, forzarono la maggior parte degli stati a riprendere i pagamenti sul debito. È stata questa lezione che ha portato la maggior parte degli stati americani a inserire il pareggio di bilancio nella loro costituzione.

P.S. Una analogia più rilevante con la storia americana è quella delle banche con licenza statale degli anni Trenta. I singoli stati si preoccuparono dei loro interessi locali, ma la somma di tutte le decisioni locali di lasciare fallire molte banche portò a una perdita di fiducia nel sistema nel suo complesso, problema che poteva essere affrontato solo a livello federale. E infatti La crisi bancaria si arrestò solo quando fu presa una decisione complessiva a livello federale, che includeva un sistema di garanzie per i depositi, con la Fdic al suo vertice.

(1) Sylla, Richard, “Financial Foundations: Public Credit, the National Bank, and Securities Markets”, prepared for NBER Conference on Founding Choices: American Economic Policy in the 1790s, Dartmouth College, Hannover, NH, May 7-9, 2009.

ANTI-SPREAD: PIÙ FUMO CHE ARROSTO

Il risultato ottenuto dal governo italiano sul meccanismo anti-spread è più apparente che reale: lo Esm continuerà a operare secondo le regole già previste. La Bce è il vero vincitore della partita giocata al vertice di Bruxelles: ottiene la supervisione bancaria ed evita qualsiasi coinvolgimento nel meccanismo anti-spread. L’’intervento diretto dello Esm nel capitale delle banche ci sarà, ma la Spagna dovrà attendere per poterlo usare.

LE CONSEGUENZE POLITICHE DELLA CRISI ECONOMICA

Negli anni Venti e Trenta del secolo scorso arrivarono al potere non soltanto il nazismo in Germania e il fascismo in Italia, ma si affermarono regimi autoritari in mezza Europa. La crisi economica e finanziaria ebbe un peso determinante nella creazione dell’ondata antidemocratica. Resistettero meglio i paesi con sistemi elettorali che prevedevano forti sbarramenti ai partiti minori. Sono fatti e dati che oggi devono tenere ben presenti i responsabili politici europei.

Attorno al 1920 ventiquattro stati europei potevano definirsi democratici. Nel 1939 in tredici di questi aveva prevalso regimi autoritari, tuttavia anche nei rimanenti undici le istituzioni democratiche vennero minacciate in maniera più o meno severa da movimenti e partiti anti-sistema.

VENT’ANNI CHE SCONVOLSERO IL MONDO

Un colpo di stato militare abbatté le istituzioni democratiche in Ungheria nel 1920, in Bulgaria nel 1923 e in Portogallo, Lituania e Polonia nel 1926. In Jugoslavia il re Alessandro I abolì i partiti politici e prese in mano il potere nel 1929. In Grecia l’ingovernabilità del paese indusse il re a chiamare il generale Metaxas a governare il paese con l’appoggio delle forze di destra. Lo stesso avvenne due anni dopo in Bulgaria, questa volta per contrastare l’avanzata della destra. Anche in Austria nel 1934 il cancelliere Dollfuss assunse tutti i poteri per contrastare l’avanzata delle destre, che pochi mesi dopo lo uccisero. Lo stesso avvenne poco dopo in Lettonia ed Estonia. (1) Questo per non citare il caso italiano e tedesco dove negli anni Venti e Trenta i partiti fascista e nazista presero il potere attraverso libere” elezioni. Un’ampia letteratura storica, sociologica e politica è concorde nel ritenere che un simile scenario, per altro comune a molti paesi dell’America Latina, sia in buona parte imputabile alla crisi economica e finanziaria che ha colpito molti paesi in quegli anni. (2) A puro titolo d’esempio vale la pena ricordare che in Germania dopo gli anni di iperinflazione (1922-23) l’economia tedesca fu caratterizzata da un periodo di forte boom, il cosiddetto Golden Twenties (1924-28), seguito da una lunga recessione: nel 1932 il Pil si era ridotto di circa un quarto rispetto al picco del 1928 e i disoccupati erano saliti a oltre 6 milioni, dopo che il governo Hindemburg-Bruning aveva applicato una rigorosa politica fiscale e pesanti tagli alla spesa sociale. È solo in questa fase che il partito nazista, nato negli anni Venti, conseguì risultati veramente significativi (grafico 1). Anche I’talia l’ascesa del Partito nazionale fascista segue un lungo periodo di crisi economica e recessione che va dal 1918 al 1921 (grafico 2).

 

 

LA CRISI ECONOMICA, HITLER E MUSSOLINI

I risultati elettorali tedesci e italiani non furono terribili eccezioni, ma la regola. Eccezionali furono tutt’al più le conseguenze, come ci ricorda il titolo di un recente lavoro di King, Tanner e Wagner: Ordinary Economic Voting Behavior in the Extraordinary Election of Adolf Hitler”. (3) Certamente il clima politico istauratosi dopo la fine della prima guerra mondiale con la punitiva pace di Versailles, i milioni di reduci delusi, la giovane età di molte democrazie nate dalla disgraegazione dell’impero austro-ungarico, la paura del comunismo vittorioso in Russia e la spaccatura della sinistra giocarono un ruolo importante. Tuttavia come mostra un recente lavoro di Bromhead ,B. Eichengreen e O’Rourke (4), la prolungata crisi economica ha giocato un ruolo determinate nel portare al potere i partiti anti-sistema in un campione di 28 paesi e 171 consultazioni politiche.

SISTEMI ELETTORALI

La storia ci consegna tre ulteriori moniti. In primo luogo, anche i sistemi politici, oltre quelli economici, sono soggetti a fenomeni di contagio: i regimi democratici come quelli autoritari tendono per motivi culturali a riprodursi da un paese all’altro. Secondo, i paesi con sistemi elettorali che hanno un forte sbarramento all’ingresso ai partiti minori sono quelli che meglio resistono alle crisi e all’avanzata dei partiti anti-sistema. Terzo, il più delle volte, non sono i disoccupati o i colletti blu, che hanno ammortizzatori sociali, a voltare le spalle alle democrazia, ma i così detti working poor e cioè i lavoratori autonomi, commercianti, piccoli professionisti, lavoratori domestici, che più sono toccati dalla crisi e votano i partiti anti-sistema, quasi sempre di destra.
Di questo devono ricordarsi i capi di governo che si riuniscono il  28 e 29 a Bruxelles. Il Pil Greco è già caduto del 16 per cento negli ultimi cinque anni, mentre gli acquisti di armi leggere sono enormemente aumentati così come la ricerca delle parole‘guerra civile’ su Google. Se il governo di Samaras dovesse fallire nei suoi obiettivi, il prossimo parlamento greco potrebbe davvero diventare ingovernabile e le istituzioni democratiche sarebbero a rischio, non solo in Grecia.

(1) G. Capoccia, (2005), Defending Democracy: Reactions to Extremism in Interwar Europe, Baltimore, Johns Hopkins University Press.
(2) Stögbauer C. (2001), “The Radicalisation of the German Electorate: Swinging to The Right and the Left in the Twilight of the Weimar Republic, ”European ReviewOf Economic History 5; A. Diskin , H. Dikin, and R. Hazan “ Why Democracies Collapse: The Reasons for Democratic Failure and Success” International Political Science Review (2005), Vol 26, No. 3, 291–309
(3) King, G., Rosen, O., Tanner, M. and Wagner, A.F.!(2008), “Ordinary Economic Voting Behavior in the Extraordinary Election of Adolf Hitler, Journal of Economic History 68: 951596
(4) A. Bromhead ,B. Eichengreen and H. O’Rourke (2012) Right Wing Political Extremism in the Great Depression University of Oxford Discussion Papers in Economic and Social History Number 95, February

EURO: ULTIMA CHIAMATA

I capi politici della UE stanno discutendo da troppo tempo su quali siano gli strumenti per uscire crisi dell’’Unione monetaria europea. Nel confronto su questi aspetti, sembra assente lo snodo cruciale della vicenda europea: la necessità di riavviare il processo di unificazione politica. “Euro: ultima chiamata” è il titolo di un libro pubblicato da Francesco Brioschi editore. Carlomagno è un “autore collettivo”, che comprende Angelo Baglioni, Andrea Boitani, Massimo Bordignon, Stefano Fantacone, Rony Hamaui e Marco Lossani. Qui di seguito, ampi stralci dell’introduzione.

 

EUROBOND? MEGLIO L’UNIONE BANCARIA

Dopo più di due anni di tentativi e vertici di emergenza, la crisi dell’Eurozona non mostra alcun segno di miglioramento. La soluzione passa attraverso una politica che separi la crisi bancaria da quella del debito sovrano. È necessario perciò creare una Autorità di risoluzione europea, con il compito di identificare le banche che hanno subito gravi perdite, risanarle o liquidarle. L’Autorità dovrebbe disporre di garanzie fiscali fornite dall’Esm. E con una reale unione bancaria, potrebbe svanire il bisogno di ricorrere agli Eurobond.

 

COME DIFENDERSI DAL CONTAGIO

La fiducia sui titoli sovrani e bancari in tutti i paesi periferici dell’Europa continua a scendere. Cosa possono fare i paesi a rischio, e l’Italia in particolare, per evitare il contagio? L’evidenza empirica mostra che nella crisi sono divenuti più importanti tre fattori: il livello del debito pubblico, il tasso di crescita e il tasso di disoccupazione. E allora è forse utile accelerare privatizzazioni e dismissioni; diluire nel tempo il consolidamento fiscale; e sul mercato del lavoro puntare su forme di flessibilità salariale che riducano il rischio di licenziamenti.

GRECIA, UN’OCCASIONE DA NON SPRECARE

Il popolo greco si è dimostrato più lungimirante della Troika. Non ha ceduto alla tentazione di premiare con il voto il partito (Syriza) che prometteva di stracciare il tristemente famoso Memorandum, che ha imposto pesanti condizioni alla Grecia in cambio degli aiuti finanziari dei partner europei. La campagna elettorale di quel partito ha finito per trasformare le elezioni del 17 giugno in un referendum sulla permanenza nell’euro, e i Greci hanno responsabilmente scelto di restare nell’area euro, facendo così prevalere un obiettivo di lungo periodo sui sacrifici immediati necessari per raggiungerlo. Al contrario, la gestione delle trattative da parte della Troika è stata finora caratterizzata dall’imposizione di target di bilancio impegnativi e con scadenze molto ravvicinate. Più volte abbiamo sottolineato che questo modo di gestire la crisi greca è stato miope e ha esposto i paesi dell’area euro al rischio di un evento traumatico quale l’uscita di un paese membro dalla moneta unica. Se ciò avvenisse, l’unione monetaria sarebbe declassata ad un accordo di cambio, nel quale gli attacchi speculativi potrebbero rendere insostenibile il costo del debito pubblico per altri paesi, costringendoli ad uscire dall’area euro. La crisi di un piccolo paese si trasformerebbe così nella crisi della moneta unica nel suo insieme.
Ora si apre una finestra di opportunità. Il peggio potrà essere evitato solo se l’Europa sarà veramente disponibile a rivedere la sua impostazione, trattando con il nuovo governo una revisione degli accordi che conceda alla Grecia il tempo per fare le riforme strutturali di cui ha bisogno: revisione del meccanismo di riscossione delle imposte, snellimento della pubblica amministrazione, privatizzazioni. Paradossalmente, la Troika si troverà costretta a trattare con il maggiore responsabile di questa situazione: Samaras, leader del partito (Nuova Democrazia) che, quando era al governo nel 2009, comunicò dati falsi sul bilancio pubblico. Questo è il risultato di avere messo alle corde il governo socialista di Papandreou, costringendolo di fatto alle dimissioni, e di non avere fatto nulla per agevolare il governo tecnico di Papademos. I margini di trattativa sono ristretti, data la scarsa flessibilità della Troika. Prepariamoci al rito delle estenuanti negoziazioni, sotto la minaccia di non erogare le prossima tranche di finanziamenti europei, senza la quale il governo di Atene sarà insolvente tra un mese.  

LA FAVOLA DEL DELEVERAGING

Negli ultimi 10 anni, il sistema economico e finanziario si è sbilanciato inesorabilmente verso il debito a scapito del capitale di rischio. Questa crisi è anche il segno di un’economia bisognosa di diversificazione nell’approvvigionamento di capitale. Un processo più o meno lungo di cancellazione graduale del debito e riallineamento sui fondamentali con più equity è inevitabile. Le istituzioni finanziarie internazionali sostengono che il processo sia iniziato, finora però le banche si sono limitate ad aumentare la loro capitalizzazione, senza alcun vero deleveraging.

LA RISPOSTA AI COMMENTI

La risposta ai commenti dei lettori mi permette di toccare argomenti che, per motivi di sintesi, non avevo potuto sviluppare nell’articolo.
In primo luogo l’indicatore di competitività considerato, il tasso di cambio effettivo reale aggiustato per il costo del lavoro per unità di prodotto, oltre a essere influenzato dalle diverse quote di mercato verso i paesi che non adottano l’euro e per cui una svalutazione/rivalutazione dei rapporti di cambio determina vantaggi/svantaggi competitivi, è condizionato da altri due fondamentali fattori:

  1. il costo del lavoro. Come sottolineato da alcuni commenti, l’aggiustamento della competitività tra paesi europei potrebbe passare attraverso una variazione del costo del lavoro. Evidentemente pesanti riduzioni dei salari nei paesi in difficoltà avrebbero effetti recessivi. Andrebbero quindi favoriti incrementi salariali nei paesi dell’Europa del Nord, come sottolineato anche dal commento del prof. Aquino,  nei quali la dinamica delle retribuzioni nell’ultimo decennio è stata particolarmente contenuta. Il vantaggio di tale soluzione sarebbe anche quello di aumentare i consumi e le importazioni nelle aree più ricche. In parte questo processo sta già avvenendo in Germania, dove i salari stanno progressivamente spostandosi su livelli più elevati. La velocità di aggiustamento, però, è troppo lenta – stante anche le rigidità salariali che i neokeynesiani tendono a sottolineare (si veda al riguardo il Grafico 1 presentato da Paul Krugman in cui si osserva come i salari nominali, in un paese caratterizzato da un alto dinamismo come gli Stati Uniti, varino con una bassa probabilità) – e non può verosimilmente garantire un riequilibrio competitivo tra i paesi europei;

     Grafico 1

Fonte: Paul Krugman su dati Current Population Survey

  1. la produttività. Un recupero di produttività nei paesi in ritardo di competitività avrebbe notevoli vantaggi. Produrre più beni e servizi, a parità di costi, aiuterebbe la crescita economica, soprattutto nel lungo termine. Il problema è che per raggiungere questo obiettivo vi è la necessità di effettuare notevoli investimenti, su un profilo temporale di diversi anni, sia materiali sia immateriali.
    a. Per quanto riguarda gli investimenti materiali, i paesi dell’Europa del Sud, tenuto conto della situazione dei rispettivi conti pubblici, non possono che fare affidamento sui paesi con la “salute migliore”. A mio avviso, però, l’obiettivo non dovrebbe essere semplicemente quello di inondare di soldi pubblici le economie in difficoltà, così come avvenuto in passato nel caso italiano con la Cassa del Mezzogiorno. Andrebbero, invece, individuati quei “colli di bottiglia” infrastrutturali che bloccano lo sviluppo (un esempio, per il caso italiano, potrebbe essere la Salerno-Reggio Calabria) e su quelli bisognerebbe agire, evitando di disperdere risorse che oggigiorno sono particolarmente scarse. Come ben sottolineato da Alesina e Giavazzi (1), ricoprire di asfalto e di rotaie i nostri territori non aiuterebbe di certo a sostenere la crescita nel lungo termine.
    Investimenti nella ricerca e nello sviluppo, e in particolare nella Green Economy, avrebbero invece maggiori effetti positivi. L’Unione Europea, infatti, dipende fortemente dagli approvvigionamenti energetici effettuati all’estero, quindi trovare fonti di energia alternative e migliorare l’efficienza dei consumi correnti dovrebbe essere un obiettivo che accomuni gran parte del continente europeo.
    b. Ancor più importanti sono gli investimenti immateriali. Migliorare il funzionamento delle macchine burocratiche, della giustizia, semplificare le norme e gli iter parlamentari attraverso cui queste vengono prodotte, sia a livello nazionale che europeo, produrrebbe dei benefici notevoli in termini di produttività. Si pensi solo al tempo che potrebbe risparmiare un imprenditore italiano in una controversia legale, che oggi necessita mediamente di ben 1.300 giorni per concludersi, se l’efficienza della giustizia civile nel nostro paese si adeguasse a quella delle migliori esperienze europee (in Lussemburgo, ad esempio, i tempi medi della giustizia sono poco superiori ai 300 giorni).

I singoli Stati europei attualmente in crisi, non sono però attrezzati, sia sul piano economico sia, soprattutto, politico, per ottenere risultati importanti e duraturi in termini di produttività. Solo un’Unione politica, in cui i paesi dell’Europa del Nord esportino, senza ostacoli legali a miopi nazionalismi, le loro capacità nel gestire e amministrare la cosa pubblica, potrebbe raggiungere nel medio-lungo termine questo obiettivo.  
Alcuni però potrebbero obiettare, usando le parole di Keynes, che nel lungo termine saremo tutti morti posto che la speculazione nel frattempo avrà spazzato via Stati europei, banche e l’euro stesso. In realtà se ci fosse la volontà politica di andare effettivamente verso l’Unione tra gli Stati europei la speculazione potrebbe essere facilmente sconfitta. Nel brevissimo termine, infatti, alla Bce potrebbe essere dato il mandato di salvare l’euro costi quel che costi, anche in termini di inflazione, acquistando sul mercato secondario, senza limiti di importo, i titoli di Stato di paesi aderenti all’Area euro oggetto della speculazione finanziaria. Già questo semplice mandato costituirebbe un fortissimo deterrente per gli speculatori che vedrebbero l’Area euro, nel suo complesso, come un pesce troppo grosso da poter essere mangiato.
Passata questa fase emergenziale l’emissione di Eurobond permetterebbe alla Bce di tornare a svolgere il suo ruolo di controllore attento dell’inflazione. La condivisione dei debiti pubblici tra tutti i paesi dell’Unione, così come avviene in ogni singola nazione tra aree avvantaggiate e quelle depresse, permetterebbe di rendere sostenibili i debiti pubblici accumulati in questi anni.
Per concludere con un’altra metafora marinaresca, allo stato attuale è come se stessimo facendo il viaggio di Cristoforo Colombo a ritroso: due delle caravelle sono pressoché affondate, ne rimane solo l’ultima e la speranza di poter finalmente vedere all’orizzonte gli Stati Uniti d’Europa.

(1) Alesina A. e F. Giavazzi, La direzione è sbagliata, Corriere della Sera del 6 giugno 2012

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