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Sei priorità per il Patto

Evitare politiche pro-cicliche in fasi di alta crescita, migliorare la definizione degli obiettivi di bilancio a medio termine, rendere più “operativo” il criterio del debito, attuare riforme strutturali e migliorare la governance sono le questioni da affrontare per la revisione del Patto di Stabilità e crescita. La difficoltà sta nel coniugare due aspetti: mantenere intatto un sistema di sorveglianza multilaterale basata su “regole” e aumentare la razionalità economica delle regole stesse attraverso un maggiore esercizio della discrezionalità.

Niente di nuovo sotto il Patto

Per valutare le proposte di revisione del Patto di Stabilità e Crescita, è necessario comprender la ratio storica del Patto stesso: essenzialmente, esso fu concepito come uno strumento per eliminare le mele marce, cioè paesi con politiche economiche fuori controllo. I vincoli imposti sono certo arbitrari, e le regole hanno costi. Ma anche un innegabile vantaggio: offrono a cittadini, sindacati e aziende uno scenario stabile e prevedibile. Le proposte attualmente in discussione hanno una loro motivazione, ma in pratica aumenteranno l’ incertezza del quadro di politica economica e il contenzioso fra paesi. E allentare una regola ogni volta che qualcuno si lamenta aprirà la strada a nuove richieste di allentamento alla prossima difficoltà.

La riforma vista dall’Europa

E’ illusorio pensare che le coperture della riforma fiscale possano derivare da sforamenti del Patto di stabilità. Se così accadesse, l’Italia si troverebbe a pagare un alto costo politico, oltre che economico. Difficile anche un allentamento condiviso dei vincoli nella direzione voluta dal nostro Governo. E per il sostegno alla competitività delle imprese, più che maggiore spesa pubblica in ricerca e infrastrutture, servirebbero misure per migliorare il contesto competitivo. Come una seria legge fallimentare o l’apertura del mercato bancario.

Ma l’Europa resta miope

Prevale la convinzione che la delocalizzazione impoverisca le economie nazionali con perdita di posti di lavoro. Dunque, si adottano misure per contrastarla. Al contrario, può essere un processo virtuoso di rafforzamento della competitività anche in settori manifatturieri maturi come quelli in cui è specializzata l’Italia. I fondi strutturali dovrebbero essere utilizzati per integrare le attività ad alto valore aggiunto con quelle che vengono trasferite. E da noi va favorita la creazione di consorzi che forniscano servizi a chi vuole internazionalizzarsi.

La Turchia e l’Unione

Salvo sorprese, il prossimo anno inizieranno i negoziati formali per l’ingresso della Turchia nella Ue. Non mancano le obiezioni. Quelle economiche insistono sul fatto che si tratta di un paese povero, prevalentemente agricolo e con una forte dinamica demografica. Questi problemi potrebbero però essere già superati quando l’adesione sarà effettiva. Mentre i vantaggi sarebbero notevoli e non solo per Ankara. La Turchia può divenire una fondamentale via di approvvigionamenti energetici. E il potenziale di scambi e d’investimento non è ancora sfruttato a pieno.

Quando l’Europa non è più di moda

Dopo l’ingresso ufficiale nella Ue, i tre grandi paesi dellÂ’Europa centrale hanno iniziato a seguire politiche fiscali meno rigorose, anche per l’imminenza di elezioni nazionali. Il rischio è di una deriva populista che porti a una spirale deficit pubblico-inflazione-deprezzamento del cambio-servizio del debito sempre più alto. Impraticabile un’adesione rapida all’euro, saranno i mercati internazionali dei capitali a impedire l’adozione di politiche scellerate. Ricordando però che il mercato provoca aggiustamenti bruschi e spesso traumatici.

Le pensioni nel Patto

Le riforme strutturali non possono più essere rinviate. Il Patto di stabilità e crescita puo’ essere un ostacolo alla loro realizzazione perché molte riforme, soprattutto quelle pensionistiche, costano nel breve periodo e pagano nel lungo. Secondo Boeri e Tabellini, nel rivedere il Patto e’ utile introdurre nuovi parametri oggettivi che tengano conto di questi benefici di lungo periodo, come il debito implicito dei sistemi pensionistici. Vito Tanzi, tuttavia, osserva tuttavia che nei paesi che hanno attuato importanti riforme negli ultimi anni il livello della spesa pubblica si è sempre ridotto. Perché spesso la spesa improduttiva è tale da consentire drastiche “cure dimagranti”. Segue la controreplica degli autori.

Nessun brindisi per il nuovo Patto

Nasce un nuovo Patto di stabilità e crescita. Il rischio è che sia così flessibile da non essere mai applicato. Mentre i debiti pubblici dei paesi europei sono già elevati e continueranno a crescere se non si adottano misure per eliminare la distorsione sul deficit di cui soffrono i governi. Per farlo non è però necessaria l’uniformità. Il Patto deve allora diventare un accordo formale per costruire istituzioni nazionali capaci di varare politiche di bilancio virtuose. E, come guardiano del Trattato, la Commissione dovrebbe vigilare sui progressi.

Una riforma per due

Il Patto di stabilità e crescita e l’agenda di Lisbona vanno rivisti. Il Patto resta uno strumento essenziale di coordinamento delle politiche fiscali, ma in questo momento prevalgono i suoi effetti recessivi. Al contrario, perseguire gli obiettivi di Lisbona avrebbe ricadute favorevoli sull’attività e sui conti pubblici di tutti i paesi. Mancano però gli incentivi. I due programmi dovrebbero essere legati più strettamente, concedendo margini più generosi nella valutazione delle politiche di bilancio ai paesi che attuano le riforme di struttura.

Un Patto più “intelligente” *

La Commissione ha presentato alcune ipotesi per una revisione del Patto di stabilità e crescita. Si sviluppano lungo due assi: la maggiore attenzione alla sostenibilità delle finanze pubbliche e il ruolo da assegnare alla congiuntura economica. Il Trattato rimane pienamente valido e l’impianto del Patto di stabilità non viene messo in discussione. E il nuovo approccio non è più punitivo per i paesi ad alto debito, ma crea incentivi per politiche fiscali sane in periodi di alta crescita.

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