Non si può negare che Mario Draghi abbia mantenuto il suo impegno di proteggere l’euro utilizzando per intero gli strumenti a disposizione della Bce. Ma le Outright monetary transactions suscitano qualche perplessità. Il problema nasce in particolare dal fatto che la Bce non dispone di tutti gli strumenti per contribuire efficacemente a risolvere la crisi dei debiti pubblici e quindi dell’euro. Soprattutto perché, per statuto, non le è consentito di finanziare direttamente gli Stati membri in difficoltà. Come invece fanno tutte le altre banche centrali.
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Un approccio multidisciplinare, che coinvolga teorie economiche, sociali e psicologiche, può spiegare le attuali inefficienze dei mercati finanziari e come i loro movimenti siano sempre meno determinati da aspettative razionali degli operatori. Dall’effetto gregge a quello annuncio, dall’acquisto sulla base di voci ai pregiudizi cognitivi, fino all’ancoraggio, ecco i principali fattori di tipo psicologico che prendono il sopravvento sui corretti processi decisionali basati sull’elaborazione delle informazione pubblicamente disponibili.
È partito il nuovo Fondo europeo di stabilità. Avrà risorse ampie ma limitate e una governance politica. Nessun governo ha voglia di usarlo, per non incorrere nel costo politico e nelle condizioni che verranno chieste in cambio degli aiuti. L’unico vero scudo anti-spread sarà quello fornito dalla Bce. Peccato che anche quello dipenderà dalla attivazione dello Esm. Sarebbe stato meglio se la Bce avesse deciso di basare i suoi interventi su una valutazione autonoma del rispetto degli impegni europei da parte del paese interessato.
Grottesco. Difficile trovare aggettivo diverso per descrivere lo scontro sulla conversione in azioni ordinarie delle azioni privilegiate possedute delle fondazioni bancarie nella Cassa depositi e prestiti. Se si vuole trasformare realmente (e non solo nella forma) la Cassa in una società per azioni, si liquidino le fondazioni e si metta il 30 per cento da esse posseduto sul mercato, vendendolo al migliore offerente. Permetterebbe alle fondazioni di concentrarsi davvero sulle attività di pubblica utilità, che dovrebbero essere il loro core business e a una controllata dallo Stato di confrontarsi con veri azionisti. Si eviterebbe anche un nuovo bagno di sangue per il contribuente.
La Commissione europea ha presentato la proposta per la creazione di una supervisione bancaria unica nei paesi dell’area euro. È un buon inizio, ma è necessario un passo ulteriore. È arrivato il momento di affermare esplicitamente che l’Eurozona ha bisogno di un prestatore di ultima istanza e che l’unica istituzione che può assumere quel ruolo è la Bce. Serve anche un accordo fra gli Stati membri sulla ripartizione dei costi dei salvataggi delle banche, oltre a un sistema di regole che li riduca al minimo.
L’unione bancaria non può essere un mero passaggio di competenze alla Banca centrale europea. Dovrebbe essere interpretata invece come unico strumento per ripristinare i meccanismi di trasmissione della politica monetaria e bloccare il processo di disintegrazione finanziaria. È un processo complesso, che dovrebbe prevedere un intervento di politica monetaria non convenzionale. Insieme a nuove regole comuni per la liquidazione e amministrazione delle banche, applicate da un’autorità indipendente.
La Bce si appresta ad assumere specifici compiti di vigilanza sulle banche europee. Si tratta di una svolta, perché si realizzano i presupposti di un vero e più stabile mercato bancario europeo. E finalmente gli operatori non saranno più costretti a interloquire con una moltitudine di autorità, ciascuna con le proprie prassi e linguaggi. Anche se restano da sciogliere alcuni nodi, il treno del trasferimento della sovranità dei controlli è ormai partito. E per i tanti interessi di parte sarà difficile fermarlo in corsa.
Le piccole e medie imprese italiane, il tessuto produttivo su cui si fonda l’intera nostra economia, non devono fronteggiare solo una seconda profonda recessione dopo quella del 2009. Sono alle prese anche con una stretta creditizia. I dati Bce relativi a giugno 2012, segnalano che le Pmi italiane pagano circa quattro decimi di punto percentuale in più rispetto alla media dell’area euro per contrarre un nuovo finanziamento bancario. È tempo che l’industria bancaria italiana riveda finalmente la sua struttura organizzativa.
La Commissione europea prova ad accelerare sull’unione bancaria. La Bce dovrebbe cominciare a vigilare su alcune banche europee già all’inizio del 2013 e su tutte quelle della zona euro dal 2014. Tempi più lunghi per centralizzare la gestione delle crisi bancarie e l’assicurazione dei depositi. Il cambio di passo rispetto alla tradizionale lentezza delle istituzioni europee è comunque notevole. Vedremo se i governi sapranno adeguarsi al nuovo corso, superando le resistenze al cambiamento.
L’annuncio che la Bce acquisterà titoli di Stato dei paesi in difficoltà, senza limiti di ammontare, è un significativo passo avanti nella soluzione della crisi del debito sovrano dell’area euro. Tuttavia, gli acquisti saranno sì illimitati, ma anche temporanei, perché concentrati solo sui titoli con scadenza residua non superiore a tre anni. Una scelta che tutela la Bce da possibili perdite dovute a un aggravarsi della crisi. Manda, però, un segnale di sfiducia al mercato e rischia di generare ulteriori vulnerabilità nei debiti degli Stati sovrani.