Il primo errore è stato il salvataggio della Grecia, per poi proseguire in un crescendo che ha finito per portare l’eurozona sull’orlo del disastro. I leader europei sperano di arginare la situazione rafforzando il Patto di stabilità o imponendo un meccanismo di ristrutturazione del debito sovrano. Entrambi richiedono un nuovo Trattato e dunque una ratifica da parte di cittadini europei, poco propensi a concederla in questo momento. E allora l’unica possibile soluzione è il ripristino della clausola del “no-bailout”: a imporre la disciplina fiscale ci penseranno i mercati.
Il caso irlandese mette in luce che il costo dei salvataggi bancari può diventare determinante nel valutare la tenuta dei conti pubblici di un paese. Bisogna quindi saperlo misurare e tenerne conto nel rapporto debito/Pil, anche ai fini del nuovo Patto di stabilità in Europa. Una misurazione a valori di mercato ci mostra che l’Irlanda è il paese europeo nel quale l’onere, implicito nella garanzia di bail out del sistema bancario, è di gran lunga maggiore. L’Italia è quello che sta meglio tra i “periferici”. Ma la Germania è il paese più solido in Europa.
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Le regole di Basilea 3 sono destinate a riaccendere le discussioni sul modello strategico delle banche italiane. Sono riuscite a superare bene la crisi finanziaria, ma faticano ad adattarsi al nuovo contesto macroeconomico. Il nostro tessuto industriale ha bisogno di un sistema bancario in grado di capirne i bisogni e di essere fisicamente vicino al cliente. Ma a tutti gli altri interessano pochi, semplici e standardizzati prodotti venduti a basso prezzo. In entrambi i casi, l’attuale rete di filiali è inadeguata. Molto meglio puntare sulle potenzialità del web.
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La struttura finanziaria delle Pmi europee esce indebolita dalla crisi. Ricorrere alla leva creditizia sarà al tempo stesso più rischioso e meno produttivo per le banche e per le imprese. Occorre una strategia per rafforzare la finanza d’azienda, altrimenti l’Europa non potrà colmare i pesanti gap di competitività . Va sfruttato in particolare lo spazio tra capitale e credito, con strumenti nuovi e servizi adeguati, disegnandoli in uno sforzo comune e concertato tra imprese, finanza e mercato. A partire dal tavolo permanente di lavoro tra imprenditori e sindacati.
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I compensi ai membri dei consigli di amministrazione e agli amministratori delegati sono adeguati? Hanno cioè una corrispondenza con i risultati ottenuti dalle società che dirigono? Per un campione di aziende quotate, il costo dei Cda varia dai 600mila ai 15 milioni di euro. Ed è superiore di cento volte al costo medio del personale. La retribuzione dell’amministratore delegato incide per circa la metà . Ma tra emolumenti e utile generato non si riscontra una relazione diretta. Insomma, il costo di questi organi sembra largamente immotivato e determinato da fattori endogeni.
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Il problema del sistema economico internazionale non è quello dei tassi di cambio. Basta guardare i dati su Stati Uniti, Cina, Europa e Giappone. Quindi non si può affrontarlo in termini di guerra delle valute, che al massimo sono il sintomo di una malattia che ha origine altrove. La questione cruciale è la forte divergenza tra i principali paesi del mondo sugli obbiettivi di crescita e di stabilità economica. A Seul, allora, i leader del G20 farebbero bene a tentare di comprendere i problemi altrui, prima di ricorrere a mosse unilaterali pericolose per tutti.
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Le fondazioni bancarie non sono investitori istituzionali perché non rendono conto ad alcun risparmiatore delle loro scelte finanziarie e non hanno peraltro alcun obbligo di rendicontazione della redditività dei loro investimenti. Né sono autonome dalla politica, come mostrano gli ultimi riassetti ai vertici. Vanno dunque riformate, risolvendo l’anomalia di istituzioni non profit che esercitano funzioni di controllo nelle banche. Dovrebbero trasformare gradualmente le loro azioni in azioni di risparmio, evitando di incorrere in perdite in conto capitale.
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Negli Stati Uniti la crisi finanziaria sembra ormai archiviata. Non si può dire lo stesso per l’Europa, che ha affrontato il problema affidandosi a una serie di false speranze. Mentre gli stress test sulle banche americane sono serviti a riconquistare subito la fiducia degli investitori, quelli condotti sugli istituti europei hanno prodotto risultati deludenti perché è mancata la necessaria trasparenza. Ma soprattutto perché il processo non ha innescato la ricapitalizzazione e ristrutturazione delle banche più deboli. Mantenendo così la fragilità del sistema.
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La Consob ha presentato nei giorni scorsi delle proposte di revisione della regolamentazione sulle Opa. Alcune sono opinabili, ma l’impianto complessivo fa pensare che Consob sia tornata a preoccuparsi della tutela degli azionisti di minoranza, dopo gli sbandamenti dell’ultimo periodo della presidenza Cardia. Importante però che sia nominato al più presto un nuovo presidente. Con le competenze necessarie per il ruolo che dovrà ricoprire. L’ennesimo politico spacciato come tecnico sarebbe un boccone indigeribile.
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