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Categoria: Fisco Pagina 63 di 84

UN COMMENTO DI RUGGERO PALADINI A “LE TASSE E QUEL REDDITO SEMPRE PIÙ DISEGUALE”

Commentando la proposta della CGIL (in sostanza un nuovo scaglione da 150mila in poi con aliquota al 48%) Larcinese, alla fine dell’articolo, osserva che non è detto che essa sia “la risposta più appropriata alla crescita delle diseguaglianze nel nostro paese: la proposta della CGIL toccherebbe di fatto solo chi le tasse le paga, ossia prevalentemente il lavoro dipendente, per quanto ben remunerato”.
L’osservazione va modificata, nel senso che ai livelli di reddito sopra i 150mila vi sono percettori di redditi diversi dal lavoro dipendente, che non evadono (o se evadono, lo fanno in misura molto ridotta). I dati delle dichiarazioni Irpef dell’anno 2005 ci dicono che il 56% dei circa 115mila contribuenti dichiara redditi da lavoro dipendente; in aggiunta ai pensionati si arriva quasi all’83%. Tuttavia su un ammontare di reddito complessivo di 32 miliardi (il 4,6% dell’intera base imponibile) i redditi da lavoro dipendente e da pensione rappresentano “solo” il 45% del totale. Vi sono quasi 30mila professionisti che dichiarano il 21% dei 32 miliardi, e 34mila percettori di redditi di partecipazione che dichiarano il 16%. Questi ultimi redditi sono quelli dichiarati in Irpef dei membri di srl o azionisti di spa che, avendo partecipazioni qualificate, devono dichiarare una quota dei redditi in Irpef.
Vi sono poi i titolari di redditi d’impresa; si tratta di poco più di 10mila contribuenti, con redditi complessivi che costituiscono solo il 6% dei 32 miliardi. Qui la domanda nasce spontanea: il 2005 è stato un anno di crescita bassa (0,6% di Pil), ma è possibile che tra milioni di imprenditori solo 10mila (lo 0,4%) siano i “ricchi”? Da notare che i professionisti, che sono molti di meno, hanno nello stesso anno un numero di “ricchi” triplo (il 3,4% dei professionisti).
L’impressione è che i contribuenti che dichiarano redditi alti sono quelli che non evadono (o lo fanno in misura molto limitata), perché sono lavoratori dipendente (o pensionati), ma anche liberi professionisti che, per diverse ragioni non possono o non vogliono farlo, o azionisti di società di medie e grandi dimensioni (dove si può eludere, ma molto meno evadere). In tutte le province i notai sono la categoria con reddito dichiarato più alto, ma anche tutti coloro che prestano servizi per il settore pubblico o per le grandi imprese non si trovano nelle condizioni di evadere, anche se lo volessero.
Con questa modifica l’osservazione di Larcinese sembra condivisibile: a quei livelli di reddito si trovano soprattutto coloro che non possono (ed in qualche caso anche non vogliono) evadere. Il che di per sé non implica che la proposta della CGIL sia da condannare a priori; in fondo altre volte, come è avvenuto nel 1997 con il contributo per l’Europa, un prelievo fiscale è caduto sulle spalle dei più onesti (per scelta o per necessità). Ma non vi è dubbio che la strada maestra è quella del contrasto dell’evasione, per ridurre il fenomeno ad una dimensione fisiologica. Dal fatto di “pagare tutti, pagare meno” l’economia italiana non avrebbe che benefici.

PIU’ CHE UN CONTENZIOSO, UNA SIMONIA FISCALE

Novità nell’accertamento di imposte sui redditi, Iva e di altre imposte indirette. Il contribuente ha ora la possibilità di fruire di un significativo abbattimento delle sanzioni se aderisce alla determinazione del tributo operata, in via unilaterale, dall’amministrazione finanziaria. Se l’intento di potenziare l’azione di contrasto all’evasione è meritevole, l’intervento ha una connotazione ambigua: confonde esigenze operative con altre più contingenti, come il fare cassa. E rende sostanzialmente superflua l’osservanza di comportamenti fiscalmente virtuosi.

LE TASSE E QUEL REDDITO SEMPRE PIU’ DISEGUALE

La Cgil ha proposto un’imposta di solidarietà: un aumento di aliquota dal 43 al 48 per cento sui redditi superiori ai 150mila euro. L’extra-gettito servirebbe a finanziare interventi in favore di disoccupati e precari. Misure simili sono già state adottate nel Regno Unito e Stati Uniti. Tuttavia, nel nostro paese non è probabilmente la risposta più appropriata alla crescita delle disuguaglianze perché toccherebbe di fatto solo il lavoro dipendente, senza incidere sull’evasione fiscale. Ma è ora che il problema della distribuzione del reddito torni in primo piano.

IL CONTRASTO ALL’EVASIONE? SINTETICO

Smantellati in nome della semplificazione gli strumenti che potevano permettere di ottenere, per via telematica, informazioni utili per il contrasto all’evasione, soprattutto di lavoratori autonomi e Pmi, E nella ricerca dei grandi evasori si procede in modo selettivo. La strategia del governo rende esplicito un patto di non belligeranza nei confronti dei piccoli e medi contribuenti. Però permette di quantificare aleatori aumenti di gettito. Intanto, diminuiscono le entrate dell’Iva. Anche per la consapevolezza che l’evasione è un’attività sempre meno rischiosa.

LA RISPOSTA AI COMMENTI

Grazie molte a tutti coloro che hanno commentato l’articolo ed espresso opinioni diverse dalla mie. Vorrei precisare molto brevemente:

1) Il tentativo di conciliazione non funziona da solo, come molti credono. Per farlo funzionareefficientemente occorre la presenza di due elementi (a) un conciliatore formato in tecniche di gestione del conflitto (diverso dal giudice titolare della causa) e (b) un organismo specializzato terzo neutrale. Purtroppo in Italia con lo stesso termine "conciliazione" si ci riferisce a procedure molto diverse. La conciliazione nel processo del lavoro si è ridotta ad un mero formalismo proprio perché gestita da
funzionari non specializzati. In poche parole, il tentativo obbligatorio di conciliazione non è una novità ed esiste da anni in Italia, ma non funziona perché lo fanno le persone sbagliate (o almeno non adeguatamente formate).
2) Non c’è nessuna statistica, in nessuna giurisdizione al mondo, che convalidi l’idea che il ricorso "volontario" alla conciliazione possa contribuire all’efficienza dell’amministrazione della giustizia. Tutte le
statistiche dimostrano esattamente il contrario. Il ricorso agli organismi di conciliazione deve essere introdotto per legge come condizione di procedibilità o su invito del giudice per poter ottenere un effetto positivo sull’efficienza della giustizia civile. Tutte le esperienze al mondo di progetti simili, indicano in non meno del 60% la risoluzione positiva di queste “settlement conferences” introdotte per legge in un sistema graduale e progressivo di risoluzione delle controversie. Anche l’Italia conferma questo dato. Occorre farsene una ragione.
3) Partecipare ad un tentativo di conciliazione non implica rinunciare ad un proprio diritto. Se non si è soddisfatti del possibile accordo si può sempre adire al giudice, che in una visione generale di ricorso sistematico alla conciliazione, riuscirà a decidere più velocemente.    
4) Il ricorso agli organismi di conciliazione è solo una – ma credo importante – possibile soluzione alla lentezza della giustizia. Sicuramente ce ne sono altre di cui, però, l’autore non è un esperto e non ha
competenze.    
5) In Italia ci sono circa 130 organismi di conciliazione e circa 7.000 conciliatori – in media 60 conciliatori per organismo –  già adeguatamente formati in tecniche di gestione del conflitto che sono largamente
inutilizzati. L’utilizzo di queste risorse già formate potrebbe contribuire grandemente a rendere più efficiente la giustizia civile senza alcun costo per lo Stato, che tra l’altro, ne certifica e vigila sulla loro serietà ed efficienza tramite un apposito Registro istituito presso il Ministero di Giustizia a cui progressivamente gli organismi di stanno iscrivendo. In questo campo, l’unica certezza è lo status quo. Iniziare anche una sperimentazione e valutare serenamente i risultati, di certo non può
peggiorare la situazione.    
Grazie molte,

MA L’ENI E’ DAVVERO UNA SOCIETA’ PRIVATA?

Il Tesoro ha varato una legge tributaria ritagliata su misura per l’Eni: un’addizionale del 4 per cento all’imposta sul reddito delle società posta a carico delle imprese petrolifere quotate, con capitalizzazione in Borsa superiore a 20 miliardi di euro. Per trovare i soldi necessari a pagare l’accordo Italia-Libia, un’azienda ormai privatizzata viene trattata come fosse pubblica. A rimetterci sono in primo luogo i piccoli azionisti. Soprattutto, non sembra questo il momento adatto per incrinare la fiducia dei risparmiatori verso i titoli pubblici.

PREZZI E SALARI AL TEMPO DELLA CRISI

I salari nel 2008 sono aumentati di un punto e mezzo più dei prezzi. Un effetto temporaneo, ma non solo. Un problema che potrebbe diventare più drammatico nei prossimi mesi, con il rischio di un peggioramento delle relazioni industriali. Se il governo ha risorse fiscali aggiuntive, è qui che bisognerebbe metterle: per difendere il potere d’acquisto dei lavoratori e delle loro famiglie, senza pregiudicare la competitività delle imprese.

UNA GHEDDAFI TAX PER L’ENI

Il disegno di legge di Ratifica del trattato con la Libia, approvato dalla Camera, prevede l’impegno dell’Italia a finanziare la realizzazione in Libia di progetti infrastrutturali di base per 5 miliardi di dollari: 250 milioni di dollari (180 milioni di euro) all’anno per venti anni. Tutti questi soldi verranno raccolti con un’addizionale all’Ires… sull’Eni. Ovviamente il testo di legge non si esprime esattamente in questi termini: secondo l’art. 3, questa addizionale si applica nei confronti di tutte le società e gli enti commerciali residenti che rispondono a un insieme di requisiti che di fatto solo l’Eni soddisfa. E in effetti, per fare i calcoli del gettito atteso dall’addizionale, la relazione tecnica fa riferimento a dati di bilancio coerenti con quelli… dell’Eni. Per la terza volta nel giro di pochi mesi, l’utile dell’Eni viene quindi in aiuto alle finanze dello Stato: con la Robin tax, con il finanziamento “volontario” di 200 milioni per la social card (su un totale di 450 milioni), con questa nuova Gheddafi tax  di durata ventennale. Cosa può giustificare un ricorso così disinvolto a norme fiscali ad personam? Forse la volontà di portare via all’Eni una parte della sua rendita da monopolista. Ma l’estrazione della rendita del monopolista dovrebbe avvenire con la regolamentazione, e andare a beneficio degli utenti, garantendo loro prezzi più bassi. Obiettivo che non solo non è stato ancora raggiunto ma che, evidentemente, non si intende perseguire neppure nei prossimi vent’anni. Della rendita di questo monopolista lo Stato già gode, in quanto azionista: l’effetto della Gheddafi tax, come della Robin tax, sarà quindi, più modestamente, quello di evitare che essa si traduca in dividendi anche per gli azionisti privati, perché l’azionista pubblico, a cui ne spetterebbero solo il 37,7 se li porta via prima che vengano distribuiti approfittando del suo… power to tax.

GEMELLI DIVERSI: MOTORIZZAZIONE CIVILE E ACI

Motorizzazione civile e Aci producono due documenti: il libretto di circolazione e il certificato di proprietà del veicolo. Entrambi sono realizzati elettronicamente attingendo dati dall’Archivio nazionale veicoli il primo e dal Pubblico registro automobilistico il secondo. Ma il Pra è un duplicato dell’Anv e per tenere allineati i due database si investono, sprecandole, risorse. In altri paesi basta il solo libretto per tutte e due le funzioni. Siamo sicuri che in questo caso non ci siano margini per razionalizzare e ridurre la nostra spesa pubblica?

SE NON SI FA PIU’ CREDITO ALL’INNOVAZIONE

Il credito di imposta riconosciuto alle imprese per i costi sostenuti in attività di ricerca e sviluppo è uno strumento agile e efficace. Il decreto anticrisi introduce un meccanismo a prenotazione e altri limiti alla possibilità di fruizione che riducono il volume dell’intervento, eliminano l’automaticità dell’accesso e cancellano la sicurezza della disponibilità in tempi certi delle risorse. Eppure è vitale che la crisi economica non blocchi la capacità di innovazione, rendendo le aziende italiane ancora più deboli di fronte alla competizione internazionale.

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