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Categoria: Giustizia Pagina 19 di 33

DEI DELITTI E DELLE PENE. E DELLE PRESCRIZIONI

La norma sulla prescrizione breve sposta la distinzione tra recidivi e chi viola la legge occasionalmente dal momento della decisione della pena a quello dell’accertamento dell’illecito, riducendo la possibilità di condanna per i criminali incensurati. Non serve a combattere il recidivismo né a introdurre un garantismo efficace. Se nel lungo periodo produrrà un numero inferiore di condannati, ciò non sarà la virtuosa conseguenza di una riduzione delle recidive, quanto il risultato di una minore probabilità di punire chi ha commesso un reato, ma non ha precedenti penali.

Quelle barriere per gli aspiranti avvocati

La riforma dell’avvocatura in discussione al Senato prevede tra l’altro un rafforzamento delle barriere all’ingresso nella professione. A tutela di un elevato standard qualitativo dei servizi legali a tutto vantaggio degli utenti, secondo quanto sostiene l’Ordine forense. Ma un’analisi statistica mostra che chi ha un cognome molto rappresentato nell’albo della sua provincia diventa avvocato prima. E fa nascere il sospetto che la professione non sia esente da potenti pratiche corporative.

 

Solo parole nella lotta alla clandestinità

Il governo vanta successi nella lotta anti-clandestini. Ma con sei sanatorie in ventidue anni e i decreti-flussi che funzionano come sanatorie mascherate, l’Italia detiene il primato europeo delle regolarizzazioni di massa. Primato rafforzato dall’attuale governo. All’ostilità verso gli immigrati irregolari urlata a gran voce e inoculata nella coscienza dei cittadini corrisponde una tolleranza di fatto. Forse servirebbe una politica meno enfatica e più responsabile: difficile ottenerla in tempi normali, figuriamoci quando si profilano all’orizzonte le elezioni.

 

C’è l’indulto dietro il boom e lo sboom della criminalità *

Negli ultimi anni abbiamo assistito prima a un boom della criminalità e poi a una sua rapida diminuzione. Il governo attribuisce il calo del numero dei delitti denunciati alla stretta sull’immigrazione, soprattutto quella clandestina. Invece l’ondata prima crescente e poi calante potrebbe essere dovuta all’indulto voluto dal governo Prodi. Gli indulti, come i condoni per gli evasori e le sanatorie per gli immigrati, sono presentati come pezze temporanee per tappare buchi, ma producono il risultato permanente di indebolire la fiducia nella legge e il senso della legalità.

 

Libere professioni in libertà vigilata

Due anni fa, nel novembre 2008, il ministro Alfano, al Congresso nazionale forense di Bologna, fece agli avvocati un discorso che suonava sostanzialmente così: “se mi portate un disegno di riforma sul quale concordino tutte le componenti e le voci dell’avvocatura, io mi impegno a farlo passare in Parlamento”. Questo discorso avrebbe avuto un senso nel contesto dell’ordinamento corporativo. Dopo la sua abrogazione, la disciplina della professione forense deve intendersi come posta esclusivamente nell’interesse dell’amministrazione della giustizia e della collettività degli utenti del servizio. Sulle linee e sui contenuti della riforma, dunque, non poteva certo bastare un accordo limitato alle componenti interne dell’avvocatura.

LA BOTTEGA DELL’AVVOCATO

Questo è sicuramente uno dei motivi per cui il disegno di legge, in un primo tempo affrettatamente licenziato dalla Commissione Giustizia del Senato, ha visto poi il proprio iter procedere con grande difficoltà, incagliandosi più volte, avversato fortemente dall’antitrust, dalle associazioni imprenditoriali, da quelle dei consumatori e persino da quelle dei giovani avvocati. A tutte queste voci il ministro ha preferito non dare ascolto, mantenendo il proprio appoggio al  progetto approvato dal Consiglio Nazionale Forense, che segna un netto ritorno all’indietro rispetto al decreto Bersani del 2006.
Contro un principio preciso dell’ordinamento europeo e del nostro ordinamento nazionale, il progetto si propone di reintrodurre l’inderogabilità delle tariffe minime (mercoledì scorso, al termine di un dibattito lungo e molto teso, il Senato ha approvato in prima lettura questa norma, che ribalta la regola posta dal decreto Bersani nel 2006); di reintrodurre il divieto della pubblicità commerciale per gli studi professionali; di reintrodurre la necessità (da tempo superata) dell’iscrizione all’albo anche per poter svolgere attività di consulenza stragiudiziale; di ribadire e rafforzare il divieto di costituzione degli studi legali in forma di società per azioni (consentita invece, sia pure con qualche opportuna limitazione, nella maggior parte dei Paesi occidentali); di rafforzare le barriere che devono essere superate dai giovani per accedere alla libera professione; di sfoltire drasticamente gli albi escludendone tutti coloro che esercitano la professione secondo un modello diverso da quello tradizionale (a tempo pieno, in modo esclusivo e continuativo per tutta la vita); di tornare ad attribuire esplicitamente all’Ordine una funzione di sostanziale rappresentanza degli interessi economici e professionali della categoria. Il modello di studio legale a cui si ispira questo progetto di riforma è quello tradizionale dello studio-bottega artigiana, nel quale il professionista opera a tempo pieno in modo continuativo ed esclusivo, in collaborazione con un numero limitato di colleghi e di collaboratori: ogni altra forma di esercizio della professione, secondo questo disegno, deve considerarsi sostanzialmente vietata.

DA CERNOBBIO AL SENATO

Soltanto poche settimane fa il ministro Tremonti proponeva di sancire esplicitamente nella Costituzione il principio per cui “tutto ciò che non è vietato è permesso”. In questo disegno di legge si dice sostanzialmente il contrario: “tutto ciò che non corrisponde al modello tradizionale di esercizio della professione forense è vietato”.
Deve aver provato qualche imbarazzo per questo progetto anche lo stesso ministro della Giustizia Alfano quando, meno di due mesi fa, al seminario Ambrosetti di Cernobbio, di fronte ai protagonisti dell’economia e della finanza globale e alla stampa internazionale, lo ha in parte sconfessato dichiarando pubblicamente che non era intenzione del Governo reintrodurre l’inderogabilità delle tariffe minime. Ma mercoledì scorso in Senato il Governo è tornato a difendere il progetto nella sua interezza, comprese le tariffe minime inderogabili e tutti gli altri divieti mirati a perpetuare, rendendolo esclusivo, il modello tradizionale dello studio legale-bottega artigiana che piace tanto al Consiglio Nazionale Forense
L’imposizione di quel modello tradizionale come unico modo possibile di esercizio della professione da parte degli avvocati italiani, oltretutto, impedisce loro di competere ad armi pari con i colleghi stranieri, all’estero e persino sullo stesso nostro territorio nazionale. Ve lo immaginate uno studio legale italiano che prova a offrire i propri servizi sulla piazza di Londra o di Chicago dovendo rispettare questa legge, quindi non potendo raccogliere nel mercato azionario i capitali per gli investimenti necessari, non potendo di fatto promuovere una class action perché il divieto del patto di quota-lite non lo consente, non potendo neppure informare i potenziali clienti della propria esistenza per via del divieto della pubblicità? Gli studi di Londra e di Chicago, però, sono già venuti da noi, stanno già incominciando a prendersi il meglio del nostro mercato dei servizi legali, senza certo render conto al nostro Consiglio nazionale forense sul come hanno reperito i capitali necessari, quali tariffe applicano ai loro clienti, con quale tipo di contratto ingaggiano i collaboratori e così via.
La verità è che con questo disegno di legge si sta facendo un’’operazione regressiva, che non va nell’’interesse del Paese, ma non va neppure nell’’interesse particolare della stessa avvocatura italiana.

Le nuove norme sulle controversie di lavoro

A seguito del rinvio al Parlamento da parte del Presidente della Repubblica, il 29 settembre 2010 il Senato ha approvato in sesta lettura il Disegno di legge 1167 B–bis, avente a oggetto, tra l’’altro, anche una riforma del codice di procedura civile in materia di processo del lavoro. Tornato alla Camera, esso è stato infine approvato definitivamente, in settima lettura, il 19 ottobre 2010.
È un provvedimento eterogeneo di difficile consultazione, frutto di una complicata stratificazione normativa che dà seguito solo in parte alle indicazioni del Presidente della Repubblica del 31 marzo scorso.
Questa breve nota si propone di mettere in evidenza i punti salienti delle modifiche approvate al Senato rinviando, per il resto, alle osservazioni già svolte a suo tempo, su queste pagine in riferimento al testo legislativo licenziato dal Parlamento in quarta lettura (prima del rinvio alle Camere da parte del Presidente della Repubblica).

VALUTAZIONE DELLE MOTIVAZIONI DEL LICENZIAMENTO

(art. 30 comma 3) – alla Camera è stato modificato il comma 3 dell’’art. 30 rubricato Clausole generali e certificazione del contratto di lavoro. Questa norma, confermata dal Senato, elimina il riferimento alle “fondamentali regole del vivere civile” e all’“’oggettivo interesse dell’’organizzazione”, indicato come parametro legale di valutazione giudiziale delle motivazioni del licenziamento. L’’inciso era stato oggetto di forti critiche: si era infatti osservato che la norma, così formulata, era destinata ad allargare notevolmente la discrezionalità del giudice, consentendogli di decidere la controversia facendosi egli stesso interprete finale “dell’’interesse oggettivo dell’’organizzazione aziendale”.

 ARBITRATO IRRITUALE SECONDO EQUITÀ

(art. 31, comma 5 e comma 7) – è stata confermata la norma approvata alla Camera dei deputati, che impone come condizione di validità del lodo, nell’’arbitrato di equità, il rispetto non soltanto dei principi generali dell’’ordinamento, ma anche “dei principi regolatori della materia, anche derivanti da obblighi comunitari”. Questa disposizione ha l’’effetto di ridurre la discrezionalità dell’’arbitro nel giudizio di equità, perché, oltre ai regolamenti comunitari, anche molte direttive possono considerarsi di immediata applicazione e non derogabili.
Il lodo emanato a conclusione dell’’arbitrato irrituale non è impugnabile, come non lo sono le rinunzie e transazioni stipulate dal lavoratore in sede sindacale, amministrativa o giudiziale, a norma dell’art. 2113, comma 4 c.c.. Il lodo è bensì annullabile dal giudice competente, ma soltanto per i vizi indicati nell’’art. 808 ter c.p.c. in materia di arbitrato irrituale.
Inoltre, è stato eliminato ogni riferimento all’’art. 829, commi quarto e quinto, c.p.c. La norma elimina così un richiamo dubbio a una disposizione applicabile all’’arbitrato rituale.
Va detto che le disposizioni ora indicate, riguardano le ipotesi di risoluzione arbitrale di una controversia già insorta.
Tutte le disposizioni in materia di conciliazione e arbitrato (articoli 410, 411, 412, 412 ter, e 412 quater) si applicano anche alle controversie relative a rapporti di lavoro pubblico. Tuttavia non è stato chiarito, come era stato auspicato dal Presidente della Repubblica, “se e a quali norme si possa derogare senza ledere i principi di buon andamento, trasparenza ed imparzialità dell’’azione amministrativa sanciti dall’’art. 97 della Costituzione”.
Inoltre, al Senato, è stata aggiunta anche l’’applicazione della disciplina del processo verbale di conciliazione (art. 411 c.p.c.) alle controversie nel lavoro pubblico. Come è stato osservato, questa disposizione rischia di prestarsi a indebite strumentalizzazioni, con la conseguenza di minare l’’intero impianto della disciplina del lavoro alle dipendenze della pubblica amministrazione, nonché di risultare in contrasto con le esigenze di contenimento dei costi dell’’attività amministrativa. Grave è, infatti, il rischio che l’’introduzione dell’’arbitrato nelle controversie riguardanti il pubblico impiego consenta malversazioni in materia di inquadramento, retribuzione, pagamento di arretrati e simili.

QUANDO SI SOTTOSCRIVE LA CLAUSOLA COMPROMISSORIA

(art. 30, comma 9) – Radicalmente mutata, rispetto al testo approvato alla Camera, è la disciplina della clausola compromissoria, cioè della pattuizione con cui datore e prestatore di lavoro si accordano per riservare all’’arbitro, e non all’’autorità giudiziaria, eventuali controversie che dovessero insorgere circa l’’attuazione del rapporto contrattuale.
Come è noto, nel corso della precedente lettura alla Camera era stato approvato un emendamento proposto dall’’On. Cesare Damiano (Pd) che, modificando radicalmente la norma relativa alla clausola compromissoria, ne prevedeva la sottoscrizione non al momento della stipulazione del contratto, vale a dire nel momento di maggiore debolezza contrattuale del lavoratore, ma solo dopo l’’insorgenza della controversia. La modifica era finalizzata a garantire la libertà del lavoratore di scegliere tra il ricorso all’’arbitrato e il ricorso alla magistratura ordinaria, andando così nella direzione indicata dal Presidente della Repubblica.
In seguito alle modifiche apportate al Senato, nel testo è cancellata detta garanzia, mentre viene disposto soltanto il divieto di sottoscrizione della clausola compromissoria prima della conclusione del periodo di prova, ove previsto dal contratto, o prima del decorso di trenta giorni dalla data di stipulazione del contratto di lavoro, sia esso a tempo determinato o indeterminato.
La clausola deve essere, a pena di nullità, certificata dalle commissioni di certificazione le quali devono accertare le volontà effettiva delle parti di devolvere le controversie, che dovessero sorgere in futuro, ad arbitri. Questa procedura appare, per un verso, poco efficace ai fini di protezione del lavoratore, considerato che anche dopo il superamento del periodo di prova resta immutata la posizione di debolezza contrattuale in cui egli versa. Per altro verso, essa introduce, come requisito di validità della clausola, un adempimento in costanza del rapporto di lavoro che – secondo le previsioni degli addetti ai lavori – limiterà di fatto fortemente la diffusione della clausola compromissoria.
Su questo punto si può osservare anche una divergenza della scelta operata dal Parlamento rispetto alle indicazioni del Presidente della Repubblica. Nel suo messaggio si legge infatti che “solo il legislatore può e deve stabilire le condizioni perché possa considerarsi ‘effettiva’ la volontà delle parti di ricorrere all’’arbitrato”, mentre la nuova legge demanda interamente il relativo accertamento all’’organo certificatore.
La nuova disposizione accoglie, invece, l’’indicazione del Capo dello Stato nella parte in cui sancisce che la clausola compromissoria non può riguardare le controversie relative alla risoluzione del rapporto di lavoro.

AUTORIZZAZIONE A SOTTOSCRIVERE LA CLAUSOLA COMPROMISSORIA

L’’art. 30 al comma 11, attribuisce ai contratti collettivi il compito di individuare le ipotesi di ricorso all’’arbitrato irrituale. Tuttavia, si prevede che in mancanza di apposita disciplina affidata alla contrattazione collettiva, detto compito spetti al potere politico (al Ministro del lavoro e delle politiche sociali con proprio decreto) trascorsi dodici mesi dalla entrata in vigore della legge ove le parti sociali non abbiano provveduto. Anche su questo punto non sono stati accolti i rilievi del Capo dello Stato, che aveva espresso serie perplessità di fronte a “una così ampia delegificazione”.

LE DECADENZE

Infine, l’’art. 32 al comma 1, nel testo modificato al Senato, sancisce l’’inefficacia dell’’impugnazione del licenziamento se entro i successivi 9 mesi (e non più 6 mesi, come nel testo precedente al messaggio del Capo dello Stato) essa non sia seguita dal deposito del ricorso giudiziale nella cancelleria del tribunale o dalla comunicazione alla controparte della richiesta del tentativo di conciliazione o arbitrato.
In questa seconda ipotesi, qualora la conciliazione o l’’arbitrato richiesti siano stati rifiutati oppure l’’accordo non sia stato raggiunto, il ricorso al giudice deve essere depositato, a pena di decadenza, entro sessanta giorni dal rifiuto o dal mancato accordo.
È fatta comunque salva la possibilità di produrre nuovi documenti formatisi dopo il deposito del ricorso in cancelleria. Questa puntualizzazione appare molto importante, considerata la regola generale, vigente nel processo del lavoro, che vieta la produzione di nuovi documenti dopo il deposito del ricorso introduttivo del giudizio o della memoria di costituzione e risposta della parte convenuta.
Il comma secondo dell’’art. 32 sancisce, inoltre, che le disposizioni in materia di decadenza del lavoratore dalla possibilità di impugnare un atto del datore di lavoro si applichino a tutti i casi di invalidità (mancanza di giusta causa o di giustificato motivo) del licenziamento e non più in caso di inefficacia (difetto della forma scritta) (a queste si devono aggiungere le nuove ipotesi di impugnazione previste dall’’art. 32 comma 3: per es. contratti a termine, trasferimento d’’azienda, somministrazione irregolare, ecc.). Questa disposizione esclude dunque espressamente dalla disciplina delle decadenze i licenziamenti intimati oralmente (dunque inefficaci per mancanza di forma scritta), risolvendo così il problema della decorrenza del termine di decadenza. Le suddette decadenze restano ferme, invece, per le altre ipotesi di licenziamento nullo (per es.: licenziamento discriminatorio).

COLLABORAZIONI COORDINATE E CONTINUATIVE

La disposizione dell’’art. 50, infine,  prevede che in caso di accertamento della natura subordinata di rapporti di collaborazione coordinata e continuativa, anche riconducibili a un “progetto”, il danno possa essere risarcito con una indennità risarcitoria di importo compreso tra 2,5 e 6 mensilità, non soltanto ove entro il 30 settembre 2008 il datore di lavoro abbia offerto al lavoratore la stipulazione di un contratto di lavoro a tempo indeterminato (a norma dell’’art. 1, comma 1202, n. 296), ma anche qualora egli abbia, dopo la data di entrata in vigore della legge (ma non si stabilisce il dies ad quem), ulteriormente offerto la conversione del contratto in corso in un contratto di lavoro a tempo indeterminato ovvero abbia offerto l’’assunzione a tempo indeterminato per mansioni equivalenti a quelle in precedenza svolte. Si tratta di una tipica “norma-fotografia”, volta a risolvere il caso, che era a suo tempo assurto agli onori delle cronache ed è poi rimasto fino a oggi irrisolto, relativo a una serie di controversie circa la qualificazione dei rapporti di lavoro in seno a un grande call center, insorte più di tre anni or sono a seguito di un’’ispezione amministrativa.

Patente di successo

Funzionerà il nuovo Codice della strada? Per capirlo, guardiamo cosa è accaduto con la patente a punti. I numeri della polizia e dell’Istat dicono che dopo la sua introduzione incidenti stradali e vittime sono notevolmente diminuiti. Un risultato confermato dall’analisi econometrica, che permette di escludere l’influenza di altri fattori. E dai dati emerge anche una significativa riduzione nel numero di infrazioni accertate. Cali più consistenti quanto più forte è stato l’inasprimento delle sanzioni.

Più immigrati più crimine? Dipende dalla politica

I risultati di una indagine sul Regno Unito mostrano che la presenza di immigrati non necessariamente si trasforma in un aumento dei tassi di criminalità. Anzi. Se agli stranieri viene lasciata la libertà di entrare e uscire dal paese ospitante, lavorare in regola e scegliere i mercati del lavoro locali in cui inserirsi, non si registrano effetti negativi dal punto di vista della criminalità. Quando la politica migratoria preclude loro queste possibilità, possono finire per scegliere attività criminose per far fronte alle necessità di sostentamento.

Diritto fallimentare: ritorno all’età della pietra

Il diritto fallimentare assolve alla fondamentale funzione di liquidare le imprese inefficienti e salvare quelle in crisi che abbiano ancora un valore. La legge italiana è stata riformata fra il 2005 e il 2007 e comincia adesso a funzionare. Erano forse utili alcuni ritocchi per favorire le ristrutturazioni, e con la manovra economica di maggio il governo ha tentato di farli. Il risultato, però, è difficile da credere, perché produce l’effetto opposto a quello voluto. Dobbiamo sperare che il Parlamento corregga il disastro prodotto.

Legge sulle intercettazioni: il vero obiettivo

Il disegno di legge sulle intercettazioni mina senz’altro il diritto di cronaca. Ma il vero effetto dirompente del provvedimento è rendere meno efficace lo strumento investigativo più utile nelle inchieste giudiziarie. Non vorremmo quindi che nella discussione di questi giorni la giusta reazione dei media spostasse l’attenzione della discussione dal problema cruciale: le intercettazioni sono uno strumento di indagine e reperimento delle prove essenziale per la magistratura. E’ prima di tutto su queste limitazioni che va condotta una battaglia civile.

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