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Categoria: Immigrazione Pagina 32 di 41

QUELLE PAROLE DEL SINDACO SUGLI IMMIGRATI

Lettera aperta al sindaco di Milano, Letizia Moratti. Che qualche giorno fa ha proposto un’equazione tra immigrati clandestini e criminalità. Parole che non sembrano suffragate da analisi e studi approfonditi. Perché i dati di una ricerca della Fondazione Rodolfo Debenedetti su otto comuni del Nord Italia e il primo censimento dei senzatetto a Milano offrono una lettura ben diversa della situazione. A partire dal fatto che quasi tutti gli immigrati passano per una condizione di irregolarità prima di ottenere il permesso di soggiorno.

DUE ANNI DI GOVERNO: IMMIGRAZIONE

Nonostante la crisi e la mancata reiterazione del decreto flussi nel 2009, la presenza straniera è ulteriormente aumentata così come gli occupati stranieri (IV trimestre del 2009), in controtendenza rispetto all’andamento generale dell’occupazione. Si calcola che gli stranieri regolari si aggirino attorno ai 4,5 milioni all’inizio del 2010. L’immigrazione è oramai un fenomeno di massa e la normativa necessita una profonda revisione per quanto riguarda sia i meccanismi di accesso legale al paese di cittadini stranieri, sia la durata dei permessi di soggiorno e le lentissime procedure di rinnovo, sia la concessione della cittadinanza e dei diritti di voto. Il governo ha invece messo in atto provvedimenti di pesante – quanto inutile, quando non dannosa – impronta securitaria. Col “pacchetto sicurezza” è stato introdotto nel nostro ordinamento il reato d’immigrazione clandestina e si sono aggravate le pene per molti reati, quando compiuti da immigrati irregolari; si è resa difficile la vita a milioni di immigrati con la tassa su concessioni e rinnovi dei permessi di soggiorno, con le ulteriori difficoltà frapposte al conseguimento del titolo di lungo-soggiornante, con la trovata del permesso a punti di cui nemmeno i proponenti sanno bene cosa fare. Si sono allungati i tempi di permanenza nei Cie, mentre si rende impossibile il rimpatrio volontario dell’irregolare, che deve essere necessariamente espulso essendo l’irregolarità un reato. Così facendo non si combatte l’irregolarità, che è dovuta all’estensione dell’economia sommersa e del lavoro al nero, alla normativa impervia per l’accesso legale, alla corta durata dei permessi, la cui scadenza converte rapidamente in irregolare chi perde un lavoro.
Nell’autunno del 2009 si è proceduto a una sanatoria di quasi 300mila colf e badanti, persone arrivate in Italia con visti turistici ma spesso da anni impiegate presso le famiglie. Una sanatoria “zoppa”, che non ha voluto regolarizzare altre centinaia di migliaia di irregolari impiegati in lavori non meno utili e necessari.
Va infine segnalata la questione dei respingimenti e riaccompagnamenti di migranti intercettati in mare. Il trattato di amicizia con la Libia – ratificato nel febbraio 2009 – ha di fatto fortemente ridotto gli sbarchi di irregolari sulle coste italiane. Ma la sorte degli irregolari intercettati nelle acque libiche o in quelle internazionali da pattuglie italo-libiche, e respinti in Libia, paese poco incline alla salvaguardia dei diritti umani, è un problema irrisolto che ha suscitato inquietanti critiche sul piano internazionale.
Riforma della normativa per l’accesso legale al paese; controllo delle cause – e non solo dei sintomi – dell’irregolarità; consistenti investimenti nell’integrazione dei migranti; nuova normativa sull’acquisizione della cittadinanza; rigoroso rispetto delle convenzioni internazionali per il diritto d’asilo: questi sono i punti fondamentali per una politica migratoria lungimirante non sequestrata dall’ossessione securitaria.

SE IL COSTO DELL’IMMIGRATO È MARGINALE *

La percezione che gli immigrati rappresentino un onere per i conti pubblici non è suffragata dai dati. Con il sistema di calcolo del costo standard, si arriva a un effetto fiscale zero. Se poi si considera il costo marginale, per coprire l’ammontare di trasferimenti e servizi imputabile alla nuova utenza è sufficiente il gettito fiscale di circa 3 miliardi annuali di imposte dirette e indirette dei lavoratori migranti. Mentre i contributi previdenziali di quegli stessi lavoratori sono un indubbio vantaggio per il bilancio Inps, almeno nel breve periodo. Di immigrazione si discuterà anche al prossimo Festival dell’Economia di Trento.

LA PAURA, LA TENSIONE, LA VIOLENZA

“…Non è facile parlare di Maria
ci son troppe cose che sembrano più importanti…”

Qualche giorno prima di una recente seduta di laurea (triennale), una brava studentessa albanese – di cui ho seguito la tesi come supervisor – si presenta nel mio ufficio visibilmente turbata e mi comunica che non può laurearsi, nonostante abbia consegnato da tempo l’elaborato. Il motivo sembra incredibile, ma purtroppo è vero. Ho qui davanti agli occhi i documenti che lo provano. La studentessa aveva chiesto il rinnovo del permesso di soggiorno il 29 gennaio 2009, cioè più di un anno fa. Ma la solerte questura di Milano, dopo tutto questo tempo, non aveva ancora provveduto a rinnovare il permesso. Non che ci fosse alcun problema: solo banale ritardo. Alla incredula studentessa veniva chiarito che, ove si fosse effettivamente laureata, avrebbe messo in pericolo il rilascio del permesso. La ragione (se di ragione può parlarsi in tanta follia) è che per ottenere il rinnovo di un permesso di soggiorno in qualità di studente l’immigrato deve aver sostenuto (alcuni) esami universitari dell’anno di corso cui è iscritto. Se la studentessa in questione si fosse laureata a febbraio (in corso), avrebbe visto annullato il pacchetto di esami sostenuti nell’ultimo anno del corso di laurea triennale, in quanto ovviamente non più iscritta a quel corso. La ragazza era sì “pre-iscritta” al corso di laurea magistrale (di cui aveva frequentato le lezioni in autunno), ma non poteva aver sostenuto alcun esame, poiché ancora non in possesso del titolo triennale. Per la questura sarebbe dunque apparsa come priva di esami sostenuti relativi al corso di laurea magistrale: niente rinnovo del permesso. Notate che se la ragazza se la fosse presa comoda e fosse stata “indietro” con gli esami e lontana dalla laurea non sarebbe stata danneggiata dall’assurdo ritardo della questura milanese! Per soprammercato, la studentessa in questione ha bisogno di sottoporsi a urgenti cure mediche, ma poiché il suo permesso di soggiorno è scaduto dovrà pagarsele da sé. 
Morale: il combinato disposto di regole apparentemente rigorose e di assurde inadempienze da parte della pubblica amministrazione finiscono per penalizzare proprio quegli immigrati “migliori” che dovremmo cercare di attrarre per accrescere la qualità del capitale umano attivo in Italia. Senza dire della paura, della tensione, della violenza inutilmente inflitte.

“…Se sapessi parlare di Maria
se sapessi davvero capire la sua esistenza
avrei capito esattamente la realtà
la paura, la tensione, la violenza…”

Da "Chiedo scusa se parlo di Maria", di Giorgio Gaber.

INTEGRAZIONE A PUNTI

I ministri dell’Interno e del Welfare annunciano il permesso di soggiorno a punti. Una idea condivisibile perché responsabilizza gli immigrati nella costruzione del percorso di integrazione. Ma non mancano i problemi nella attuale formulazione della proposta. Ad esempio, non è chiaro cosa accade allo straniero che non raggiunga i punteggi richiesti. Perché ancora una volta, le politiche parlano di immigrazione, ma in realtà ricercano il consenso degli elettori italiani, senza troppo curarsi né della fattibilità, né delle conseguenze delle misure annunciate.

IMMIGRAZIONE NON È UGUALE A CRIMINALITÀ

Ha fatto scalpore la dichiarazione del presidente del Consiglio sull’equivalenza tra immigrazione e criminalità. Vero o falso? Berlusconi non ha fornito numeri a supporto della sua affermazione. Dai dati disponibili sul sito dell’Istat si ricava però che pur con un incremento del 500 per cento del numero di permessi di soggiorno dal 1990 a oggi, i tassi di criminalità sono rimasti pressoché invariati. Le statistiche documentano invece che nello stesso periodo la quota degli stranieri sul totale dei detenuti è stata sempre superiore alla loro quota sulla popolazione italiana.

QUANDO L’IMMIGRATO È IMPRENDITORE

La rappresentazione pubblica dell’immigrazioneè generalmente dominata da una percezione negativa: illegalità, irregolarità, dissonanza culturale, chiusura comunitaria sono i temi più discussi. Sappiamo come queste visioni incidano pure sulla scena politica.
 
I NUMERI DELLA IMPRENDITORIA IMMIGRATA
 
Ci sono però anche altri aspetti dei processi migratori che cominciano ad attrarre attenzione e contribuiscono a disegnare un profilo più articolato della popolazione straniera e del suo rapporto con l’economia e la società dei paesi riceventi. Uno di questi è l’ingresso nel lavoro autonomo, un fenomeno in crescita in tutti i paesi occidentali. In alcuni di essi, soprattutto nell’area anglosassone, il tasso di lavoro indipendente degli immigrati ha superato quello della popolazione autoctona, in altri si sta avvicinando. Anche in Italia, malgrado la severa recessione in corso, sono sempre più numerosi gli immigrati che prendono la strada dell’auto-impiego e della micro-imprenditoria. Secondo l’ultimo Dossier immigrazione di Caritas/Migrantes, si tratta di 187.466 titolari di attività (maggio 2009), disposti in una graduatoria che vede al primo posto i marocchini (30mila), seguiti da rumeni (28mila), cinesi (25mila), albanesi (20mila). (1) 
Malgrado la crisi, il fenomeno è cresciuto del 13,5 per cento in un anno, che seguiva un incremento del 16,7 per cento nell’anno precedente (2007-2008). Quanto a distribuzione territoriale, si verifica una concentrazione nelle regioni più sviluppate, con la Lombardia al vertice (circa 44mila ditte), seguita da Emilia-Romagna (22.400), Toscana (22mila), Piemonte (21.300), Lazio e Veneto (circa 20mila in entrambi i casi).
 
TRANSNAZIONALISMO IMPRENDITORIALE
 
Va precisato che gli immigrati intraprendono soprattutto in ambiti con basse barriere all’ingresso e ridotta necessità di investimenti: i due settori dominanti sono le costruzioni (39,4 per cento delle ditte con titolare nato all’estero) e il commercio (34,1 per cento). Non mancano dunque casi di auto-impiego di rifugio, come alternativa alla disoccupazione, né forme di para-imprese, dall’autonomia meramente formale. Anche in questi settori, tuttavia, gli immigrati alimentano il ricambio del fattore imprenditoriale, prendendo il posto degli italiani che lasciano. Nel caso del commercio, contribuiscono alla persistente vitalità dei mercati rionali, delle panetterie artigianali, dei chioschi di fiori, delle pizzerie e di varie forme di street food. A partire dal settore alimentare, tra ristoranti, kebab, piccoli negozi specializzati, oltre che nella vendita di prodotti artigianali più o meno originali, gli operatori economici provenienti all’immigrazione sono protagonisti di un ampliamento dell’offerta commerciale che rende più cosmopolite e culturalmente “meticce” le nostre città. Sotto questo profilo, gli immigrati rinverdiscono antiche tradizioni di minoranze intermediarie e commerci transfrontalieri, che hanno visto nei secoli molte città contraddistinguersi come crocevia di scambi e intrecci culturali.
A queste esperienze è stata dedicata una ricerca, recentemente pubblicata, che ha indagato in modo specifico le attività economiche degli immigrati in cui si sviluppano rapporti transnazionali, materiali oppure simbolici. (2) Troviamo qui in primo luogo le attività che comportano uno spostamento fisico frequente attraverso i confini, con viaggi ripetuti tra madrepatria e luoghi di insediamento. Si può parlare in questo caso di transnazionalismo circolatorio, esemplificato in modo particolare dalle figure dei corrieri che, formalmente o informalmente, collegano i migranti con familiari e parenti lasciati in patria: in primo luogo, sulle rotte terrestri verso l’Europa dell’Est. Le loro imprese servono soprattutto i bisogni di famiglie e comunità separate dall’emigrazione, che lottano per rimanere legate attraverso lo scambio di doni e l’invio di rimesse
Una seconda forma di transnazionalismo imprenditoriale consiste nelle attività economiche che non implicano uno spostamento fisico degli operatori, ma fanno viaggiare denaro o messaggi. Si tratta di servizi come i phone center o gli sportelli di money transfer. Si può parlare in questo caso di transnazionalismo connettivo: è transnazionale il servizio che rendono, dissociato dalla mobilità geografica degli attori.
In terzo luogo, l’attività economica transnazionale può passare attraverso le merci comprate e vendute. Siamo allora in presenza di un transnazionalismo mercantile. Di nuovo, non è strettamente necessario uno spostamento fisico degli operatori per dare forma a questi commerci, mentre quasi sempre, affinché la dimensione culturale dello scambio acquisti autenticità, è richiesto che l’operatore provenga dai luoghi da cui importa le merci. I legami transnazionali consentono di realizzare in modo efficiente e vantaggioso le transazioni, che riguardano sia merci ricercate dai consumatori italiani attratti dall’esotico, sia prodotti richiesti dagli immigrati per sentirsi meno lontani da casa, per riprodurre sapori, profumi, usanze dei luoghi di origine, attivando quello che è stato definito “nostalgic trade”.
Possiamo infine individuare un transnazionalismo simbolico, che non importa merci, o lo fa soltanto in modo accessorio, al fine di ricostruire atmosfere, ambienti, significati. Offre un repertorio di consumi culturali e di rappresentazioni di identità nazionali, etniche, religiose. Forma e anima luoghi di incontro e di aggregazione, specialmente nel settore del loisir (per esempio, locali e scuole di ballo latino-americano; centri di meditazione yoga; bagni turchi, eccetera), prestandosi anche all’ibridazione e all’imitazione. In tal modo, gli scambi transnazionali si incontrano con le domande dei consumatori post-moderni, contribuendo a forgiare nuove pratiche sociali, nuove modalità di identificazione e nuovi sincretismi culturali.
 
(1) D. Erminio, Immigrati e imprenditoria, in Caritas-Migrantes, Immigrazione. Dossier statistico 2009, Roma, Idos ed.
(2) M. Ambrosini (a cura di), Intraprendere tra due mondi, Bologna, Il mulino.

L’ISTRUZIONE FA LA DIFFERENZA

Il tetto al numero di alunni stranieri per classe annunciato dal ministro Gelmini risponde anche al timore che “troppi” immigrati possano pregiudicare l’apprendimento degli italiani. Ma è una preoccupazione confermata dai dati? Utilizzando quelli delle indagini Pisa, si vede che il fattore cruciale non è la quantità, ma la qualità: nei paesi che incentivano l’ingresso di immigrati relativamente istruiti un eventuale incremento della percentuale di studenti stranieri nelle classi finisce per arricchire il contesto formativo e favorire l’apprendimento dei nativi.

LA RISPOSTA AI COMMENTI

Ringrazio dei commenti, anche dissenzienti, che mostrano quanto il tema sia sentito.
Osservo in generale che il tema dell’immigrazione mette in moto emozioni e sentimenti, che poi cercano delle conferme razionali in dati che spesso sono parziali, interpretati male o decisamente sbagliati.
C’è per esempio chi sostiene che gli altri paesi sono più restrittivi di noi sulla cittadinanza. Qui i dati sono oggettivi: l’Italia, insieme alla Grecia, ha la legislazione più restrittiva dell’Unione Europea, ma la Grecia la sta modificando nel senso dell’apertura. In Francia, Regno Unito, Olanda, come negli USA, bastano cinque anni di residenza. La Germania ha riformato nel ’99 in senso liberalizzante. E’ vero che si tende a dare più importanza all’accertamento di conoscenze linguistiche e di cultura civica (cosa su cui sono d’accordo), ma una democrazia non può discriminare né su basi religiose, né per altri motivi di opinione. E avere una popolazione numerosa di non cittadini che risiedono stabilmente, lavorano e pagano le tasse, è dannoso per il funzionamento della democrazia stessa. Sono queste chiusure che preparano un futuro di tensioni e di conflitto. Gli immigrati tenuti ai margini e sfruttati, non ricevono certo un incoraggiamento  a integrarsi lealmente nella nostra società. Un giorno potrebbero ribellarsi, come a Rosarno.
Citerei in proposito  il card. Martini: “E’ difficile sentirsi figli nella casa dei doveri se si è orfani nella casa dei diritti”.
Se paesi come  la Francia e la Gran Bretagna oggi hanno apparentemente una popolazione immigrata non molto superiore alla nostra, è perché molti stranieri sono transitati nella categoria dei cittadini a pieno titolo. In altri casi, come in Germania, si ricorre molto al lavoro stagionale, che non rientra nelle statistiche sull’immigrazione. Anche il Giappone ha numerosi immigrati, ma fatica ad ammetterlo e ad aprire le porte della cittadinanza. Se vogliamo andare su quella strada, ci sono i paesi del Golfo che sono ancora  più brutali. Ma quelle non sono democrazie.  Anch’io sono d’accordo invece, e l’ho scritto, nel premiare i comportamenti meritevoli, non il solo dato dell’anzianità di soggiorno: è un’altra tendenza che si profila a livello europeo.
Le nostre frontiere sono troppo aperte? Per chiuderle di più, dovremmo per esempio bloccare gli ingressi per turismo dall’Est Europa, o i pellegrinaggi a Roma dal Santo Padre. Che ne pensano gli operatori del settore? Segnalo che all’estero gli ingressi per turismo sono anche più incoraggiati che da noi, e già si compete per il turismo indiano, cinese, brasiliano… Se poi gli immigrati entrati con visto turismo a volte si fermano, in genere è perché qualcuno offre loro un lavoro. La maggior parte dei lavoratori immigrati oggi regolari sono stati irregolari per un certo periodo. Evidentemente qualcuno ha dato loro da lavorare.
Strano poi che i miei arcigni contraddittori non abbiano una parola di apertura neppure sulle seconde generazioni, nate e cresciute qui: che ne facciamo? Non sono ormai italiane di fatto?
Altri obiettano sul mercato del lavoro, che non avrebbe più bisogno oggi di immigrati. Propongo ai lettori, soprattutto ai dissenzienti,  di fare una piccola indagine nella loro rete parentale, nei condomini dove abitano, nel vicinato, ponendo questa domanda: chi assiste gli anziani? Scopriremmo, credo, che di immigrati c’è ancora e ci sarà bisogno. Tra l’altro il bisogno assistenziale in genere esplode all’improvviso e non può aspettare i decreti-flussi, che da due anni non escono (ma si è fatta appunto una sanatoria, perché molte migliaia di italiani hanno dato lavoro a colf e assistenti domiciliari immigrate: anche questo è un dato incontrovertibile).  Inoltre, trattandosi di un lavoro logorante, non si regge di solito più di qualche anno: servono sempre nuove forze. Potrei aggiungere che nelle casse edili  di Milano, Roma e altre città, la metà degli iscritti è immigrata. E che dire delle cucine di ristoranti e pizzerie? Non si vedono in giro, in realtà, molti italiani pronti a riprendersi questi lavori.
Che succede all’estero? Secondo un’indagine dell’ICMPD di Vienna, in base ad una stima prudenziale in Europa sono stati sanati da 5 a 6 milioni di immigrati negli ultimi dieci anni. Siamo quindi in buona compagnia. Se il fenomeno dell’irregolarità  è ultimamente diminuito, lo si deve, oltre alle sanatorie, all’apertura dell’UE verso Est, che ha trasformato rumeni, polacchi e bulgari in concittadini europei. Ricorderei anche che il nostro mercato del lavoro, come quello spagnolo, greco, portoghese, richiede molta manodopera a bassa qualificazione e non ha ancora alle spalle decenni di immigrazione.
L’argomento più inquietante mi pare comunque quello demografico, ultimo cavallo di battaglia di alcune forze politiche. Il problema non è tanto il numero di abitanti dell’Italia, ma l’equilibrio tra persone attive, che lavorano e pagano imposte e contributi, e  persone a carico. Gli immigrati ci stanno dando una mano a salvaguardare un certo equilibrio.  Per scendere a 40 milioni di abitanti dovremmo passare attraverso anni di spaventoso deficit previdenziale.

MA L’ITALIA È GIÀ MULTIETNICA

L’Italia non sta diventando multietnica perché qualche scriteriato ha aperto le frontiere. Il cambiamento avviene per dinamiche ed esigenze che hanno origine all’interno della nostra società, e in modo specifico nel mercato del lavoro. Discriminare o ritardare l’accesso alla cittadinanza rischia di portare acqua proprio al mulino di quel fondamentalismo che si vorrebbe contrastare. Mentre la legge che definisce reato la permanenza nel nostro territorio senza permesso di soggiorno è inapplicabile per mancanza di strutture e mezzi adeguati, prima ancora che anticostituzionale.

 

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