Il 17 ottobre 2006 la popolazione degli Usa tocca quota 300 milioni. Un risultato dovuto all’azione congiunta di una natalità elevata e di una forte ripresa delle immigrazioni, che vanno a occupare gradini diversi della scala sociale. In Europa la situazione non è omogenea. Francia e paesi nordici hanno risposto meglio all’esigenza di coniugare vita lavorativa e familiare e hanno una tendenza demografica favorevole. Anche in Italia la recente crescita della fecondità si è verificata nelle aree dove più alti sono i flussi migratori e il numero di asili nido.
Categoria: Immigrazione Pagina 38 di 41
Ampliando le quote, liberalizzando i flussi di lavoratori dai nuovi stati membri e non chiedendo la restituzione del bonus bebè, il governo ha voluto lanciare tre messaggi importanti a italiani, immigrati già presenti nel nostro paese e lavoratori dei nuovi Stati membri. Dicono basta all’ipocrisia delle quote irrealistiche e alle discriminazioni nell’accesso alle prestazioni di welfare, aprono alla manodopera qualificata. Occorrerà ora rivedere in modo organico la normativa, possibilmente cercando di guidare un processo di armonizzazione delle politiche dell’immigrazione a livello europeo.
La scelta del Governo di emanare un secondo decreto-flussi per il 2006 permette di accogliere le domande giacenti. E’ una soluzione corretta in attesa di una riforma complessiva della materia. Se le domande possono essere presentate durante tutto il corso dell’anno, e sono considerate pendenti una volta raggiunta la quota fissata, si ottengono molti vantaggi: dalla riduzione del periodo di soggiorno forzatamente illegale allo svuotamento del problema della repressione dell’immigrazione illegale, che dovrebbe riguardare i criminali, più che colf e badanti.
Dopo l’11 settembre, il visto di studio o lavoro per gli Stati Uniti si ottiene solo attraverso una procedura complessa e costosa. Si cerca di evitare che i terroristi entrino nel paese camuffati da studenti, lavoratori o accademici in conferenza? O che il “legal alien” si trasformi poi in un immigrato clandestino? Qualunque sia la sua motivazione, è una politica poco efficace e inutilmente vessatoria. Anche perché chi ha un passaporto digitale e un biglietto aereo di andata e ritorno può agevolmente entrare negli Usa per sei settimane, senza alcun visto.
La maggior parte dei nuovi ingressi autorizzati interessa lavoratrici occupate nel settore domestico-assistenziale. E’ un chiaro segno dellaffanno crescente del nostro sistema di welfare. Ma anche di una più diffusa adesione alla “cultura della domiciliarità”. E di una tendenza alla familiarizzazione del rapporto di lavoro dell’assistente domiciliare, con tutte le ambiguità che possono derivarne. Nel campo dell’assistenza, la soluzione auspicabile è il superamento della privatizzazione del rapporto di lavoro tra famiglie e “badanti”.
La Legge Bossi-Fini va rivista. E in fretta perché altri paesi stanno ripensando le loro politiche di accoglienza, cercando di attirare gli immigrati più qualificati. Norme troppo restrittive incentivano solo la clandestinità, che rappresenta un costo per tutti: i migranti, i paesi di origine e quelli di destinazione. Uno dei suoi effetti è infatti quello di spingere i lavoratori più istruiti a tornare per primi nel paese di origine. La nostra classe politica sembra non aver ancora capito che l’immigrazione, quando governata, è una risorsa fondamentale.
Il primo voto degli italiani residenti all’estero è stato decisivo nel determinare il risultato finale delle elezioni politiche 2006. Ma perché dare pieno peso politico a chi contribuisce al prodotto nazionale lordo e non al prodotto interno lordo, come gli immigrati che vivono in Italia? Tre le ipotesi: dare riconoscimento alle rimesse, al livello e alla qualità del capitale umano degli emigrati o sottolineare il valore delle esportazioni e della bilancia turistica. Solo la terza è plausibile. E facile da misurare.
Potremmo definirla la “Grande gara di resistenza alle file per immigrati extracomunitari”. E’ invece la procedura che regola i flussi annuali di ingresso in Italia per motivi di lavoro di cittadini stranieri. La prima manche è la corsa per accaparrarsi i kit di domanda, seguita poi da quella per consegnare i documenti. Perché il rilascio del permesso seguirà l’ordine di arrivo delle richieste, fino a esaurimento. Il tutto “cronometrato” dagli uffici postali italiani. Una procedura incivile e insensata. Meglio sarebbe fare come gli americani, ricorrere a una lotteria.
Il sindacato italiano può giocare un ruolo sociale importante nel dare voce agli immigrati: non avranno così bisogno di incendiare le nostre periferie per fare sentire le loro ragioni. Ma non basta proporre corsi di formazione. Bisogna riconciliare le esigenze degli immigrati con quelle della base tradizionale del sindacato su tre temi fondamentali: le politiche dell’immigrazione, la protezione di chi ha carriere lavorative discontinue e la liberalizzazione dei servizi.
Una parte rilevante dell’industria italiana cerca di far fronte alla concorrenza internazionale con strategie di contenimento dei costi. E impiega manodopera immigrata per tenere in vita produzioni low-skilled labor intensive che altrimenti sarebbero delocalizzate. Una strada rischiosa per la specializzazione produttiva del nostro paese e per le prospettive future degli immigrati. Servono invece investimenti in capitale umano e innovazione, oltre a politiche attive dell’immigrazione. Soprattutto, però, si deve liberalizzare il settore dei servizi.