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ITALY TODAY E L’ELECTION DAY

Le critiche e il confronto sono il sale di ogni dibattito. Da una settimana lavoce.info è però oggetto non di serene critiche ma di ripetuti e livorosi attacchi da parte del quotidiano Italia Oggi che hanno l’obiettivo di minare la nostra credibilità e onestà intellettuale. Ci chiediamo che cosa abbia originato tanta acredine. Speriamo che il motivo non sia da ricercare nella coincidenza con la recente pubblicazione su questo sito di un articolo favorevole alla nuova disciplina Consob che consente la pubblicità obbligatoria delle società quotate unicamente su internet, sottraendola ai quotidiani (segnatamente quelli economici, come i giornali del gruppo con cui Italia Oggi è imparentato). I pretesti di questi attacchi sono vari, ma si sono concentrati particolarmente sulla contestazione delle nostre stime sui possibili risparmi dell’accorpamento di elezioni europee e referendum in un election day e crediamo opportuno ribadirne la validità ai nostri lettori.
In un primo articolo Italia Oggi sostiene che i costi per il mancato election day si limiterebbero a 100 milioni, senza spiegarne il meccanismo di calcolo, contro i 200 milioni di euro di costi diretti e 200 di costi indiretti calcolati da lavoce.info. In un secondo articolo, propone una cifra ancora più bassa, ma su fonti non ben documentate, in quanto non si considerano alcuni costi (trasporto schede, straordinari del personale dei ministeri coinvolti, noleggio strutture di voti, cancelleria per le sezioni) e sottostimano fortemente i costi relativi alle forze dell’ordine. I nostri dati si basano invece sui dati storici, relativi al Decreto del Ministero del Tesoro (DMT 91517/2006) per il referendum del 2006. Del resto, per quanto riguarda i costi diretti, le nostre stime sono state sostanzialmente confermate dal ministro Maroni, che ha parlato di 173 milioni di euro, una cifra molto più vicina alla nostra stima che a quella di Italia Oggi. Nei costi indiretti abbiamo incluso il valore del tempo perso dei cittadini, più altri costi relativi alla custodia dei figli e alla perdita della giornata lavorativa di scrutatori e presidenti di seggio, tralasciando voci di costo delle famiglie quali i rimborsi per coloro che studiano fuori sede, il mancato utilizzo delle strutture scolastiche per altri fini, perché di più difficile quantificazione. Italia Oggi critica in particolare queste stime in quanto  non vi sarebbe alcun costo nel tempo perso dai cittadini per recarsi al seggio una volta di più. Questo è sbagliato. La situazione dei referendum in due giorni diversi è per certi aspetti simile a quella di una famiglia che va al supermercato durante il week-end. Di solito si preferisce concentrare gli acquisti in una sola volta anziché spezzarli in due visite al supermercato. Perché? Il fatto è che il tempo passato a fare la spesa ha un costo, non monetario, che gli economisti definiscono costo opportunità. Il tempo è una risorsa scarsa per tutti. Quindi, si può discutere sul modo con cui valutarlo, ma negare che il tempo perso abbia un costo è un non senso. Non a caso, tutte le analisi costi-benefici includono una stima del valore del tempo.
Al di là delle cifre, la polemica pretestuosa tralascia il punto fondamentale: risparmiare è giusto? In un periodo di crisi economica, con i conti dello stato fuori controllo e con l’emergenza terremoto è immorale buttare via anche un solo milione di euro.

SE LO STATO NON VUOLE INCASSARE IL DIVIDENDO DIGITALE

L’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni ha approvato i criteri per la completa digitalizzazione delle reti televisive nazionali. Ma in Italia non esiste una politica coerente sulle frequenze. E mentre all’estero i governi mettono all’asta senza limitazioni quelle liberate dalla tecnologia digitale, da noi la competizione riguarda solo tre canali e sarà riservata agli operatori televisivi. Di sicuro, la delibera danneggia lo sviluppo economico e inficia il pluralismo. Perché Rai e Mediaset consolidano ulteriormente le loro posizioni.

LA RISPOSTA AI COMMENTI

Come diversi lettori hanno scritto, la diatriba sulla prevedibilità via radon o meno è relativamente poco importante. Il terremoto a L’Aquila era previsto: non da una settimana ma da anni. La domanda quindi è, perché case ed edifici pubblici, anche recenti, sono crollati?
Altri lettori si interrogano sulla questione della previsione in tempo (quasi) reale. Rispondiamo tornando a sottolineare un punto che ci sembra particolarmente importante: il radon come possibile precursore di eventi sismici si studia da più di trent’anni, e non solo in Italia ma in tutto il mondo. Dai risultati di anni di ricerche si evince che un picco nelle emissioni di radon non è un valido precursore di un terremoto: l’unico "modello" a disposizione della comunità scientifica è questo. Un lettore scrive che il radon "poteva essere usato almeno come segnale, se falso tanto meglio": ma, come fanno notare altri lettori, anche una evacuazione ha dei costi: enormi costi economici e anche un rischio in termini di vite umane. Se le probabilità che un segnale geofisico osservato sia in effetti un fenomeno precursore di un grande evento sismico è, come nel caso del radon, molto bassa, è del tutto logico non ordinare un’evacuazione. L’alternativa, difficilmente sostenibile, sarebbero evacuazioni continue. Scegliere la "tolleranza zero" rispetto ai rischi naturali è una filosofia condivisibile: ma allora dovremmo semplicemente abbandonare tutte le città costruite in zone ad elevato rischio sismico (Udine, Messina, Reggio Calabria,…) e trasferire la popolazione altrove in via definitiva.
Molti suggeriscono che il ricercatore Giuliani possa aver scoperto qualcosa a cui la comunità scientifica non è ancora arrivata. Dal momento che Giuliani lavorava nell’ombra, senza pubblicare (perché?) i suoi risultati, varrà la pena verificare. Per ora siamo costretti a essere scettici: per esempio, stando a un articolo pubblicato online da La Repubblica proprio il 6 aprile, "nel 2001 stavamo osservando il misuratore di particelle cosmiche presso l’Istituto," dice Giuliani, "quando, in corrispondenza del terremoto in Turchia, rilevammo una quantità straordinaria, rispetto al solito, di radon." Ora, un modello scientifico che mette in relazione un fenomeno locale come l’emissione di radon con eventi a mille chilometri di distanza è, allo stato attuale delle conoscenze, difficilmente difendibile. Anche perché, come detto, stiamo parlando di fenomeni che sono già ampiamente conosciuti e studiati. Le emissioni di radon, in particolare, vengono monitorate un po’ dappertutto perché, come è stato ricordato da un lettore, chi vive in una zona soggetta a questo fenomeno rischia di trovarsi la casa radioattiva. Un’altra ragione di scetticismo è la scelta da parte di Giuliani di non sottomettere i suoi risultati alla procedura del peer-review, necessaria per la pubblicazione su riviste scientifiche.
Il radon continuerà ad essere studiato, e gli autori si augurano che questa ricerca porti buoni frutti. Continuare a discuterne ora, però, rischia di far dimenticare le previsioni che esistevano già, quelle delle mappe che collocano i comuni colpiti in prima e seconda zona nella classificazione sismica del territorio: le zone a più alto rischio. Bisognerà capire se e perché queste previsioni sono state ignorate. Concludiamo ripetendo il commento di un altro lettore, che parafrasando bene senso e motivazione del nostro articolo incoraggia ad "attivarsi ed esigere, come cittadini, investimenti in reti di sorveglianza, infrastrutture e personale tecnico specializzato per monitorare il paese. Ma dedicare anche cura ed attenzione a che venga definita e soprattutto applicata la normativa tecnica che consente a tanti di vivere e sopravvivere a terremoti ben più devastanti di quello pur terribile dell’Abruzzo. È ciò che possiamo fare in concreto. Ed è ciò che finora non è stato fatto."

QUANDO L’IMPRESA QUOTATA INFORMA SUL WEB

L’informazione finanziaria che le società quotate hanno l’obbligo di pubblicare ora può essere diffusa via internet anziché attraverso i quotidiani. Così l’Italia si allinea tardivamente alle regole degli altri paesi europei. Un vantaggio economico per le imprese, ma la perdita di una fonte di reddito per gli editori. Che protestano in nome della trasparenza tradita. Perchè, secondo loro, i risparmiatori non avrebbero abbastanza confidenza con la rete.

IL TERREMOTO TRA VERA PREVENZIONE E FALSA FATALITA’

I terremoti si possono prevedere. Non alla maniera di Giuliani, però. Si capiscono studiando i movimenti delle placche tettoniche, prendendo in esame una zona che tende a fratturarsi e esaminando la frequenza degli eventi in quella zona. Perché nei terremoti c’è una certa regolarità, un ritmo. Ma la previsione non serve a ordinare un’evacuazione, serve a sapere dove le case vanno costruite secondo criteri antisismici. E il problema più grave dell’Italia è proprio l’inadeguatezza delle infrastrutture anche di fronte a un sisma di dimensioni relativamente modeste.

LA RISPOSTA AI COMMENTI

La trasparenza funziona meglio se accompagnata da meccanismi di premio che garantiscano un buon uso dell’informazione, sia da parte delle organizzazioni che raccolgono e pubblicano informazioni sul proprio operato, sia da parte dei cittadini. E’ chiaro però che, senza informazioni che permettano di misurare e valutare ad esempio la qualità dei servizi pubblici, è impossibile pensare ad incentivi efficaci, meritocrazia, e meccanismi di premio. E questa riflessione è valida sia in regimi di trasparenza che di opacità.  “You can manage what you measure” e la trasparenza obbliga chi è sottoposto alla lente di ingrandimento a raccogliere dati ed informazioni che possono mettere in luce inefficienze organizzative ed incoerenza fra politiche pubbliche ed obiettivi. La raccolta di informazioni costringe a riflettere su problemi strategici di rilievo che vengono spesso accantonati a favore della gestione del quotidiano.
Condivisibile è anche la preoccupazione di sottoporre coloro che gestiscono la cosa pubblica a regimi di trasparenza particolarmente stringenti e costantemente aggiornati, non solo per verificare ex ante che vi siano le caratteristiche adatte agli incarichi pubblici, ma anche affinché al momento del voto l’accountability funzioni davvero.
Come riportare i prezzi dei prodotti al fine di dare ai consumatori la possibilità di confrontare i scegliere è un buon esempio per chiarire in quale formato l’informazione sia realmente utile ed utilizzabile. Spesso è proprio su questi dettagli che si combattono le battaglie più accese fra regolatori e regolati.

MUSICAL CHAIRS NELL’INFORMAZIONE

Il valzer di nomine che ha portato De Bortoli al Corriere della Sera e Riotta al Sole-24ore trae anzitutto origine dagli scarsi risultati della carta stampata. L’esito del giro di poltrone appare politicamente equilibrato. Ma non è finito: è ora vuota la casella della direzione del TG1. Un incarico di grande peso se si considera che l’insieme dei principali giornali indipendenti raggiunge un pubblico comparabile con solo uno dei telegiornali principali. E che il capo del governo ha sempre fatto del controllo delle televisioni, un suo punto di forza.

MA CHI CI GUADAGNA DA UNA RAI SENZA SPOT?

Il ministro Bondi ha avanzato l’ipotesi di una Rai senza pubblicità, sull’onda di una recente riforma francese. Ma in Francia ci si proponeva almeno di redistribuire le risorse pubblicitarie tolte al servizio pubblico a canali privati, radio, stampa e nuovi media. Un progetto fallito per l’insorgere della crisi. E che ora si trasforma in un impoverimento di tutti i media, pubblici e privati. In Italia, le perdite per la tv pubblica sarebbero ben più consistenti e avrebbero conseguenze ancora più negative sull’intero sistema televisivo nazionale.

CORVI E SPAVENTAPASSERI

Un mese fa il Ministro dello Sviluppo Economico, Claudio Scajola, aveva dato dei corvi agli industriali per avere previsto un Pil in calo del 2,5 per cento nel 2009. Oggi le stime più aggiornate del Centro Studi Confindustria sono di un meno 3,5 per cento.Il Ministro del Welfare Sacconi le ha accolte con un “Qualcuno ama il peggio”. Poche ore dopo il Ministro dell’Economia Tremonti, dopo aver pronosticato che ormai “l’Armageddon finanziario è alle spalle”, dichiara “mi stupisce che qualcuno faccia ancora delle previsioni”. Passano due giorni e alla riunione del G8 lavoro, l’Ocse presenta le sue stime sulla disoccupazione, prevista a due cifre entro il 2010 per i paesi dell’organizzazione. Il commento di Sacconi è leggermente più cauto, ma ugualmente caustico: “Non aiuta il continuo prodursi di previsioni in sequenza l’una con l’altra…spesso le stesse organizzazioni che le fanno sono costrette a correggerle”.
È certamente vero che fare previsioni è difficile, e che ci sono stati e ci saranno errori. Ma qual è il punto che vogliono fare Sacconi, Scajola e Tremonti? Che è meglio non fornire informazioni “disfattiste” al pubblico? Oppure che loro hanno visto nel futuro che la crisi è finita, mentre tutti gli altri sono degli incapaci?
È vero che ci sono dei segnali che inducono a un cauto ottimismo, tra cui alcuni dati dal settore dell’edilizia statunitense. Ma altri dati, dall’andamento della produzione industriale in tutto il mondo ai sentimenti di imprese e consumatori in alcuni paesi non danno alcun segnale di ripresa. E molti dirigenti di impresa in vari settori (quindi non gli odiati economisti con la testa fra le nuvole) hanno detto chiaramente che non vedono spiragli a breve. Sul settore finanziario, infine, c’è un’enorme incertezza: gli stessi CEO di Citibank e Bank of America, dopo aver annunciato profitti record nei primi due mesi del 2009 (annunci che avevano dato il via al recente rally azionario), hanno dovuto correggere il tiro su marzo; ed il mercato sa benissimo che c’è ancora una concreta possibilità che qualche banca non possa sopravvivere senza una nazionalizzazione di fatto. La disoccupazione, infine, è chiaramente in aumento ovunque, e per molti il processo è solo iniziato.
Può darsi benissimo che Sacconi, Scajola e Tremonti abbiano ragione, e che OCSE, Fondo Monetario, e organizzazioni nazionali si sbaglino alla grande nel predire forti cali del Pil in tutto il mondo. Ma ci piacerebbe sapere perché. La strategia di comunicazione del governo sembra invece essere quella di stravolgere ogni teoria economica comunemente accettata, per cui un macchinoso sostegno temporaneo di 2 miliardi all’acquisto di elettrodomestici dovrebbe portare a un aumento dei consumi di 15 miliardi, o 1,3 miliardi per il fondo di garanzia delle piccole imprese potrebbero generare nuovi prestiti bancari per 70 miliardi. Con dei moltiplicatori così enormi, risolvere la crisi mondiale sarebbe uno scherzo da ragazzi.  E certo non aiuta che i media accettino queste cifre senza un minimo di vaglio critico.

L’OPERA DA TRE SOLDI. PUBBLICI?

Per aumentare l’accesso del pubblico alla cultura serve il finanziamento pubblico a teatri ed enti lirici oppure è meglio incentivare la presenza di produttori e donatori privati? L’esperienza degli Stati Uniti dimostra che di per sé una maggiore partecipazione di risorse private non risolve il problema. Così come sono inefficaci le politiche incentrate su sussidi all’offerta per mantenere basso il prezzo dei biglietti. Ma è comunque possibile aumentare l’efficacia del sistema italiano. Guardando per esempio a soluzioni olandesi.

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