Nella vicenda Alitalia-Malpensa la politica nostrana sta offrendo il peggio di sé. Il boccone elettorale è evidentemente troppo ghiotto per resistere agli impulsi demagogici. Così, da una parte, si invocano fantomatiche cordate nazionali a sostegno dell’italianità , dimenticandosi che anche se si trovassero le risorse finanziarie si dovrebbe poi essere in grado di far volare gli aerei. Dall’altra, si moltiplicano gli appelli per la difesa dell’indifendibile, dalle rotte ai livelli occupazionali, dimenticandosi che proprio questa difesa a oltranza è stata la responsabile principale della crisi attuale. Ogni parte in gioco, dai sindacati ai politici nazionali e locali, di maggioranza e di opposizione, appare impegnata a criticare le altre nella speranza di far dimenticare le proprie responsabilità . Nell’incertezza, i corsi azionari assomigliano a montagne russe e la compagnia di bandiera è sempre più vicina al punto di non ritorno. La confusione è tale da far perdere di vista l’essenziale. Per esempio, nel caso dell’offerta Air France quello che appare più indigeribile non è il prezzo offerto (quanto vale una compagnia fallita?) né gli esuberi di personale, oltretutto limitati e facilmente riassorbibili. Piuttosto, è la pretesa della compagnia d’oltre alpe, per difendere i propri hub di Amsterdam e Parigi, di avere la garanzia da parte del governo italiano che da Malpensa non partiranno più le rotte internazionali extracomunitarie precedentemente servite da Alitalia e ora chiuse, una richiesta che secondo le anticipazioni di stampa l’Enac avrebbe già garantito. Se è vero, questo sì che appare lesivo dell’unico interesse nazionale reale, quello dei consumatori italiani, che avranno pure il diritto di volare da dove gli pare e con chi gli pare. Se una compagnia area d’oltreoceano, poniamo asiatica, vuol provare a servire quelle rotte da Malpensa, perché impedirglielo? E’ possibile che il tentativo si riveli fallimentare, come fallimentare era stato quello di Alitalia. Ma sta al mercato stabilirlo e non al governo per conto di Air France. E’ vero che Air France ha posto come irrinunciabile questa condizione, e che comunque, una eventuale risposta negativa da parte del governo ridurrebbe probabilmente ulteriormente il prezzo che Air France è disposta a pagare o aumenterebbe gli esuberi dichiarati. Ma per la collettività può valere la pena di incassare qualche euro in meno o spenderne qualcuno in più per il sostegno dei lavoratori in mobilità , che rinunciare a delle opportunità di mercato che se funzionano potrebbero offrire ritorni economici che sono multipli della spesa attuale. Ed è anche possibile che una simile scelta da parte del governo ridurrebbe anche le richieste di danno della SEA, che allora sì apparirebbero eccessive e ingiustificate. Speriamo dunque che il governo ci ripensi. Ci farebbe una figura migliore, comunque finisca la vicenda.
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L’ultima offerta di Spinetta – CEO di Air France – sembra chiudere il caso Alitalia, lasciando poche speranze a chi ancora pensa o per convinzione ideologica o per opportunismo politico che sia possibile far assorbire manodopera in eccesso a prescindere dal vincolo di bilancio. Puo’ essere vero per una azienda pubblica (e Alitalia lo e’ solo a meta’) ma non per una azienda privata (come Air France con l’ 80% di capitale in mani private). I 2100 esuberi indicati da Spinetta sono probabilmente una delle stime piu’ basse che un acquirente di Alitalia puo’ permettersi di offrire. Questo per due ragioni. In primo luogo perche’ Air France ha un forte interesse per il mercato Italiano e per Alitalia ed e’ disposta – come dimostra l’insistenza in questa trattattiva – a prendersi il rischio di una ristrutturazione complessa e onerosa, e quindi anche ad accollarsi qualche adetto in eccesso in cambio di consenso sindacale. In secondo luogo perche’ la dimensione del gruppo e le sue prospettive di crescita consentono la riallocazione all’interno dello stesso in modo indolore di parte degli esuberi veri che eccedono di gran lunga i 2100 dichiarati. Prima di rifiutare l’offerta di Air France e’ bene quindi riflettere attentamente. L’alternativa potrebbe essere molto peggiore.
Ostacoli insormontabili nella trattativa per la vendita di Alitalia non sono né la salvaguardia degli occupati né il prestito-ponte. E in fin dei conti neanche la richiesta di indennizzo della Sea. Il vero conflitto riguarda il futuro assetto del mercato fra Fiumicino, Malpensa e gli hub di riferimento di Air France-Klm. E’ qui che deve intervenire il ruolo negoziale del governo. Perché una soluzione di mercato non può prevedere condizioni protezionistiche a vantaggio di qualcuno.
Il caso Alitalia tiene ancora banco. Ma nella ridda di dichiarazioni degli ultimi giorni molti sembrano aver dimenticato che la compagnia aerea è una società quotata. E che la Consob, dopo l’attuazione della direttiva Opa, ha in tali situazioni i poteri per garantire la trasparenza e la correttezza delle informazioni. Possiamo quindi sperare che il mistero della cordata fantasma sia tra breve svelato grazie all’intervento dell’Autorità di vigilanza.
Uno dei candidati premier – Silvio Berlusconi – non ha trovato di meglio che intervenire sulla vicenda Alitalia che il paese si trascina da anni e che stava, con difficoltà , trovando una soluzione, forse non perfetta ma pur sempre una soluzione. Ricapitoliamo. Air France ha avanzato una proposta di acquisto che al momento, non ha alternative e che tempo fa era stata giudicata dal Tesoro – azionista di maggioranza di Alitalia – dominante rispetto alla sola alternativa presentata da Air One. Silvio Berlusconi ha annunciato lÂ’esistenza di unÂ’altra cordata formata da imprenditori nazionali, che potrebbero fare una offerta entra 45 giorni. Ad essa parteciperebbero i figli del candidato premier e sarebbe sostenuta da Banca Intesa. LÂ’amministratore delegato di Banca Intesa ha smentito. La vicenda ha dellÂ’assurdo: non si capisce percheÂ’ debba essere un candidato premier ad annunciare una cordata alternativa per lÂ’acquisto di una azienda che è sul mercato, anziché, se esistono, i diretti interessati, mettendo sul tappeto la proposta. Non si capisce perché, se esistono, lo debbano fare proprio adesso e con il patronage politico di un candidato premier. Fatto ancora più sconcertante è che il candidato premier minacci con il suo intervento di bloccare la vendita ad Air France per consentire lÂ’acquisto da parte di una cordata che, anche se indirettamente tramite i figli, lo vedrebbe coinvolto. Se oggi Air France dovesse ritirarsi ci sarebbero almeno due conseguenze. Primo, Alitalia verosimilmente verrebbe commissariata e si troverebbe in una posizione di debolezza per affrontare  lÂ’entrata in vigoredi Open Sky – gli accordi per la liberalizzazione delle rotte con gli Stati Uniti. Secondo, un eventuale nuovo acquirente (i figli di berlusconi?) si troverebbe in una posizione contrattuale ancora piuÂ’ forte di quella in cui oggi si trova Air France, con ulteriore perdita per lÂ’erario che introiterebbe ancora meno dalla cessione del controllo di Alitalia. Chi verrebbe chiamato a pagare per tutto ciò?
Cosa accadrebbe se Alitalia non trovasse un compratore? Cos’è il “commissariamento” di cui si parla come di uno spauracchio? Quali conseguenze scatterebbero per azionisti, creditori, lavoratori e viaggiatori? Se si trasformassero i debiti della società in azioni, come si è fatto con Parmalat, i suoi creditori avrebbero comunque il problema di un’impresa che perde. Occorre una soluzione industriale, perché la finanza ha già fatto tutto quello che doveva, e forse ha fatto anche troppo.
L’offerta di Air France può apparire indigesta. Ma i margini di trattativa sono ridotti quasi a zero perché Alitalia ha accumulato oltre 1,7 miliardi di debiti finanziari, perde centinaia di milioni l’anno insieme a quote del mercato nazionale, internazionale e intercontinentale, ha una flotta tra le più diversificate e vecchie d’Europa. E anche perché non ci sono state, in quindici mesi, concrete offerte alternative. I diritti di traffico (e gli slots) sono il suo unico valore. Se salta la scadenza del 31 marzo, però, andrà inevitabilmente verso il fallimento.
Aumentare il numero delle licenze di taxi e, allo stesso tempo, concedere agli operatori aumenti sulle tariffe, come ha fatto il comune di Roma, può portare a risultati negativi. Lo dimostra una analoga esperienza del Regno Unito. Due scenari si prospettano ora per la capitale italiana: la domanda di servizio cresce e con essa il valore delle licenze. Oppure resta stabile, ma i prezzi di corsa più alti compensano comunque i tassisti. In entrambi, i casi la resistenza a ulteriori future liberalizzazioni sarà ancora più forte.
A Napoli si producono in media le stesse quantità di rifiuti pro capite delle altre province italiane, più di un chilo al giorno. Ma a Torino i cittadini ne raccolgono in modo differenziato circa il 40 per cento, a Roma e Bari la percentuale è vicina al 10 per cento mentre nella città campana siamo sotto l’8 per cento. A spiegare tanta differenza non sono solo ragioni economiche, ma anche le norme sociali. E allora, la vera questione diventa quali siano le politiche da adottare per incrementare il capitale sociale e, di conseguenza, la raccolta differenziata.
La gestione di molti servizi locali è afflitta da un disegno istituzionale che non divide chiaramente le responsabilità del potere centrale da quelle dei poteri locali e dei suoi diversi livelli. I governi decentrati, forti anche del ruolo che la legislazione gli assegna con la Conferenza Stato-Regioni, respingono ogni tentativo di riportare nelle amministrazioni centrali decisioni sugli assetti di mercato e sulla regolazione. Ne sono un chiaro esempio le vicende di Malpensa e dei termovalorizzatori. Ma alcuni correttivi sono possibili.