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È un’incompiuta la riforma francese delle pensioni

Dopo scioperi e proteste, in Francia è stata approvata la riforma delle pensioni. E si deve dar merito al governo francese di aver affrontato un tema così controverso. Tuttavia, la stabilità finanziaria è assicurata solo per pochi anni e non si sa quali misure si dovranno prendere dopo il 2018, quando il deficit riprenderà a crescere. La riforma delle pensioni 2010 può anche essere caratterizzata come regressiva. In questo senso, le critiche dell’opposizione e del sindacato non sono del tutto infondate.

 

L’amaro midterm di Obama

Barack Obama l’ha definita una batosta. Certamente sulla sconfitta dei democratici alle elezioni di metà mandato hanno contribuito molti fattori, oggettivi e soggettivi. Tra i primi, la disoccupazione alta e una ricchezza delle famiglie che continua a scendere. Oltre naturalmente alle guerre in Iraq e Afghanistan. Ma gli elettori sono delusi anche per la riforma sanitaria e per il sostegno al settore finanziario e automobilistico. Poche speranze di successo per la politica di collaborazione con i repubblicani che il presidente cerca ora di avviare.

 

Riequilibri necessari

Per arrivare a ripresa mondiale forte, equilibrata e prolungata servono due complesse azioni di riequilibrio economico. Una rivolta all’interno dei paesi, per sostituire la spesa pubblica con la domanda del settore privato. Ma serve anche un riequilibrio esterno, per affrontare gli squilibri globali tra paesi esportatori e importatori. E’ nell’interesse di tutti, economie avanzate e paesi emergenti. Entrambe le azioni però procedono con troppa lentezza.

Come evitare la guerra delle valute

Siamo alla vigilia di una guerra valutaria, come sostiene la stampa finanziaria interpretando le mosse recenti e future delle banche centrali? Forti oscillazioni delle monete producono tensioni e conseguenze inaspettate. Ma se Fed, Bce e Banca del Giappone procedessero contemporaneamente a un nuovo giro di “quantitative easing” per favorire le esportazioni, il problema non si porrebbe. Più difficile la posizione dei paesi emergenti che rischiano inflazione, bolle e ritorsioni commerciali. Dovrebbero perciò puntare a rafforzare la domanda interna di prodotti manifatturieri.

La politica industriale brasiliana

La crisi finanziaria ed economica globale ha scalfito molte certezze dantan: per esempio, che la miglior politica industriale non si vede e non si sente, e soprattutto non dispone di azioni. In altre parole, che la golden age delle privatizzazioni abbia sancito la fine definitiva dello Stato azionista. In pratica, come ha sottolineato Fabrizio Onida, il nostro sistema industriale si confronta quotidianamente con concorrenti, in particolare i paesi emergenti, che invece ricevono sostegno dai propri governi. (1) Da ciò limportanza di conoscere meglio la politica industriale in paesi come il Brasile le cui economie sonoconcorrenti, ma anche complementari, alla nostra.

L’eredità di Lula: la politica economica

Domenica 3 ottobre il Brasile elegge il nuovo presidente. Vediamo qual è l’eredità di Lula in tre articoli. Ha controllato l’inflazione e l’economia è cresciuta in gran parte perché l’azione del suo governo ha seguito il solco della precedente amministrazione Cardoso. Diverse, invece, la politica sociale e industriale. L’introduzione della Bolsa Familia ha dato risultati eccellenti in termini distributivi. Lula ha anche dimostrato maggior fiducia nel ruolo dello stato dell’economia, con una politica industriale ambiziosa e non lesinando le risorse per banche e imprese pubbliche.

La politica sociale brasiliana

Tra i diversi primati del Brasile, oltre al numero di campionati mondiali di calcio e la più vasta estensione di foresta primaria, c’è anche quello della disuguaglianza dei redditi. (1) Uno dei principali risultati del governo Lula è stato proprio la sua riduzione.

L’obesità parte da lontano

Nel mondo più di un miliardo di adulti sono sovrappeso e 300 milioni sono clinicamente obesi. Ma l’epidemia di obesità si è diffusa, almeno negli Stati Uniti, molto prima di quanto comunemente si pensi: per la popolazione bianca se ne vedono le avvisaglie già dopo la prima guerra mondiale, per coinvolgere i neri dopo il secondo conflitto mondiale. Dunque ben prima degli anni Ottanta, considerati la data di nascita ufficiale del problema. Le tabelle di riferimento oggi utilizzate non sono perciò corrette e sono in realtà sovrappeso anche persone che pensano di avere un peso normale.

Un commento di Iacopo Viciani e la risposta degli autori

L’articolo ha il merito di presentare quello che dal 1993 l’analisi econometrica evidenzia sulla relazione aiuti, ma anche flussi commerciali, povertà  e migrazioni (Faini Venturini, 1993).
In sintesi, se gli aiuti sono efficaci e aumentano il redito procapite allora finché questo reddito non raggiunge una certa soglia (stimata intorno ai 7000 dollari PPP- circa il reddito di Sud Africa, Tailandia, fonte: Berthelemy, 2006) i flussi emigratori dal paese continuano ad aumentare. Superato questo reddito-soglia, la continua crescita aumenta gli incentivi economici a restare. L’’aumento dei flussi sarebbe perciò un effetto transitorio legato alla convergenza delle economie, tanto più breve quanto maggiore fosse la crescita del Paese d’emigrazione. Un’’analisi recente (Berthelemy, 2006) conclude che i flussi di immigrati aumentano in un paese che aumenti i suoi aiuti bilaterali, sopratutto per quanto riguarda la forza lavoro qualificata.
E’’ importante precisare che il rapporto aiuto/migrazione forse nasconde una causa più importante: il Pil procapite e la crescita di output del paese di immigrazione. Secondo la letteratura economica sulle migrazioni, questi sono le maggiori determinanti nella scelta della meta d’’immigrazione ma sono anche determinanti cruciali dei livelli di aiuto. Ossia, ad esempio, il Pil procapite alto della Svezia fa sì che questa sia meta ambita di immigrazione e che il livello di aiuti svedesi sia alto. Stabilire la causalità tra gli aiuti svedesi e l’emigrazione verso la Svezia può essere azzardato.
Anche il Pil procapite del Paese di emigrazione è tra le maggiori determinanti dell’’emigrazione, in termini assoluti. Affermare che gli aiuti hanno causato questa crescita di reddito procapite, significa riconoscere che l’’aiuto funziona. Purtroppo nessuno studio econometrico ha dimostrato una volta per tutte in maniera significativa questa correlazione tra aiuto e aumento del reddito/ crescita.
La crescita di reddito procapite in un Paese in via di sviluppo, o più semplicemente la sua crescita, è legata anche ad altri flussi finanziari e agli scambi commerciali. I Paesi Ocse potrebbero solo avere “selezionato” di investire maggiormente per l’’aiuto in quei paesi con già migliori performance economiche.
Infine sulla questione del “brain drain”, un documento Ocse del febbraio 2010 analizza il caso delle emigrazioni del personale infermieristico dai Paesi in via di sviluppo concludendo che non è l’’emigrazione la causa della mancanza cronica di personale sanitario. Inoltre una studio della Banca Mondiale del 2009 ha messo in evidenza che in molto Paesi in via di sviluppo la possibilità di emigrare se qualificati in una certa professione costituisce un significativo incentivo per formarsi. Le Filippine sono il Paese che invia il maggior numero di infermiere all’’estero ma non soffre di una carenza di personale infermieristico. In molti casi l’’emigrazione è solo temporanea i sanitari con un rientro dei professionisti qualificati attorno ai 30 anni  (World Bank, Microdeterminants of Migration, 2009).

Molto interessanti e appropriati gli spunti di  Iacopo Viciani. Esiste certamente una relazione tra aiuti erogati e Pil del Paese  donatore (che farebbe, nell’esempio citato, apparire la Svezia come forte donatore, in virtù del suo elevato Pil). Da un punto di vista  puramente tecnico, nelle nostre analisi, abbiamo tenuto conto di  questo problema esprimendo sempre l’ammontare di aiuti in percentuale del Pil del Paese donatore, in modo da “pesare” il volume di aiuti  erogati per la dimensione economica del Paese. Allo stesso modo, studiando i flussi migratori in uscita dai Paesi africani, abbiamo sempre pesato gli aiuti ricevuti dal singolo Paese beneficiario per il suo Pil.
Abbiamo anche cercato di trattare il volume di aiuti ricevuti come una  variabile endogena (in funzione
di alcune caratteristiche economiche del Paese beneficiario) proprio per tener conto della possibile “selezione” (da parte dei Paesi Ocse) dei Paesi verso cui dirigere più aiuti. Al di là di analisi aggregate, stiamo invece studiando quanto e  come gli aiuti si traducano effettivamente in un aumento di reddito, attraverso l’’uso di dati che consentano di analizzare le relazioni economiche bilaterali (e i loro effetti socio-economici) tra Paese donatore e Paese beneficiario.
Sulla questione cruciale del “brain drain”, concordiamo con Viciani: non sempre i Paesi esportatori di
capitale umano soffrono di carenza di capitale umano. Questo punto esula, per il momento, dalle nostre analisi; tuttavia, un spunto interessante potrebbe essere questo: se da una parte i flussi emigratori privano in una certa misura il Paese d’’origine di forza lavoro, è anche vero (come afferma Viciani) che questo fenomeno può associarsi ad un incentivo all’’ulteriore formazione da parte di chi resta. De Haas, in un lavoro del 2004,  parla di “brain gain”: cioè del contro-flusso di rimesse, investimenti, conoscenza e capitale sociale che avvantaggia il Paese fonte di emigrazione, proprio in virtù di quanti, precedentemente emigrati, ritornano in patria o, attraverso reti economiche  internazionali, partecipano dall’’estero allo sviluppo del proprio Paese. Va detto che tale dinamica, però, non ha sempre luogo, e molti Paesi sub-sahariani tendono ad impoverirsi, in senso economico e non, quando all’’emigrazione non segue nessun contro-flusso di capitale e conoscenza.

Se mi aiuti, emigro

Serve aumentare gli aiuti per fermare l’immigrazione dall’Africa verso l’Europa? L’analisi econometrica mostra che tanto più un paese riceve aiuti economici internazionali, tanto più da lì si origineranno flussi di migrazione e tanto più un paese eroga aiuti, tanto più riceverà immigrazione. Perché la scelta di emigrare sarebbe sempre più guidata dalla percezione della povertà relativa e non dalla povertà assoluta. Gli aiuti vanno dunque ancorati a progetti specifici e verificabili, volti a generare un flusso di reddito certo per i lavoratori residenti.

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