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ALLA RICERCA DI NUOVE REGOLE. E DI NUOVE CLASSI DIRIGENTI

Il G20 dovrà indicare la nuova architettura delle regole di supervisione del mondo finanziario. Tra le proposte, collegi di supervisori per i grandi gruppi internazionali, codici di condotta per tutti gli investitori istituzionali, armonizzazione delle regole sul capitale delle banche. Ma non basta definire norme condivise, serve qualcuno in grado di applicarle. Un ruolo che potrebbe svolgere il Fondo monetario internazionale, se si procedesse a una revisione dei suoi meccanismi di governo. Necessario anche un profondo rinnovamento delle classi dirigenti.

I GIOVANI E LA LEZIONE AMERICANA*

Le elezioni americane hanno premiato la forza e il coraggio del cambiamento, due qualità che scarseggiano nel nostro Paese. Le spinte maggiori verso il cambiamento arrivano dalle nuove generazioni. Non per nulla Walter Benjamin definì la gioventù, per la sua naturale tensione innovatrice, come il “centro in cui nasce il nuovo”. Il giovane non ha interessi costituiti che lo vincolano a seguire una direzione piuttosto che un’altra e può dunque più facilmente orientare la propria sensibilità verso i nuovi problemi della comunità. Quando, in particolare, nasce l’esigenza di cambiare, il maggior sostegno proviene generalmente proprio dalle nuove generazioni.
Non può quindi meravigliare il fatto che due giovani americani su tre abbiano votato per Obama, come risulta dai dati degli exit pool riportati con ampia evidenza sui giornali d’oltreoceano. La preferenza nei suoi confronti diventa ancor più forte al diminuire dell’età, fino a superare il 70% tra chi ha votato per la prima volta. Una bella spinta quella data dalle nuove generazioni per il successo del candidato democratico nato negli anni sessanta, anche perché negli States i giovani hanno un peso consistente. Gli americani sotto la soglia dei 35 anni costituiscono il 47% della popolazione, mentre sono appena il 38% in Italia. Secondo le previsioni dell’U.S. Census Bureau da qui al 2020 tale quota rimarrà sostanzialmente stabile negli USA, mentre scenderà a poco più di uno su tre nel nostro Paese (immigrati compresi). Il peso degli under 35 sul totale dell’elettorato è di oltre il 30% negli States mentre arriva a malapena al 25% in Italia ed è destinato ulteriormente a scendere al 21,5% (www.demo.istat.it).
Questi dati non significano certo che "we can’t change", suggeriscono però che da noi il cambiamento è destinato ad avere vita più dura, data la minor consistenza demografica delle forze che per propria natura sono più aperte al nuovo. La forza (nei numeri) più ridotta richiederebbe allora d’essere compensata da un maggior coraggio. Meno difesa delle posizioni raggiunte da parte delle vecchie generazioni, meno cooptazione, più disponibilità a confrontarsi e ad essere messi in discussione. Ma richiede più coraggio anche da parte delle nuove generazioni nel guadagnare il proprio spazio. Obama è arrivato dal nulla e ha scalato i vertici della politica americana metro dopo metro, senza timori reverenziali verso nessuno. I Clinton e i Bush, le caste che hanno gestito il potere dalla caduta del muro di Berlino ad oggi, alla fine hanno dovuto farsi da parte.
La vittoria di Obama insegna che nulla è impossibile in America. In Italia, invece, tutto è più difficile. Certo, aiuterebbe togliere del tutto gli assurdi limiti anagrafici di accesso al Parlamento. Abbassare l’età del voto a 16 anni, quantomeno per le amministrative, sarebbe poi un segnale importante, che consentirebbe di contenere l’ulteriore perdita di peso delle nuove generazioni nei prossimi anni. L’effervescenza di questo ultimo mese nei Licei e nelle Università smentisce, del resto, chi considerava i giovani italiani apatici, poco interessati alla politica e al loro futuro. Aiutiamoli a contare di più, diamo qualche speranza in più al cambiamento anche da questa parte dell’Oceano.

(*) L’articolo è presente anche su www.neodemos.it

YES, THEY CAN

L’emozionante esito della campagna elettorale in America, le parole e lo stile del vincitore e forse ancor più quelle del perdente mi ha riportato alla mente una domanda che tante altre volte mi sono posto: cosa c’e di diverso in America? Cosa ha l’America che noi non abbiamo? Non ho una risposta a un quesito così vasto, ma alcune piccole esperienze che mi sono sovvenute possono forse aiutare a trovarne una.
Alcuni anni fa ero in visita a san Francisco. Di rientro da Sausalito, attraversavo in auto il Golden Gate per andare all’aeroporto e prendere un volo per Chicago. All’uscita del ponte le strade si dividono in varie direzioni; solo una conduce all’aeroporto. Avevo con me tutte le istruzioni ma, nella confusione del viaggio, le avevo smarrite dentro l’auto. Ero preoccupato perché sbagliare strada avrebbe significato forse perdere il volo. Al momento di pagare il pedaggio chiedo al casallente dove dirigermi per andare all’eroporto. Si gira, prende uno stampato da uno scaffale e me lo passa. Conteneva una mappa che illustrava esattamente come arrivare da quel punto all’eroporto. Mi è sorta spontanea la domanda: come fa ad avere lo stampato? La risposta è semplice: altri viaggiatori, nel passato, si sono trovati nella stessa condizione e si sono rivolti al casellante, il casellante ha riferito al suo principale e questo ha provveduto. Mi resi conto che una cosa simile forse non sarebbe accaduta in Italia: quando il problema emerge non c’e reazione. Quasi sicuramete il giorno dopo, l’anno dopo, cinque anni dopo, il problema è ancora lì a riproporsi stancamente senza che il casellante di turno, o chi per lui muova un passo.
La scorsa settimana ero a New York per tenere dei seminari (discussione di una ricerca con un piccolo gruppo di colleghi del ramo). Uno di questi a New York University, nel Dipartimento di Economia e di Science Politiche, al 19 della 4th steet, nel centro di Manhattan. Fa sempre un gran piacere entrare in un’università che vibra di idee e pulsa di vitalità. Nel pomeriggio, dopo il seminario, passa a prendermi mia moglie. Mi fa notare che lì nel Dipartimento di Economia c’è un centro di Neuroeconomics – una nuova branca a cavallo tra le neuroscienze e le discipline comportamentali, economia, psicologia, scienze sociali – che negli ultimi anni ha iniziato a studiare i processi di formazione delle decisioni utilizzando le tecniche messe a disposizione dalle neuroscienze.  E’ la traduzione immediata, la risposta organizzattiva e istituzionale a una nuova esigenza di conoscenza. Mia moglie, mi chiede, non è stupendo? Non è affascinante questa disponibilità e immediatezza a reagire a uno stimolo positivo?
Ieri ho ricevuto un bando appena uscito della Alfred P. Sloan Foundation – una fondazione intitolata ad Alfred Sloan Jr., il CEO che in 23 anni di comando tra il 1923 e il 1946 fece prosperare la General Motors. La fondazione ha lo scopo di dare supporto finanziario per la produzione di ricerca originale nei campi delle scienze, delle tecnologie, dell’economia, nel “…convincimento profondo che una migliore e ragionata comprensione delle forze che muovono la natura e la societa’, quando applicate con inventiva e saggezza, possono migliorare il mondo per tutti”. Il bando mette a disposione degli studiosi 2.7 milioni di dollari per analizzare le cause e le conseguenze della crisi finanziaria e delle sue ripercussioni economiche e per esplorare riforme regolamentari e istituzionali che possano migliorare il funzionamento dei mercati. Nel convincimento che sviluppare la conoscenza economica possa aiutare individui e istituzioni a prendere decisioni più sagge. Sono rimasto sbalordito: siamo nel mezzo della crisi, nel pieno del problema ed ecco una reazione, un investimento per risolverlo che emerge prontamente dalla società. Una collega mi ha chiesto: perché non facciamo cosi anche in Italia, in Europa? Ho rifletutto un attimo per cercare di capire chi, in Italia, in Europa possa essere cosi reattivo. Chi possa pensare al bene comune dell’Europa con prontezza. Non mi è venuto in mente nessuno.
Provo dispiacere nel vedere che c’e una parte del mondo– quella dove vivo e mi piace vivere – che non trova risposte ai problemi, piccoli e grandi, che si presentano, quando le trova sono tardive, lente, affannate e spesso dirette non a risolvere quel problema al meglio ma a qualche cosa d’altro. Provo amarezza nel constatare che No, we cannot.
Provo però una grande contentezza nel vedere che c’è un’altra parte del mondo dove quando un problema emerge trova una risposta, produce una reazione mirata alla soluzione di quel problema. Mi consola vedere che Yes, they can.

UN NUOVO RIORIENTAMENTO POLITICO?

Martedi 4 novembre 2008 è un giorno che verrà ricordato per sempre nella storia americana e mondiale. Barack Obama è il primo presidente di colore eletto negli Stati Uniti. Barack Obama è anche il primo presidente nato da padre straniero (dal Kenia) e che è cresciuto anche all’estero (Indonesia). Barack Obama si è anche distinto nel mondo accademico come primo presidente afroamericano della prestigiosa rivista Harvard Law Review.  La sua storia è ancora più incredibile quando comparata alla biografia di George W. Bush che, nato in una famiglia privilegiata, ha semplicemente seguito le orme paterne per entrare all’università di Yale, entrare in politica, e alla fine alla casa bianca. La storia di Obama astutamente raccontata ha infiammato milioni di americani che hanno contribuito con donazioni e lavoro volontario durante la lunga campagna elettorale. La febbre di Obama si è estesa ad altri paesi ed oggi il mondo intero ha grandi aspettative per il primo presidente di colore. Ma sarà in grado Obama di realizzare queste grandi speranze?

La capacità di Obama di realizzare le sue promesse di cambio e di una politica nuova dipendono dalla sua capacità di formare coalizioni che possano sostenere la sua politica. Gli storici della politica americani hanno chiamato “political realignments” (riorentamento politico) quei particolari momenti in cui una grande figura politica forma una nuova coalizione domina il mondo politico per una generazione. Questi riorentamenti sono di solito formati attorno ad una proposta forte che cambia il dibattito politico e non solo l’esito di una elezione. Gli Stati Uniti hanno conosciuto grandi riorentamenti politici nelle elezioni del 1800, 1828, 1860, 1932, e 1980. Nel 1800, l’elezione di Jefferson ha segnato l’inizio della “democrazia agraria” in cui i proprietari terrieri avevano il potere e l’asse politico americano si è spostato dal New England agli stati del sud. Nel 1828, l’elezione di Jackson ha rappresentato l’ascesa al potere di una nuova classe politica più dinamica interessata all’espansione territoriale. Nel 1860, l’elezione di Lincoln ha segnato la fine della schiavitù e lo spostamento dell’asse politico al Nord negli stati che si stavano industrializzando rapidamente. Nel 1932, l’elezione di Roosevelt ha iniziato il “New Deal,” una nuova alleanza sociale e politica per il rilancio dell’economia. Nel 1980, l’elezione di Reagan ha segnato una nuova alleanza conservatrice che proponeva una politica forte e di confronto con l’Unione Sovietica, una politica economica molto liberista con una riduzione del ruolo dello stato e una politica sociale molto conservatrice.

Dal 1980, la politica americana è stata dominata dall’alleanza costituita da Reagan. La base politica (“silent majority”) ha appoggiato questo programma economico e sociale molto conservatore. Lo stesso Clinton ha continuato molte politiche dei sui immediati predecessori. Per rafforzare le sue credenziali moderate, l’allora candidato Clinton diede il via libera per giustiziare un infermo di mente che si trovava nel braccio della morte in una prigione dell’Arkansas. In ambito fiscale, Clinton è stato molto conservatore, preferendo pareggiare il bilancio invece di favorire un aumento delle spese sociali. La riforma della salute è stata rimandata, lasciando milioni di americani senza copertura assicurativa. La riforma del sistema previdenziale del 1996 ha tagliato molti benefici. In politica estera, la fine dell’Unione Sovietica ha tolto una delle più grosse differenze tra repubblicani e democratici. La presidenza George W Bush ha portato all’estremo queste politiche introducendo forti tagli fiscali, specialmente per i ricchi, e facendo una politica estera estremamente aggressiva. Perché il paese ha per lungo tempo appoggiato tali politiche che alla fine favorivano economicamente solo un gruppo ristretto di super ricchi? Perché la maggioranza degli elettori ha favorito politiche che hanno lasciati i salari reali per la maggioranza dei lavoratori praticamente stabili negli ultimi 8 anni? Secondo molti osservatori politici (incluso il premio Nobel Krugman che sostiene per l’appunto il primato della politica sull’economia) il peccato originale della politica americana che è alla base della coalizione politica formata nel 1980 è lo spauracchio del razzismo. La maggioranza bianca ha avuto paura dell’integrazione forzata tra bianchi e neri che si pensava lo stato volesse imporre negli anni 60’.  Lo scetticismo nei confronti dello stato “integratore forzato”, che vuole a tutti i costi integrare neri e bianchi, insieme alla ribellione contro le tasse spiega come il grande tema del riorentamento iniziato nel 1980 si sia basato proprio il ripudio dello stato. L’elettore medio americano ha rifiutato uno stato che voleva diventare “architetto sociale” e tassava troppo. Seguendo questo modello all’estremo, George W. Bush si èappoggiato pienamente alle forze più conservatrici, in particolare la destra religiosa.

Questo era lo scenario in cui è partita la campagna elettorale per le elezioni 2008. Nonostante la retorica, nessun candidato aveva intenzione di cambiare la coalizione che ha retto il paese dal 1980. Lo stesso Obama ha condotto la campagna politica durante le elezione primarie in modo abbastanza conservatore non proponendo un’assicurazione medica universale, evitando il tema dell’integrazione razziale, facendo vaghe promesse di riconsiderare i trattati commerciali internazionali, proponendo di cancellare (parzialmente) i tagli fiscali di Bush (ma solo per i ricchi), evitando i grandi temi sociali come il matrimonio tra omosessuali. Il tema più progressista era proporre la fine della guerra in Irak. Insomma, alcuni cambi per cambiare gli aspetti più impopolari delle politiche di Bush ma nessun grande riorentamento. Sotto molti aspetti, Obama ha condotto una campagna politica più a destra e meno coraggiosa di Hillary Clinton e, forse anche per questo, ha vinto.

Dato l’andamento negativo dell’economia e i problemi in Iraq e Afghanistan, e la stanchezza di avere un’amministrazione percepita come incompetente, l’opinione pubblica si stava orientando in favore del candidato democratico. Dopo una sostanziale parità nei sondaggi ancora all’inizio di maggio, il vantaggio di Obama è cominciato ad aumentare durante l’estate. A questo punto, McCain ha giocato una carta inaspettata dimostrando una volta ancora la sua capacita di sorprendere: come candidata vice presidente ha scelto Sarah Palin, sconosciuta governatrice dell’Alaska e rappresentatnte della destra religiosa.

La scelta di Palin come candidata vice presidente è interessante perché McCain si era sempre rifiutato di avvicinarsi alla destra evangelica chiamandone suoi rappresentanti erano “agenti dell’intolleranza”. Questi commenti gli erano costati la sconfitta nelle primarie nel 2000 contro Bush che invece aveva il pieno appoggio. Scegliendo Sarah Palin, McCain è quindi andato a Canossa nel disperato tentativo di riformare la coalizione del grande riorientamento del 1980, che comprendeva anche la destra religiosa. Questo patto faustiano sembrava aver funzionato. In pochi giorni, all’inizio di settembre McCain ha guadagnato più di sei punti nei sondaggi portandosi in vantaggio. Sfortunatamente per i repubblicani, il rapido peggiorare della crisi finanziaria dopo il fallimento della banca di investimento Lehman Brothers ha favorito ancora i democratici. Le elezioni del 4 novembre hanno dato ad Obama il 52.6 percento del voto popolare contro il 46.1 di McCain. Una vittoria quindi con dei dubbi: se non ci fosse stata una drammatica crisi finanziaria in settembre (con una risposta del governo abbastanza incompetente) la vecchia maggioranza politica del 1980 avrebbe vinto un’altra volta?

La risposta a questa domanda non la sapremo mai. Ma molte ragioni ci fanno pensare che sia in corso un nuovo riorientamento dell’asse politico come nel 1980. I grandi riorientamenti politici sono avvenuti in corrispondenza di grandi crisi economiche; in particolare, i cambi del 1932 e del 1980 sono avvenuti in conseguenza della grande depressione e della stagflazione degli anni 70. Il cambio del 2008 è avvenuto nel mezzo di una gravissima crisi finanziaria che sta portando ad una severa recessione. Tutti i grandi cambi politici sono avvenuti in risposta allo scetticismo sulla capacità delle istituzioni precedenti di risolvere i problemi; negli anni 30, i meccanismi di riequilibrio del mercato sono stati messi in discussione; nel 1980, c’era molto scetticismo sulla capacità dello stato di risolvere i problemi. I grandi riorientamenti politici sono stati appoggiati da nuove maggioranze. Obama è riuscito a fare rientrare nel gioco politico gli afro-americani, gli emigranti con cittadinanza americana, i giovani. Forse ancora più importante, Obama facendo una campagna che ignorava il fattore razziale ha implicitamente smontato lo spauracchio razziale su cui si fondava la politica americana moderna. Probabilmente senza la crisi finanziari, Obama non sarebbe stato eletto ma ora con 4 anni di potere davanti a sé potrà definitivamente convincere il ceto medio americano che la politica non deve essere dominata da paure razziali. In conclusione, un riorientamento politico sta forse avvenendo in questi mesi un po’ per la crisi finanziaria, un po’ perché Obama sarà il primo presidente di colore, un po’ perché l’America era diventata molto scettica del presidente attuale.

Ma se un riorientamento è in corso, quali sono i suoi contenuti? La grande sfida di Obama sarà di reintrodurre il ruolo dello stato in vari settori dove l’iniziativa privata lasciata a se stessa non è riuscita a trovare soluzioni soddisfacenti: l’equilibrio nei mercati finanziari, la salute, l’educazione, le grandi infrastrutture.  I cambi della politica estera sono importanti per gli Europei, ma sono sicuramente di secondo ordine rispetto alle sfide della politica interna.

Edoardo Vianello

OBAMA, DALLA SPERANZA AI FATTI

L’elezione di Obama è un fatto storico eccezionale, dovuto a meccanismi di competizione politica ben funzionanti, regole chiare e libera circolazione delle idee: una vittoria del metodo democratico. Ora ha tante promesse da mantenere. E molto probabilmente si muoverà con estrema cautela, a causa della crisi economica, ma anche per scelta politica. Fra i primi test a costo zero, nomine alla Corte suprema, chiusura di Guantanamo, aborto e cellule staminali. Ma dovrà intervenire anche per stimolare l’economia e per riformare la sanità. L’incognita della politica estera.

OBAMA, UN CANDIDATO POST-RAZZIALE

Il primo candidato afro-americano alla presidenza degli Stati Uniti non rappresenta la fine del divario tra bianchi e neri, che anzi sembra aumentare. La vera novità è la disponibilità degli elettori a votare un presidente nero. Anche perché Obama ha evitato di fare della razza uno strumento di campagna elettorale, allontanandosi dai leader più radicali. Si è poi dimostrato capace di gestire con abilità situazioni potenzialmente esplosive, come i rapporti con il reverendo Wright. E si è presentato agli americani come il primo politico post-razziale.

ADDIO BASILEA 2

L’adozione di meccanismi come la ricapitalizzazione e l’assicurazione esplicita delle passività bancarie vanno salutati con favore, pur ricordando che altro non sono che trasferimenti di ricchezza dai contribuenti agli azionisti delle banche. Prima però di gettare a mare un sistema di adeguatezza patrimoniale sofisticato ed evoluto come Basilea 2, occorre valutare con attenzione se i problemi sperimentati in questi mesi non possano in realtà essere superati più agevolmente rivedendo aspetti relativamente più semplici, quali il meccanismo delle riserve e quello dei rating.

UN PIANO B PER GLI STATI UNITI

Il piano Paulson non funziona. Serve dunque un programma alternativo, che dirotti il denaro pubblico dal sostegno diretto di Wall Street o del cittadino comune a un pacchetto di investimenti in grado di rimettere in moto l’economia. Basato su una idea: permettere una ristrutturazione efficiente dei debiti. Lo Stato dovrebbe limitarsi a definire un quadro normativo che consenta alle famiglie di rinegoziare i mutui sulle case che hanno perso oltre il 20 per cento del loro valore. E alle banche insolventi di chiedere una speciale forma di bancarotta.

IL PREMIO NOBEL A PAUL KRUGMAN

E’ il capofila della nuova teoria del commercio internazionale. Mostra come in un settore competa una moltitudine disparata di imprese alla ricerca continua di modi per creare, difendere e accrescere il loro potere di mercato attraverso l’innovazione, la differenziazione del prodotto, lo sfruttamento di economie di scala e di scopo. Fondamentale anche il contributo all’analisi del fenomeno dell’urbanizzazione. E ha denunciato il rischio che governi e banche centrali si trovino impotenti di fronte agli umori del mercato in un mondo globalizzato.

ALLA RADICE DELLA TEMPESTA PERFETTA

Dopo anni di deregulation e decenni di scarsi controlli, di sfiducia nei sistemi di prevenzione e di vigilanza sugli intermediari, la crisi del credito è scoppiata negli Stati Uniti e da lì si è estesa a tutto il mondo sviluppato. Le origini del problema sono dunque chiare. Il piano approvato dal Congresso punta a rimediare agli effetti e non alle cause della crisi. Per essere efficace dovrebbe invece ri-regolare i mercati e aiutare le famiglie incapienti con mutui. Tanto più che un programma di agevolazioni immobiliari alle famiglie avrebbe molteplici effetti positivi.

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