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PREZZI E SALARI AL TEMPO DELLA CRISI

I salari nel 2008 sono aumentati di un punto e mezzo più dei prezzi. Un effetto temporaneo, ma non solo. Un problema che potrebbe diventare più drammatico nei prossimi mesi, con il rischio di un peggioramento delle relazioni industriali. Se il governo ha risorse fiscali aggiuntive, è qui che bisognerebbe metterle: per difendere il potere d’acquisto dei lavoratori e delle loro famiglie, senza pregiudicare la competitività delle imprese.

NOTE TECNICHE SULL’ACCORDO INTERCONFEDERALE DEL 22 GENNAIO

Il motivo principale per cui la Cgil ha rifiutato l’accordo sulla riforma della contrattazione collettiva è la prospettiva che nei futuri rinnovi nazionali esso produca una riduzione degli adeguamenti retributivi rispetto all’inflazione. Cisl, Uil, Ugl e Confindustria, che lo hanno firmato, negano invece questa prospettiva. Cerchiamo di capire come stanno realmente le cose.
Occorre considerare, innanzitutto, che il nuovo accordo prevede esplicitamente che sia negoziato in ogni impresa un premio di produzione: sindacato e lavoratori avranno dunque un vero e proprio diritto all’apertura della trattativa per l’istituzione del premio di produzione in ciascuna azienda in cui il nuovo sistema si applicherà. Questo deve portare a un mutamento di grande rilievo, sia dal punto di vista dell’estensione della contrattazione aziendale, sia nella struttura delle retribuzioni. I sindacati che sapranno riformare se stessi e mettersi in grado di svolgere incisivamente questa funzione attiveranno un modello di relazioni industriali significativamente diverso da quello attuale. Ed è subito evidente che, se non si tiene conto di questo dato, tutti i confronti fra vecchio e nuovo sistema sono inattendibili.

LIVELLO NAZIONALE E LIVELLO AZIENDALE

Per quel che riguarda la parte della retribuzione negoziata al livello nazionale, l’accordo istituisce un meccanismo di adeguamento dei minimi tabellari secondo un indice previsionale costruito sulla base dell’Ipca (indice dei prezzi al consumo armonizzato in ambito europeo) che non è di per sé meno protettivo rispetto al meccanismo precedente, fondato sul riferimento all’“inflazione programmata”: esso, semmai, è destinato a portare un adeguamento più vicino all’inflazione reale, rispetto a quanto accaduto nel quindicennio passato.
Nel nuovo sistema il sindacato rinuncia a negoziare al livello nazionale aumenti retributivi collegati agli aumenti di produttività (come avveniva nel vecchio sistema), al fine di lasciare più spazio allo sviluppo della contrattazione al livello aziendale su questa materia. L’accordo, però, prevede pure che i contratti nazionali di settore istituiscano un “elemento retributivo di garanzia” (Erg), destinato a scattare nelle imprese dove la contrattazione di secondo livello di fatto non si attivi. È sostanzialmente una generalizzazione del meccanismo già da tempo previsto dal contratto collettivo dei metalmeccanici, dove è chiamato “assegno perequativo”. Anche se si considera soltanto la parte di retribuzione negoziata al livello centrale, non si può ragionevolmente affermare che il risultato di queste nuove norme-quadro sarà una sua riduzione prima di conoscere l’entità dell’Erg che verrà stabilita da ciascun contratto nazionale.
La Cgil esprime a questo proposito il timore che, nei settori in cui il sindacato è più debole, l’Erg di fatto non venga contrattato, o venga determinato in misura troppo bassa. Ma dove il sindacato è più debole era più difficile anche il “recupero di produttività” che veniva negoziato al livello nazionale nel vecchio sistema.
Finora, nel quadro dell’accordo del 1993, al livello nazionale si negoziava una parte maggiore della retribuzione complessiva, secondo un criterio tendenzialmente uguale per tutti i settori; si lasciava così uno spazio più ridotto alla parte di retribuzione legata agli aumenti di produttività o redditività effettivi e si sacrificavano sul piano nazionale le retribuzioni delle aziende più dinamiche. È possibile che anche questo abbia contribuito a tenere il livello generale delle nostre retribuzioni nettamente più basso rispetto a quelli di tutti i nostri maggiori partner europei.
D’altra parte, aumentare le retribuzioni è possibile soltanto in due modi. Il primo consiste nell’erosione del profitto, dove c’è, a vantaggio dei redditi di lavoro; per questo lo strumento più efficace e penetrante – almeno in riferimento alle aziende con produttività e redditività più alte della media ‑ non è certamente la negoziazione di uno standard nazionale che deve andar bene anche per i settori dove produttività e redditività sono più basse. Il secondo consiste nel rendere più produttivo il lavoro; questo è possibile soltanto attraverso l’innovazione; e l’innovazione che più conta, quella che sovente è portata dall’imprenditore straniero, la si contratta al livello aziendale, non a quello nazionale. Sindacati e lavoratori italiani finora hanno fatto troppo poco questo mestiere; non si può ragionevolmente negare che il nuovo accordo interconfederale apra maggiori spazi per svolgerlo.
Nel maggio scorso avevo proposto una formulazione della clausola relativa all’Erg suscettibile di offrire una “garanzia” assai efficace, pur mantenendo uno stretto collegamento di questa voce retributiva con l’andamento di ciascuna azienda. Si trattava della traduzione in linguaggio contrattuale di un’idea originariamente proposta da Tito Boeri e Pietro Garibaldi: un premio di produttività “di default” collegato al margine operativo lordo di ciascuna azienda, ma i cui parametri minimi fossero stabiliti a livello nazionale, per il caso di difetto di negoziazione nella singola impresa. Questo avrebbe anche costituito una sorta di “traccia” per la contrattazione aziendale anche nelle piccolissime aziende, da parte di lavoratori o sindacalisti privi di qualsiasi esperienza in questa materia. Vi è ragione di ritenere che, se la Cgil, nella trattativa svoltasi nel corso del 2008, avesse sostenuto un meccanismo di questo genere, la Confindustria non avrebbe opposto un rifiuto pregiudiziale. È vero che questo meccanismo non avrebbe prodotto aumenti retributivi nelle aziende che più soffrono l’attuale fase di recessione; ma questo non è necessariamente un male: la flessibilità della retribuzione in relazione all’andamento aziendale favorisce la continuità dell’occupazione ed evita le sospensioni del lavoro e i licenziamenti.

LA RAPPRESENTATIVITÀ

L’accordo del 22 gennaio prevede la stipulazione entro tre mesi di un accordo ulteriore, per la definizione dei criteri di misurazione della rappresentatività dei sindacati, al livello nazionale e a quello aziendale. È evidente che un sistema di regole sulla rappresentanza non può funzionare se non lo firma anche la confederazione sindacale maggiore. Mi sembra difficile, però, che la Cgil possa sottrarsi alla negoziazione e stipulazione di questo secondo accordo, essendo sempre stata proprio la fissazione delle regole sulla misurazione della rappresentatività dei sindacati la bandiera della stessa Cgil. Quanto al contenuto di questo futuro accordo, fin dal maggio scorso le tre confederazioni maggiori hanno raggiunto un’intesa abbastanza precisa sulle regole da istituire.
Questo secondo passaggio potrebbe costituire l’occasione per ricucire lo “strappo” tra le confederazioni. E a quel punto, anche la riforma della struttura della contrattazione collettiva potrebbe decollare, nonostante il probabile permanere del dissenso della Cgil: una volta stabilito il criterio di misurazione della rappresentatività, settore per settore sarà la coalizione sindacale maggioritaria a decidere se applicare o no le nuove regole. Così avremo, per esempio, a seconda della maggioranza sindacale operante in ciascun settore, quello tessile e quello chimico che applicheranno le nuove regole, il settore metalmeccanico e quello del commercio che non le applicheranno; e ci sarà la possibilità di misurare e verificare gli effetti dell’uno e dell’altro assetto della contrattazione collettiva. A ben vedere, un vero pluralismo sindacale significa proprio questo: possibilità per modelli diversi di relazioni industriali di confrontarsi e competere tra di loro, in modo che i lavoratori possano compiere la loro scelta a ragion veduta, in modo pragmatico e non soltanto sulla base di opzioni ideologiche. Rinvio in proposito al dialogo con Eugenio Scalfari pubblicato in questo sito nel febbraio 2006.

DEROGHE AL CCNL

Tra le altre novità contenute nell’accordo, una di grande rilievo è costituita dalla previsione della possibilità che il contratto aziendale – se stipulato dalla coalizione sindacale maggioritaria– deroghi al contratto nazionale, sia in materia retributiva, sia in materia “normativa”; e questo sia in situazioni di difficoltà economica, dove è necessaria una riduzione dello standard retributivo, sia, al contrario, nelle situazioni in cui la deroga è necessaria per introdurre un’innovazione nell’organizzazione del lavoro non compatibile con il modello fissato dal contratto nazionale. Su questo punto è profondamente cambiata la filosofia stessa dell’accordo, rispetto al testo che era stato proposto dalla Confindustria nella primavera scorsa. Chi ha letto quanto ho scritto su questo punto (in particolare, il libro “A che cosa serve il sindacato?” e il saggio “Che cosa impedisce ai lavoratori di scegliersi l’imprenditore” ) sa perché considero indispensabile questo ampliamento dello spazio della contrattazione aziendale per aprire maggiormente il nostro sistema all’innovazione e agli investimenti stranieri, che sono il solo modo per ottenere un forte aumento delle nostre retribuzioni.
A dire il vero, nel mio libro testé citato non propongo che la facoltà di deroga venga attribuita a qualsiasi coalizione sindacale che sia maggioritaria nella singola azienda: propongo invece l’istituzione di un filtro ulteriore, costituito dall’appartenenza dei sindacati stipulanti al livello aziendale ad associazioni radicate in almeno tre altre Regioni. Questo al fine di evitare possibili degenerazioni del meccanismo, soprattutto nel Mezzogiorno. Credo che adottare questo filtro ulteriore in questo accordo interconfederale non sarebbe stato male (e le parti sono ancora in tempo per farlo); ma sono altrettanto convinto che in questa materia la possibilità di degenerazioni marginali non debba indurre a paralizzare o appesantire eccessivamente l’intero sistema nazionale.

IL SETTORE PUBBLICO

Ho, invece, forti perplessità sulla possibilità di buon funzionamento del nuovo assetto della contrattazione collettiva nel settore pubblico. Fino a che non sarà stato attivato il sistema di valutazione indipendente e trasparente delle performance delle singole amministrazioni previsto dal disegno di legge approvato nel dicembre scorso dal Senato e attualmente in discussione alla Camera, non vedo come la contrattazione decentrata possa svolgere correttamente, in questo settore, la funzione di collegamento delle retribuzioni all’andamento gestionale.

LA RISPOSTA AI COMMENTI

Tutti i commenti confermano l’opportunità di affrontare congiuntamente, nella discussione ma soprattutto nelle politiche, la questione dell’età alla pensione e quella del modo in cui va trattato il lavoro di cura (e i bisogni cui corrisponde). Ci sono tuttavia alcuni malintesi che occorre chiarire. Io non sostengo affatto che l’attribuzione alle donne del lavoro di cura (e ancor più di quello domestico) sia qualche cosa di inevitabilmente naturale. Ciò che è inevitabile, naturale, anche in epoca di fecondazione assistita, è che sono le donne a portare letteralmente al mondo i nuovi esseri umani e ciò non è senza conseguenze, non solo sul loro corpo, ma anche sul tipo di legame che si instaura tra madre e bambino durante la gravidanza e nei primi mesi di vita. Ma da questo non discende che solo le donne abbiano capacità e responsabilità di cura, che si presentano ben oltre quei primi mesi e anche non solo verso i bambini piccolissimi. Ciò che sostengo è che sia il bisogno di cura che il lavoro effettuato per rispondervi va riconosciuto per chi lo fa (donne e uomini): non con un salario per il lavoro domestico (incluso quello che si fa per il proprio marito o figli grandi), ma con congedi adeguatamente remunerati e di durata ragionevole (molte ricerche segnalano in un anno il punto di equilibrio che consente tempo per la cura ma non disincentiva dal ritorno nel mercato del lavoro) e contributi figurativi per lo meno con gli stessi criteri che si adottano per il servizio militare. Il lavoro di cura va anche in parte sostituito tramite una offerta di servizi di qualità e a prezzo accessibile. L’investimento in servizi, tra l’altro, oltre a incoraggiare le donne (ma auspicabilmente anche gli uomini) con responsabilità di cura a rimanere nel mercato del lavoro, avrebbe anche due altri effetti positivi: creerebbe domanda di lavoro e offrirebbe ai bambini quegli spazi educativi in età pre-scolare che molti studi segnalano essere necessari per contrastare lo sviluppo di disuguaglianze cognitive dovute alle disuguaglianze nell’ambiente famigliare.

Quanto alla mia affermazione che le donne che hanno carichi famigliari e sono anche occupate hanno una vita lavorativa complessivamente più lunga, se misurata in ore lavorate,  di quella degli uomini, non è una mia invenzione, ma sta nei dati empirici, italiani e non. Basta sommare – sia per gli uomini che per le donne in analoghe condizioni famigliari – l’orario di lavoro remunerato e quello del lavoro non remunerato famigliare, di cura e domestico. Questa differenza c’è in tutti i paesi, ma in Italia è tra le più alte, stante la più squilibrata divisione del lavoro famigliare tra uomini e donne e stante la più esigua disponibilità di servizi.

REDDITO MINIMO ALLA FRANCESE

L’estate prossima entrerà in vigore in Francia il Revenu de Solidarité Active, un nuovo sussidio pubblico ideato per semplificare la giungla delle misure di sostegno, lottare in modo efficace contro la povertà ed evitare fenomeni di disincentivazione al lavoro. Anche in Italia da tempo circolano proposte di reddito minimo garantito. La riforma francese può essere un esempio anche per noi? Due i problemi: i costi per le esangui casse statali e l’imponente tasso di lavoro sommerso e di evasione fiscale, che potrebbero mettere in dubbio l’efficacia di un simile strumento.

LA RISPOSTA AI LETTORI

Ringrazio tutti i lettori per questi commenti estremamente interessanti. Abbozzo una risposta collettiva, proverò anche a rispondere individualmente se qualche lettore sarà insoddisfatto e vorrà contattarmi via e-mail (zanella@unisi.it)
Mi pare che quello che accomuna diversi commenti sia la percezione che le misure adottate dal ministro Brunetta saranno controproducenti — percezione che fondamentalmente condivido — per quattro ragioni, che metto in ordine (soggettivo) di importanza:

(1) Non vanno al nocciolo della questione, cioe’ il fatto che gli abusi (assenze ingiustificate, doppi lavori e quant’altro) riflettono in ultima istanza un fondamentale problema di incentivazione (che include la sanzione) dei dirigenti e di chi deve organizzare il lavoro nell’amministrazione pubblica. Se il dipendente di un ministero al mattino può andare a fare il carpentiere o il muratore (per riprendere un esempio di un lettore, non ho elementi per quantificare il fenomeno) senza che nessuno se ne accorga, c’e’ chiaramente un problema di organizzazione del lavoro. Migliorare la produttività della PA richiede incentivi appropriati per i dirigenti, non c’è dubbio.
(2) Demotivano e colpiscono economicamente i dipendenti pubblici che fanno onestamente (e anche di più), il proprio lavoro. E non c’è dubbio che ce ne siano. Questo non puo’ che andare a scapito della produttività complessiva del comparto pubblico, perche’ si demotivano esattamente gli individui più produttivi.
(3) Possono tutto sommato venire facilmente raggirate sostituendo assenze non retribuite con altre assenze retribuite. Va detto che le ultime due indagini del ministero si preoccupano giustamente di monitorare anche la dinamica delle assenze per ragioni diverse dalla malattia: nel campione
utilizzato queste risultano in calo di circa il 10%. Anche questo numero è però viziato dai problemi di selezione di cui parlo nell’articolo. Vedremo a consuntivo.
(4) Non sono economici: è assurdo, come riportato da Giorgio Benussi nel suo commento, far esplodere in maniera generalizzata la spesa per i controlli per colpire abusi che indubbiamente ci sono ma non sappiamo quanti siano. Di nuovo, senza nessun serio calcolo costi-benefici si rischia di fare soprattutto molta propaganda.

DOV’È LA VERA PARITÀ TRA DONNE E UOMINI?

Un’età della pensione più bassa penalizza le donne, ha sentenziato la Corte Europea. Ma eliminare questa disparità non basta. Bisognerebbe prendere atto che quelle di loro che si fanno carico di responsabilità famigliari hanno una vita lavorativa complessivamente più lunga e pesante di quella degli uomini e pagano prezzi economici elevati. Su questo occorre intervenire.

MA LA CURA BRUNETTA E’ DAVVERO EFFICACE?

Il ministero per la Pubblica amministrazione stima una forte riduzione delle assenze per malattia dei dipendenti pubblici nel 2008. Sarebbe merito della nuova normativa. Se tuttavia si analizzano i dati raccolti ogni mese dal ministero e li si incrociano con quelli della Ragioneria generale si scoprono almeno due questioni che rendono prematuro l’entusiasmo. Primo, non e’ la prima volta che le assenze per malattia si riducono. Secondo, nonostante l’intervento dell’Istat, il campione utilizzato potrebbe ancora sovrastimare considerevolmente la riduzione.

POLITICA ECONOMICA SULLE MONTAGNE RUSSE

Si parla di ridurre l’orario di lavoro settimanale integrando il salario con sussidi per salvaguardare posti di lavoro: una correzione di rotta notevole per un esecutivo che con la detassazione degli straordinari puntava ad allungare quell’orario. I contenuti della proposta non sono ancora chiari. Ma potrebbe risolversi nell’ennesimo intervento a favore di chi un lavoro ce l’ha già. Mentre Il governo continua a sostenere che non ci sono risorse per una seria riforma degli ammortizzatori sociali.

INDENNITÀ AI CO.CO.PRO: UN BEL GESTO CHE NON IMPEGNA

A conti fatti, i beneficiari dell’indennità destinata ai collaboratori a progetto potrebbero essere circa 10mila e la spesa per le casse dello Stato intorno agli 8 milioni di euro. Non è infatti destinata a tutti, ma solo agli iscritti in via esclusiva alla gestione separata dell’Inps, in regime di monocommittenza, con un reddito lordo compreso tra 5mila e 11.516 euro nel 2008 e superiore a 3.500 euro nel 2009. Soprattutto, i co.co.pro devono operare in aree o settori in crisi. E quali siano, lo deciderà un successivo decreto. Incerto anche il momento dell’erogazione.

FLEX-INSECURITY, DALLA FLESSIBILITA’ ALLA PRECARIETA’

A dicembre scadranno oltre 300mila contratti atipici. In tempi normali la stragrande maggioranza viene rinnovata dalla medesima azienda. Ora, con la recessione, c’è il rischio che i rinnovi calino e sia più lungo il periodo di disoccupazione per i lavoratori. Una larga percentuale non potrà beneficiare delle prestazioni di disoccupazione perché le regole di accesso penalizzano le carriere discontinue e i salari bassi. Occorrono sussidi di tipo assistenziale, soggetti alla prova dei mezzi. E in prospettiva, uno schema di mantenimento del reddito di stampo universalistico.

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