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MA DOVE VANNO GLI IMMIGRATI?

Dopo due decenni di stallo, tra il 2001 e il 2011 la popolazione italiana ha ripreso a crescere, grazie all’Â’arrivo degli immigrati o ai nuovi nati figli di immigrati. Lo certificano i dati del censimento divulgati dall’Â’Istat.
In quali aree del paese sono affluiti o sono nati (nel periodo 2001-2011) questi cittadini stranieri? Come mostra la nostra elaborazione dei dati Istat, prevalentemente nelle regioni del Nord, dove i nuovi stranieri arrivati o nati rappresentano tra il 5,5 e il 6 per cento della popolazione residente a fine 2011. E contribuiscono in maniera significativa allo sviluppo economico di queste aree.

FREQUENZE E TV NELL’ERA DI MONTI

Con la norma che annulla il beauty contest per l’assegnazione delle frequenze Tv e impone l’adozione di un’asta a titolo oneroso, per la prima volta un governo italiano cerca di mettere ordine nel sistema frequenziale. È un buon avvio anche se il successo dell’asta dipenderà da molti fattori.  E tuttavia la questione richiede chiarezza e trasparenza. In particolare, sul pacchetto delle frequenze in banda 700 MHz, che dal 2015 saranno riservate ai servizi di larga banda mobile. Il meccanismo di attribuzione sembra troppo articolato e soprattutto produrrà scarsi introiti per lo Stato.

ALLA FRANCIA SERVE UN PRESIDENTE CORAGGIOSO

La campagna elettorale del primo turno ha evitato ogni discussione sui problemi fondamentali che affliggono la Francia. E probabilmente non se ne parlerà neanche in vista del secondo turno. Ma il futuro presidente dovrà affrontarli. Il debito pubblico è insostenibile e va ridotto. Tanto più che la disciplina di bilancio non è un concetto antitetico a quello di crescita. Non va poi contestato il Fiscal compact, ma bisogna portare in Europa idee nuove e forti. Quanto alla questione cruciale della disoccupazione, per risolverla serve una seria riforma del mercato del lavoro.

 

LA RISPOSTA AI COMMENTI

Grazie a tutti i lettori dei commenti, rispondo brevemente per punti ricalcando alcune delle osservazioni mosse.
1) Nei concorsi inglesi c’è l’ostacolo della domanda (application) che richiede un impegno significativo nella compilazione. Ottima osservazione, infatti per l’accesso al mondo del lavoro pubblico o privato le capacità attitudinali sono spesso molto più importanti delle competenze specifiche. In questo senso l’università di provenienza ha un impatto enorme perché Università come Oxford o Cambridge (e molte altre, naturalmente) offrono opportunità di crescita formativa extracurriculare e orientamento che sono tanto importanti quanto la preparazione accademica vera e propria, se non di più. E’ un altro esempio di una cultura basata più sulle competenze (transferable skills) che sui titoli. Un laureato che si sia dimostrato un finissimo giurista o matematico ma che non abbia dimostrato qualità manageriali e attitudine al ‘public service’ difficilmente passerà il concorso. Ottimi studiosi possono essere pessimi dirigenti pubblici.
2) Le università dovrebbero pubblicare le posizioni occupazionali dei loro laureati. Sono pienamente d’accordo e in Inghilterra molte università lo fanno, anche se a dire la verità tutte si tengono sul vago. È sicuramente un principio di trasparenza che andrebbe adottato. In Italia sarebbe interessante chiedere, oltre alla posizione professionale, il numero di giorni retribuiti lavorati all’anno.
3) La consultazione del ministero è tendenziosa. Purtroppo è vero, alcune domande obbligano a scegliere una soluzione per ripesare i voti anche quando il rispondente è contrario per principio. Può comunque essere interessante vedere, tra i contrari al ripesamento, quale opzione sia la meno osteggiata ma sarà un dato da non strumentalizzare.
4) Il sistema ‘pesi della laurea’ applicato al settore pubblico trasformerebbe le aspettative di chi si iscrive all’università. Concordo naturalmente che il voto di laurea sia un traguardo molto importante. Non sono però convinto che la maggioranza dei liceali si iscriva all’università pensando ai concorsi pubblici (almeno, mi auguro di no), anche perché questi sono aperti solo ad alcune classi di laurea in scienze sociali e legge. Più in generale, valorizzare i percorsi individuali vuol dire anche lasciare spazio alle commissioni per valutare il valore reale dei titoli caso per caso, senza imbrigliarsi in una gerarchia dei titoli sanzionata dallo stato– perlomeno, questa è l’esperienza anglosassone. Peraltro anche in Italia è già così per molti tra i concorsi migliori e più competitivi, come in Banca d’Italia dove il requisito d’accesso è un voto minimo di 105.
Se posso finire con una provocazione, si potrebbe cogliere l’occasione per abbandonare il nostro culto per i titoli e smettere di dare la qualifica di “dottore” a tutti i laureati. Soltanto in Italia non ci sono mai nomi propri – siamo tutti dottori. Si tratterebbe di poca cosa, simbolica al più, ma essere dottori solo fino al confine è francamente un po’ imbarazzante.

UN MEDICO BANCHIERE MONDIALE

Jim Yong Kim sarà il prossimo presidente della Banca Mondiale, confermando la tradizione della leadership americana alla testa dell’istituzione. La novità è che Kim non è un economista, ma un medico e antropologo, esperto di salute globale. In passato ha criticato l’approccio che vede la crescita economica come unico mezzo per ridurre la povertà e migliorare la qualità della vita. Il suo arrivo potrebbe essere un segnale forte in favore della ricerca di approcci alternativi allo sviluppo. E per avvicinare l’economia ai bisogni reali della popolazione.

SCANDALI NELLA SANITÀ: C’È BISOGNO DI GOVERNO

I recenti scandali nella sanità, legati al rapporto tra Servizio sanitario nazionale e settore privato, mettono in evidenza la debolezza del sistema di governance in un settore particolarmente esposto al rischio di utilizzi impropri delle risorse pubbliche e spesso di vera e propria corruzione. Pur senza mettere in discussione il ruolo delle Regioni, la questione va affrontata attraverso politiche nazionali. La scommessa è riuscire a disegnarle senza ricadere in un centralismo ottuso. Ma se vogliamo ridurre sprechi e inefficienze non ci sono alternative.

L’AMERICA E LA PROGRESSIVITÀ PERDUTA*

Il sistema fiscale degli Stati Uniti è troppo o troppo poco progressivo? Con i mutamenti verificatisi nell’economia mondiale, i guadagni e le disponibilità economiche di molte famiglie americane della classe media e delle fasce di reddito più basse sono rimasti stabili o addirittura diminuiti. Mentre sono cresciuti i redditi della fascia più alta. Allo stesso tempo, le aliquote fiscali sono scese solo per i redditi più alti. Dunque il sistema nel suo complesso è oggi meno progressivo. E ciò contribuisce a un aumento delle diseguaglianze che pone problemi seri per il futuro.

SE COMUNE VIRTUOSO FA RIMA CON MAFIOSO

Individuare una definizione condivisa di virtuosità è oggettivamente difficile. Si dovrebbe poi cercare di andare al di là del mero ambito finanziario e contabile, anche per evitare di inserire nella lista dei “buoni” comuni commissariati per infiltrazioni mafiose, come invece è accaduto. Una possibile alternativa è quella di privilegiare non tanto gli enti, quanto le spese e le politiche virtuose. In un’ottica pluriennale, i premi destinati agli enti locali in regola con i parametri potrebbero confluire in un fondo per l’attuazione di programmi ritenuti prioritari.

RISPOSTA AI COMMENTI

Rispondo in particolare al commento al mio articolo da parte gi Giorgio Ragazzi, che scrive:


Temo che l’introduzione di regole per ristrutturare “ordinatamente” il debito pubblico sarebbe controproducente per almeno quattro motivi:
1) farebbe immediatamente salire il costo della raccolta per i paesi in difficoltà, portandoli così più rapidamente al default;
2) le conseguenti perdite per il sistema bancario del paese aumenterebbero ancor più la percezione del “rischio paese”;
3) verrebbe ridotto lÂ’incentivo a risanare il bilancio pubblico (moral hazard);
4) non possono esservi ristrutturazioni “leggere”: per poter tornare a collocare titoli sul mercato dopo una ristrutturazione il debito pubblico dovrebbe essere ridotto attorno a valori molto bassi, ad esempio il 50-60% del Pil, e quindi gli effetti della ristrutturazione sull’economia ed il sistema bancario non potrebbero non essere disastrosi.
Non a caso regole di questo tipo non esistono in alcun paese al mondo. Quanto al sistema bancario, al di là delle regole comuni già esistenti, mi chiedo se sia realistico pensare di delegare ad un’autorità europea poteri specifici quali ad esempio limitare il finanziamento al settore immobiliare in Irlanda e Spagna (come sarebbe stato opportuno fare anni addietro) o vietare l’acquisto dell’Antonveneta da parte del Monte dei Paschi. A fronte di una così forte limitazione della sovranità nazionale, non si vede perché un’autorità europea dovrebbe svolgere questo compito meglio delle banche centrali nazionali. Se una banca va in crisi per suoi errori gestionali mi pare appropriato che a pagare sia lo stato la cui banca centrale non ha correttamente vigilato. Ben diverso il caso in cui la crisi della banca origini da difficoltà di raccolta dovute alla percezione di un “rischio paese”: se in questo caso l’Europa garantisse il salvataggio della banca sarebbe in sostanza una garanzia per il “rischio paese” simile a quella che potrebbe essere data per il debito pubblico del paese, che è proprio la politica cui strenuamente si oppongono la Germania ed altri paesi “virtuosi”.

Rispondo volentieri alle ragionevoli e ben note obiezioni a una procedura ufficiale per la ristrutturazione ordinata del debito pubblico. La Bce è stata la più sollecita nel sottolinearle. Ho volutamente sottoposto la mia idea per provocare dibattito. Nella sostanza l’idea corrisponde a quella che, a livello globale, il Fmi avanzò nel 2002 proponendo il Sovereign Debt Restructuring Mechanism (sul sito del Fmi sono ancora disponibili gli approfonditi documenti che accompagnarono la proposta), che fu poi bocciato per la pressione del governo Usa e delle grandi banche, convinte di poter gestir loro stesse, con privilegiata convenienza, le crisi di insolvenza per il quale il Fondo si proponeva invece come sede di una procedura “pubblica”, mirante a giustizia, prevedibilità e trasparenza. La stessa idea, di un default ufficiale, regolato e ordinato,  opportunamente preceduto da un obbligo di tentare il cosiddetto “Vienna approach”, era esplicita nella prima versione dell’European Stability Mechanism (ESM) approvata dal Consiglio Europeo nel 2011. Purtroppo nella versione attuale la cosa è molto meno chiara.

In riferimento ai punti specifici sollevati nel commento, osservo quanto segue.

Al punto 1): il costo della raccolta è salito comunque, di fronte all’evidenza constatata dai mercati; il default della Grecia c’è stato. Qualcuno accusa l’incontro di Deauville fra Merkel e Sarkozy, dove si ammise il principio del “coinvolgimento del settore privato”, un eufemismo per significare il default, di aver seminato il panico. Ma i tassi greci, e non solo quelli, erano saliti ben prima! E a quelli italiani credo abbiano nuociuto molto più le pasticciate convulsioni dei provvedimenti e delle dichiarazioni di Tremonti e Berlusconi che non Deauville. Al mercato suona ancor oggi non credibile, ai limiti della goffaggine, l’affermazione solenne dell’Ue secondo la quale la ristrutturazione “volontaria e privata” della Grecia rimarrà assoluta eccezione: sicché la procedura greca è ancora da concludere, in gran confusione, e basta un po’ di allarme portoghese, spagnolo o francese per trascinare anche l’Italia in un pericoloso aumento dello spread. Il panico si combatte con un fondo europeo capace di interventi consistenti sui contagi sistemici, non opponendosi ad approntare buone procedure per default ordinati e tempestivi.
Al punto 2): forse che le banche non soffrono oggi perdite “mark to market” e, ciononostante, sono chiamate a sottoscrivere ulteriori titoli dei (rispettivi!) governi proprio per evitare il loro default? Non è escludendo una procedura ufficiale per il default dei governi che si deve gestire l’impatto della crisi sulle banche: è piuttosto evitando di “obbligarle” a comprare titoli di Stato e assicurando buone procedure di default anche per loro! Cioè che ogni banca dell’eurozona possa basare la propria credibilità sul suo bilancio e non sulla sua nazionalità e abbia a disposizione una ugual procedura per la propria ristrutturazione e/o salvataggio, dovunque operi, con alle spalle un fondo d’emergenza finanziato dai governi europei (lo stesso ESM, meglio dotato e organizzato?).
Al punto 3): quale maggior azzardo morale che assicurare che i governi non falliscono? Fra lÂ’altro lÂ’unico vero modo per dare credibilmente tale assicurazione – visto che la solidarietà comunitaria non arriverà mai a dare garanzia quantitativamente sufficiente – è obbligare la Bce a sostituirsi al debito dei governi in caso di loro insolvenza di fatto: ma questo significherebbe stravolgere la preziosa costituzione monetaria che lÂ’Ue si è voluta dare. Ed è istruttivo che lÂ’avversione della Bce alla procedura di default ufficiale abbia avuto come principale risultato il suo maggior coinvolgimento, contro voglia, nel supporto dei governi e delle banche che acquistano i loro titoli.
Al punto 4): non vedo perché si debba arrivare al 50-60% del Pil: con un deficit in ordine e riforme strutturali in corso sul serio, si può tornare al mercato con % più alte, quali quelle che hanno oggi i maggiori debitori internazionali.

QUELLA CORRUZIONE SOMMERSA

Secondo l’Eurobarometro l’87 per cento dei cittadini italiani ritiene che la corruzione sia un serio problema. Ma non è semplice misurare il fenomeno. E per questo si ricorre a indici di percezione che, pur con qualche limite, riescono a cogliere i livelli di diffusione della corruzione incontrata dai cittadini nella loro esperienza quotidiana. L’Italia negli ultimi anni ha visto un significativo peggioramento della sua posizione relativa nelle classifiche di questo tipo, a cui non corrisponde un aumento dei processi penali. Insomma, si tratta di crimini impuniti.

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