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RISPOSTA AI COMMENTI

Rispondo in particolare al commento al mio articolo da parte gi Giorgio Ragazzi, che scrive:


Temo che l’introduzione di regole per ristrutturare “ordinatamente” il debito pubblico sarebbe controproducente per almeno quattro motivi:
1) farebbe immediatamente salire il costo della raccolta per i paesi in difficoltà, portandoli così più rapidamente al default;
2) le conseguenti perdite per il sistema bancario del paese aumenterebbero ancor più la percezione del “rischio paese”;
3) verrebbe ridotto lÂ’incentivo a risanare il bilancio pubblico (moral hazard);
4) non possono esservi ristrutturazioni “leggere”: per poter tornare a collocare titoli sul mercato dopo una ristrutturazione il debito pubblico dovrebbe essere ridotto attorno a valori molto bassi, ad esempio il 50-60% del Pil, e quindi gli effetti della ristrutturazione sull’economia ed il sistema bancario non potrebbero non essere disastrosi.
Non a caso regole di questo tipo non esistono in alcun paese al mondo. Quanto al sistema bancario, al di là delle regole comuni già esistenti, mi chiedo se sia realistico pensare di delegare ad un’autorità europea poteri specifici quali ad esempio limitare il finanziamento al settore immobiliare in Irlanda e Spagna (come sarebbe stato opportuno fare anni addietro) o vietare l’acquisto dell’Antonveneta da parte del Monte dei Paschi. A fronte di una così forte limitazione della sovranità nazionale, non si vede perché un’autorità europea dovrebbe svolgere questo compito meglio delle banche centrali nazionali. Se una banca va in crisi per suoi errori gestionali mi pare appropriato che a pagare sia lo stato la cui banca centrale non ha correttamente vigilato. Ben diverso il caso in cui la crisi della banca origini da difficoltà di raccolta dovute alla percezione di un “rischio paese”: se in questo caso l’Europa garantisse il salvataggio della banca sarebbe in sostanza una garanzia per il “rischio paese” simile a quella che potrebbe essere data per il debito pubblico del paese, che è proprio la politica cui strenuamente si oppongono la Germania ed altri paesi “virtuosi”.

Rispondo volentieri alle ragionevoli e ben note obiezioni a una procedura ufficiale per la ristrutturazione ordinata del debito pubblico. La Bce è stata la più sollecita nel sottolinearle. Ho volutamente sottoposto la mia idea per provocare dibattito. Nella sostanza l’idea corrisponde a quella che, a livello globale, il Fmi avanzò nel 2002 proponendo il Sovereign Debt Restructuring Mechanism (sul sito del Fmi sono ancora disponibili gli approfonditi documenti che accompagnarono la proposta), che fu poi bocciato per la pressione del governo Usa e delle grandi banche, convinte di poter gestir loro stesse, con privilegiata convenienza, le crisi di insolvenza per il quale il Fondo si proponeva invece come sede di una procedura “pubblica”, mirante a giustizia, prevedibilità e trasparenza. La stessa idea, di un default ufficiale, regolato e ordinato,  opportunamente preceduto da un obbligo di tentare il cosiddetto “Vienna approach”, era esplicita nella prima versione dell’European Stability Mechanism (ESM) approvata dal Consiglio Europeo nel 2011. Purtroppo nella versione attuale la cosa è molto meno chiara.

In riferimento ai punti specifici sollevati nel commento, osservo quanto segue.

Al punto 1): il costo della raccolta è salito comunque, di fronte all’evidenza constatata dai mercati; il default della Grecia c’è stato. Qualcuno accusa l’incontro di Deauville fra Merkel e Sarkozy, dove si ammise il principio del “coinvolgimento del settore privato”, un eufemismo per significare il default, di aver seminato il panico. Ma i tassi greci, e non solo quelli, erano saliti ben prima! E a quelli italiani credo abbiano nuociuto molto più le pasticciate convulsioni dei provvedimenti e delle dichiarazioni di Tremonti e Berlusconi che non Deauville. Al mercato suona ancor oggi non credibile, ai limiti della goffaggine, l’affermazione solenne dell’Ue secondo la quale la ristrutturazione “volontaria e privata” della Grecia rimarrà assoluta eccezione: sicché la procedura greca è ancora da concludere, in gran confusione, e basta un po’ di allarme portoghese, spagnolo o francese per trascinare anche l’Italia in un pericoloso aumento dello spread. Il panico si combatte con un fondo europeo capace di interventi consistenti sui contagi sistemici, non opponendosi ad approntare buone procedure per default ordinati e tempestivi.
Al punto 2): forse che le banche non soffrono oggi perdite “mark to market” e, ciononostante, sono chiamate a sottoscrivere ulteriori titoli dei (rispettivi!) governi proprio per evitare il loro default? Non è escludendo una procedura ufficiale per il default dei governi che si deve gestire l’impatto della crisi sulle banche: è piuttosto evitando di “obbligarle” a comprare titoli di Stato e assicurando buone procedure di default anche per loro! Cioè che ogni banca dell’eurozona possa basare la propria credibilità sul suo bilancio e non sulla sua nazionalità e abbia a disposizione una ugual procedura per la propria ristrutturazione e/o salvataggio, dovunque operi, con alle spalle un fondo d’emergenza finanziato dai governi europei (lo stesso ESM, meglio dotato e organizzato?).
Al punto 3): quale maggior azzardo morale che assicurare che i governi non falliscono? Fra lÂ’altro lÂ’unico vero modo per dare credibilmente tale assicurazione – visto che la solidarietà comunitaria non arriverà mai a dare garanzia quantitativamente sufficiente – è obbligare la Bce a sostituirsi al debito dei governi in caso di loro insolvenza di fatto: ma questo significherebbe stravolgere la preziosa costituzione monetaria che lÂ’Ue si è voluta dare. Ed è istruttivo che lÂ’avversione della Bce alla procedura di default ufficiale abbia avuto come principale risultato il suo maggior coinvolgimento, contro voglia, nel supporto dei governi e delle banche che acquistano i loro titoli.
Al punto 4): non vedo perché si debba arrivare al 50-60% del Pil: con un deficit in ordine e riforme strutturali in corso sul serio, si può tornare al mercato con % più alte, quali quelle che hanno oggi i maggiori debitori internazionali.

QUELLA CORRUZIONE SOMMERSA

Secondo l’Eurobarometro l’87 per cento dei cittadini italiani ritiene che la corruzione sia un serio problema. Ma non è semplice misurare il fenomeno. E per questo si ricorre a indici di percezione che, pur con qualche limite, riescono a cogliere i livelli di diffusione della corruzione incontrata dai cittadini nella loro esperienza quotidiana. L’Italia negli ultimi anni ha visto un significativo peggioramento della sua posizione relativa nelle classifiche di questo tipo, a cui non corrisponde un aumento dei processi penali. Insomma, si tratta di crimini impuniti.

LA RISPOSTA AI COMMENTI

Innanzi tutto, vogliamo ringraziare i tantissimi lettori che, con i loro interessanti commenti interessanti, ci consentono di spiegare meglio alcuni punti che per motivi di spazio avevamo solo accennato nel nostro articolo.

CONSEGUENZE SOCIALI DEL FUORICORSISMO

Molti lettori si chiedono: Perché il fuoricorsismo dovrebbe essere un problema?
Siamo d’accordo sul fatto che gli studenti fuoricorso non incidano più di tanto sulle dotazioni di capitale fisico e umano delle università, dal momento che frequentano poco. È anche vero che il costo aggiuntivo di studenti in più ai corsi o agli esami è zero, ma la massa dei fuoricorso è così rilevante che incide inevitabilmente nell’organizzazione di corsi, esami, orari di ricevimento e di conseguenza anche nelle attività di ricerca. La quota dei fuoricorso, pertanto, riduce la produttività  sia degli studenti in corso sia dei docenti. Esiste, poi, un costo vivo e monetizzabile. Ogni anno il Ministero stanzia fondi destinati specificatamente alle attività di tutorato in favore dei fuoricorso che (ancorché insufficienti) potrebbero essere indirizzati ad altre iniziative.
C’è poi un discorso più ampio da fare. Il fuoricorsismo è una forma di spreco delle risorse pubbliche. Le tasse degli studenti coprono a malapena il 10 per cento del costo complessivo di uno studente universitario. Il resto del costo è sostenuto dalla fiscalità generale, che lo assume con la finalità di accrescere la dotazione di capitale umano nella società – in quanto ad essa sono associate le esternalità positive – e migliorare le prospettive di accesso al mercato del lavoro e reddito degli individui. Più alta è l’offerta di capitale umano e la qualità dello stesso, maggiore è anche lo sviluppo della società nel suo complesso. La formazione di un laureato non è quindi il risultato solo di scelte individuali, ma richiede anche un investimento pubblico che trova la sua giustificazione nei rendimenti sociali attesi. Ma se i fuoricorso acquisiscono una istruzione di minore qualità, quando non abbandonano come accade sempre più spesso, l’investimento fatto su di loro da parte della collettività si trasforma in spreco di risorse pubbliche.

LE CONSEGUENZE INDIVIDUALI

La minore qualità dell’istruzione acquisita dai fuoricorso si comprende se si pensa che il capitale umano sia soggetto a forte obsolescenza. Per verificare la perdita di valore del capitale umano acquisito dai fuoricorso, si può vedere come cambia il rendimento della loro istruzione rispetto a quella degli studenti che si laureano in corso. Un recente lavoro di Aina e Casalone (1) mostra che i laureati del vecchio ordinamento (VO), osservati a 1-3-5 anni dalla laurea hanno una minore probabilità di trovare un impiego se il ritardo maturato è superiore ai due anni, segnalando come il lato della domanda discrimini tra i laureati solo oltre una determinata soglia, riconoscendo come fisiologico nel sistema italiano laurearsi non in tempo (l’inserimento nel mercato del lavoro è però più favorevole per i fuoricorso che, malgrado il ritardo elevato accumulato, abbiano maturato esperienze lavorative durante l’università). Si evidenzia, inoltre, come il ritardo comporti una penalizzazione salariale che risulta più marcata quando il ritardo è significativo. Considerando la tendenza comune per i laureati del VO a completare gli studi con 1-2 anni di fuoricorso, la penalizzazione emerge dal terzo anno di ritardo in poi. Tale penalizzazione, fra l’altro, persiste nel tempo, anziché ridursi come dovrebbe accadere nel caso in cui il laurearsi (molto) fuoricorso rappresentasse una sorta di stigma temporaneo che ha effetti nella fase di ingresso nel mercato del lavoro ma che svanisce nel momento in cui si è occupati.  Questo risultato evidenzia pertanto  che coloro che si laureano con molto ritardo non sono studenti che approfondiscono di più (magari è così ma non possiamo saperlo) ma sono studenti meno bravi/organizzati che anche nel mercato del lavoro appaiono come lavoratori meno “produttivi”. Di conseguenza il mercato li ripaga offrendo loro salari più bassi e una carriera retributiva meno dinamica. Tuttavia il fuoricorso se associato a studenti lavoratori (ovvero che hanno maturato qualche esperienza lavorativa, seppur non continuativa) comporta una minore  penalizzazione, in quanto il mercato del lavoro riconosce un valore monetario aggiuntivo all’esperienza lavorativa già conseguita. Sembra dunque emergere una sorta di mix ottimale tra ritardo alla laurea ed esperienza lavorativa che consente di massimizzare il rendimento del titolo di studio.
Un altro studio recente (2) mostra che essere fuoricorso aumenta la probabilità di essere occupati in un posto di lavoro per il quale è sufficiente un titolo inferiore alla laurea (cosiddetta overeducation) e di percepire un salario del 7 per cento circa inferiore al salario medio di un laureato.
Ciò suggerisce quindi che la tesi, stranamente molto diffusa, secondo cui laurearsi velocemente comporta uno scadimento qualitativo della formazione è smentita dall’evidenza empirica. A tal fine l’idea che più tempo si impiega per laurearsi migliore è la preparazione vale a due condizioni: la prima è che il tempo in più sia effettivamente utilizzato per studiare, ma questo spesso non è il caso dei fuoricorso; la seconda è che ci si specializzi, piuttosto che studiare nuove materie solo a livello introduttivo.  La riforma del “3+2” offriva la prospettiva di dividere la formazione di base da quella specialistica proprio per consentire un maggiore approfondimento ed un innalzamento qualitativo della formazione terziaria.  Purtroppo, però, come notano anche molti lettori, il biennio specialistico è stato interpretato dai docenti come un mero proseguimento del percorso iniziato nel triennio. Ciò, unitamente al mancato riconoscimento della laurea triennale nel mondo del lavoro, ha fatto in buona parte fallire la riforma, con la conseguenza che il percorso di studi anziché accorciarsi si è ulteriormente allungato.

ALTRE CONSEGUENZE NEGATIVE

È vero che la vita media si è allungata, ma rinviare la laurea, spesso per diversi anni, comporta anche la tendenza a posticipare il momento in cui si costituisce una famiglia e si fanno figli, con effetti evidenti anche sul tasso di natalità. Non va dimenticato, poi, che ai tempi lunghissimi del conseguimento del titolo universitario si aggiungono quelli non meno lunghi della transizione dall’università al lavoro.

ANCORA SULLE CAUSE

Siamo dÂ’accordo sul fatto che il nostro articolo non prende in considerazione tutte le possibili cause del fenomeno. In particolare un punto sollevato da alcuni lettori ci sembra piuttosto rilevante: quale lÂ’eccessiva mole di lavoro richiesta agli studenti per laurearsi. Questo può essere il caso di alcune singole realtà che non hanno voluto rimodulare i programmi degli insegnamenti in modo da renderli coerenti con il percorso del 3+2. Tuttavia occorre notare che lo strumento dei crediti formativi universitari (cosiddetti CFU) è nato proprio con questo obiettivo, ovvero rendere i carichi di lavoro sostenibili e, soprattutto, uniformi a livello nazionale ed europeo (questo facilita il riconoscimento dei titoli di studio conseguiti allÂ’estero e dei singoli esami sostenuti ad esempio con il programma Erasmus). Fra lÂ’altro poco importa (o dovrebbe importare) in quanti pezzetti viene smembrato un singolo esame. Per laurearsi alla laurea triennale lo studente deve aver conseguito 180 CFU e non può aver sostenuto più di 20 esami (chi scrive di 40 esami per conseguire la laurea confonde lÂ’esame vero e proprio – quello registrato sul libretto per intenderci – con gli esoneri/parziali, ecc.).  Lo strumento del credito è utile però anche per capire perché ci sono tanti studenti che non si laureano in tempo. Considerando che in media occorre conseguire 60 CFU lÂ’anno e che ad ogni CFU dovrebbero corrispondere 25 ore di lavoro per lo studente (in cui sono comprese le ore di didattica frontale), risulta che per superare tutti gli esami di un anno lo studente “medio” dovrebbe impegnarsi per 1500 ore lÂ’anno (60×25). Considerato che, secondo i dati OCSE, il numero medio di ore lavorate allÂ’anno da un lavoratore italiano è pari a poco meno di 1800, di fatto lo studio universitario – se si vuole rimanere al passo con gli esami – è un impegno a tempo pieno e, di conseguenza, lo spazio per attività extra (lavorative e non) è davvero limitato. Forse di questo molti studenti, allÂ’atto dellÂ’iscrizione, non si rendono pienamente conto .
Veniamo al ruolo dell’orientamento. Noi non conosciamo studi che leghino l’efficacia dell’orientamento con le performance degli studenti, anche se siamo d’accordo sulla loro utilità. Volutamente non siamo entrati nel dibattito su come dovrebbe essere organizzato l’orientamento perché sappiamo essere un tema estremamente complesso. Certamente un’attività di orientamento più efficace avrebbe – fra gli altri – il merito di rendere le scelte dei ragazzi più slegate dalla dotazione di capitale culturale delle famiglie di provenienza e, quindi, aumentare l’efficacia del sistema formativo nel suo complesso.
Quanto al problema che sarebbe rappresentato dallo scarso numero di appelli noi pensiamo l’esatto contrario. Riteniamo infatti che avere più possibilità di dare gli esami durante l’anno in realtà sia deleterio per gli studenti, specie per quelli meno organizzati/motivati che posticipano gli esami o li tentano varie volte. Nella maggior parte dei paesi gli studenti devono sostenere gli esami alla fine del corso e hanno poi una sola possibilità di recupero nel caso non li superassero. In questo modo è impossibile posticipare e si capisce subito chi è in grado di proseguire con il percorso di studi e chi no.

(1) Aina, C. e  Casalone, G. “Does  time-to-degree matter? The effect of delayed graduation on employment and wages”, AlmaLaurea Working Papers n° 38, 2011
(2) Aina, C. e F. Pastore, 2012, “Delayed Graduation and Overeducation: A Test of the Human Capital Model versus the Screening Hypothesis”, IZA discussion paper, n° 6413

MENO VALORE ALLA LAUREA E PIÙ ACCESSO ALLE PROFESSIONI

La consultazione del governo sul valore legale del titolo di studio chiede come favorire la competizione al rialzo tra le università sul modello anglosassone e così superare la cultura del “pezzo di carta”. C’è però il rischio di incagliarsi su meccanismi tecnici pericolosi, come il ripesamento dei titoli e voti di laurea. La priorità invece è aprire ai giovani l’accesso a concorsi e professioni, valorizzando la varietà dei percorsi individuali di studio.

COME FUNZIONA IL “RIMBORSO” ELETTORALE

Nell’arco di una legislatura lo Stato elargisce ai partiti più di un miliardo a titolo di rimborso di spese elettorali . Come si arriva a questa cifra? Dopo l’abolizione per via referendaria del finanziamento ai partiti, varie leggi hanno continuato a gonfiare questo importo, fino a perdere ogni legame con la logica del rimborso. Per tornare allo spirito originario, non bastano le recenti riduzioni, ma occorre un nuovo meccanismo.

IL REALISMO SECONDO MONTI

Il Documento di Economia e Finanza aggiorna al ribasso il quadro macroeconomico e di finanza pubblica 2012 e rinvia al futuro eventuali revisioni più cospicue della crescita 2013. Corregge anche al ribasso  le stime degli effetti dei decreti concorrenza e semplificazione sulla crescita. Nel complesso è un utile bagno di realismo. L’incertezza sulle stime anche a breve suggerisce di non adottare nessuna manovra correttiva. Anche perché non è dallo sforamento del deficit che vengono i problemi di finanza pubblica dell’Italia, ma dal debito pubblico. Ma sul debito il Def tace.

QUANDO I TITOLI DI STATO ZAVORRANO LE BANCHE

Nei mesi scorsi la Bce ha effettuato due operazioni per immettere liquidità nel mercato. Le banche italiane l’hanno utilizzata per acquisire titoli obbligazionari. E infatti siamo uno dei pochi paesi che ha mostrato un aumento dell’incidenza dei titoli in portafoglio, mentre nel complesso dell’area euro è diminuita. Anche il rapporto tra titoli in portafoglio e capitale delle banche è cresciuto di quasi 40 punti percentuali, fino a toccare il livello del 220 per cento nel febbraio 2012. Ecco perché l’Eba ha chiesto alle banche italiane una iniezione di capitale.

PER LA CURA DEI BAMBINI NON BASTANO I NONNI

Il ruolo dei nonni è sempre più spesso ripreso dai media (ma negli ultimi giorni anche dalla politica) per il contributo che danno all’organizzazione della vita familiare. Diverse ricerche dimostrano che l’aiuto dei nonni aumenta la probabilità che una madre lavori ma anche la probabilità che abbia un altro figlio. In entrambi i casi, però, l’effetto risulta più forte  in paesi come l’Italia, la Spagna e la Grecia, dove la disponibilità di servizi pubblici per la prima infanzia è molto bassa o, come dicono molti, dove la famiglia è molto presente. Senza togliere nulla all’importanza della famiglia nel nostro contesto culturale, occorre sfatare il mito che sia importante solo nei paesi del Sud Europa. In particolare, la percentuale dei nonni che aiutano i figli prendendosi cura dei nipoti è relativamente alta in molti paesi Europei: in Germania il 43 per cento dei nonni aiuta, in Svizzera il 37 per cento, in Svezia il 21 per cento, mentre in Italia e in Grecia il 48 per cento. La ragione per la quale i nonni italiani (o greci) sono differenti risiede nell’intensità dell’aiuto che danno, aiutando quasi tutti i giorni full-time piuttosto che qualche volta a settimana o in situazioni improvvise (malattie del nipote, per esempio).

LA POLITICA DEVE INCENTIVARE ALTRE SOLUZIONI

Partendo dal presupposto che ogni famiglia deve poter scegliere come curare il proprio bambino, penso sia importante, per diverse ragioni, che la disponibilità dei nonni non diventi la riposta che la politica dà alla questione della cura dei bimbi piccoli (come fatto, ad esempio, con la proposta sui congedi).
In primo luogo, non tutte le famiglie hanno i nonni a disposizione: perché lontani, perché in cattiva salute, perché non più in vita. Una politica pubblica in questa direzione tende quindi ad aumentare le diseguaglianze tra le famiglie ed ad essere iniqua. Si pensi anche ai bambini immigrati, per esempio. Una politica del genere va anche contro l’idea di mobilità dei lavoratori, che dovrebbe caratterizzare un “buon” mercato del lavoro.
Una seconda ragione risiede nel fatto, dimostrato, che per i nonni può essere faticoso e quasi impossibile seguire più bambini piccoli allo stesso tempo (ad esempio, due nipoti da due fratelli) o per molti anni. Se, quindi non si vuole rientrare nella logica del figlio unico, i nonni non possono essere l’unica soluzione. Infine, non conosciamo ancora bene quali effetti abbia la cura dei nonni rispetto alla cura materna o alla cura che un bambino riceve in un asilo. Se possiamo dire con certezza che la cura dei nonni può essere ricca di amore e attenzione, non sappiamo se – in particolare  per alcuni bambini – altre modalità di cura non siano migliori (si pensi all’asilo in questi due casi: per l’importanza della lingua italiana per un bambino immigrato; o per l’importanza di giocare per un bambino senza fratelli o cugini).

IDEONA: IL PAREGGIO DI BILANCIO!

Il Senato ha approvato in seconda lettura e con la maggioranza dei due terzi dei parlamentari (dunque senza richiedere un referendum confermativo) la legge che introduce nella nostra Costituzione l’obbligo del bilancio in pareggio. A distanza di meno di 24 ore il governo ha varato il Documento di Economia e Finanza (Def) che sancisce che l’obiettivo del pareggio di bilancio non verrà raggiunto nel 2013, come il nostro Paese si era impegnato a livello europeo, ma, nella migliore delle ipotesi nel 2015. Secondo il Fondo Monetario dovremo attendere addirittura fino al 2017 per centrare questo obiettivo. Abbiamo perciò introdotto nella nostra Costituzione  un principio per violarlo fin dall’inizio? Non si rischia in questo modo di ulteriormente indebolire la Costituzione che dovrebbe invece racchiudere norme non facilmente derogabili e modificabili dal Parlamento? In realtà, la tabella sugli obiettivi di finanza pubblica contiene una nota che sostiene che non solo “l’obiettivo sarà raggiunto, ma anche ampiamente superato in termini strutturali (corsivo nostro)”. In altre parole, ci sarà un deficit ma solo perché il livello del Pil sarà molto basso a causa del ciclo economico sfavorevole. Il bilancio aggiustato per il ciclo sarà in attivo già nel 2013. Tutto bene, dunque? Il problema è che, come scriveva Martin Wolf sul Financial Times, nessuno sa cosa precisamente sia il bilancio aggiustato per il ciclo o il disavanzo strutturale. Ad esempio, nel 2007 il Fondo Monetario Internazionale accreditava la Spagna di un surplus strutturale consistente e l’Irlanda di un bilancio strutturalmente in pareggio. A quattro anni di distanza, il Fondo aveva rivisto le stime del bilancio strutturale per questi stessi paesi concludendo che entrambi i paesi nel 2007 erano in deficit di bilancio e l’Irlanda addirittura di più dell’8 per cento. Come è possibile dare forza di legge a stime che sono, per la loro stessa natura, fortemente aleatorie? E chi farà tali stime? Sarà il governo stesso a stabilire l’entità dello scostamento ciclico? O dovremo chiedere alla Corte Costituzionale di imparare l’econometria? A inizio agosto 2011, nel commentare l’intenzione del Governo Berlusconi di introdurre il bilancio in pareggio in Costituzione, citavamo un proverbio turco “Se stai annegando ti aggrappi anche a un serpente”. Per fortuna, grazie al Governo Monti, ci siamo un po’ allontanati dal rischio di annegamento. Proprio per questo pensiamo sarebbe meglio trovare modi più convincenti nel rendere credibile il nostro impegno di rientro del debito. Invece di imitare il Ministro Tremonti il quale, per stimolare la crescita, voleva cambiare l’articolo 41 della Costituzione, sarebbe meglio iniziare facendo sul serio la spending review, a partire dai capitoli di spesa che sono oggi sotto gli occhi di tutti gli italiani perché contornati di episodi di corruzione: la spesa sanitaria e i costi della politica, in primis rivedendo le norme sul finanziamento pubblico ai partiti. Parafrasando il Ministro Passera, crediamo possano venire maggiori benefici dall’attuazione di ideuzze concrete su come tagliare la spesa che dall’ideona del pareggio di bilancio in Costituzione.

MA IL LAVORO DEI NOTAI È UTILE PER IL PAESE *

“Quei notai che lavorano gratis per il bene del Paese” di Andrea Zorzi sulla nuova srl per i giovani, è imbarazzante. A parte che lÂ’atto notarile non sarà “apparentemente gratis” ma veramente gratis, la forma libera per costituire una srl, avrebbe smentito i moderni modelli statuali che per proteggere la sicurezza pubblica economica delegano a pubbliche funzioni guardiane nel ruolo di “sensori avanzati” sul territorio, il monitoraggio delle migliaia di operazioni che la pubblica amministrazione non è più in grado di controllare. Vero che la Germania con la riforma delle s.r.l. nel 2008 prevede uno statuto su modulo standard. Ma Zorzi non ricorda che: “Inizialmente si era pensato di eliminare la necessità dell’atto notarile. Ma poi si è deciso di soprassedere data l’importante funzione della consulenza e dell’avvertimento notarili.” (1). Senza controllo pubblico notarile si sarebbe aperta una voragine nel sistema antiriciclaggio: il conservatore del Registro Imprese non ha obblighi di verifica della clientela, né di due diligence su scopo e natura dellÂ’operazione e sul suo profilo di rischio (2). Senza questi controlli svolti dai notai, avremmo affrancato la società semplificata a responsabilità limitata dal sistema antiriciclaggio, varando vascelli fantasma, ottimi per ogni finalità opaca o illecita, vere società off-shore di diritto italiano! E adieu sicurezza pubblica economica, salvaguardia del mercato e tutto ciò che mette a repentaglio valori collettivi di rilevanza pubblicistica, essendo risaputo che questo tipo di società raccoglie ricchezze enormi che sarebbero state rese assai “volatili” e sostanzialmente anonime. Cosa ci sarebbe voluto a usare documenti di un under 35 rubati, o di un morto?
Questa petulante richiesta di abolizione del notariato, tocca il tema delle modalità dell’immissione delle vicende giuridiche nel circuito della legalità economica: l’ordinamento italiano prevede la verifica ex ante per mezzo di una autorità pubblica quale “organo di validazione” terzo e neutro. In termini economici, questo è una completa “infrastruttura di certezza” che consente la libera azione degli interessi delle parti, in un contesto regolato e arbitrato da chi interessi propri non ha.

IL RISCHIO DEGLI ABUSI NEL SISTEMA DI AUTO-CERTIFICAZIONE

La forma autentica è cruciale nel mondo moderno anche ai fini della certezza dell’identità delle parti e della filiera rappresentativa nelle persone giuridiche. Lo dimostra negli USA il boom di truffe, di identity frauds e identity thefts. Un rapporto Fbi (3) parla di una crescita del 71 per cento dal 2008 al 2009 delle frodi, e di prestiti fraudolenti per 14 miliardi di dollari. E’ la dimostrazione che un sistema di auto-certificazione si presta ad abusi, fino a falsificare documenti.
Negli USA si sta sviluppando l’idea che ci debba essere un soggetto terzo e imparziale che certifica chi sia l’utente: un sistema di controlli molto simile a quello notarile italiano. Sta passando quindi anche negli Usa lÂ’idea che nelle “società aperte” siano necessari dei pubblici soggetti intermediari che diano garanzie specifiche e con responsabilità ben determinate. Poter commettere furti di identità è un potente “mantello di anonimato” per criminali e terroristi e un pericolo per la sicurezza nazionale. La Federal Trade Commission (Ftc) nel 2006 stima che 8,3 milioni gli utenti americani (3,7 per cento della popolazione adulta), sono rimasti vittime di furto di identità nel 2005. Questo, a prescindere dal fatto se sia preferibile un ordinamento a matrice legale inquadrata in valori generali di giustizia e di ordine pubblico, che pretende di validare una nuova situazione giuridica, prima che entri nel circuito della legalità con effetto di verità legale verso tutti: un ordinamento che sia “spazio di giustizia” può consentirla solo se supera un preventivo test di legalità, svolto da un organo sovrano di validazione, terzo super partes.

L’AFFIDABILITÀ DEL SISTEMA NOTARILE

Andiamo pure ai luoghi comuni sul notaio. Chi dice di non aver bisogno che qualcuno gli dica che lui è lui, dice un’ovvietà, che capirà quando qualcun altro gli ruberà la casa perché nessuno verificava chi fosse. In Italia questo problema sociale è inesistente. Si chieda a un italiano se è sicuro di essere proprietario di casa sua; risponderà di sì perché possiede il rogito. La risposta sarà la stessa se si chiede ad un italiano se ha timore che qualcuno usi il suo nome per ipotecargli casa per prendersi un mutuo e sparire lasciandogli il debito. Ma il rogito non è un prodotto naturale del mercato, che non lo produce affatto, perché anzi produce i fallimenti allÂ’americana (subprime; esecuzioni immobiliari sospese in 23 stati per l’incertezza sui  proprietari e per un’infinità di frodi anche da parte delle banche che firmavano per conto dei clienti con il pantografo c.d. robo-signing). Il sistema notarile della certezza della titolarità dei beni e della loro circolazione è, in Italia, così affidabile, da far sembrare che esso sia nella natura delle cose, mentre è il frutto di un fortunato equilibrio sostenuto dal sapiente modello legale infrastrutturale fra notai e pubblici registri.
Maggiore è la certezza giuridica, più sono tutelati i rapporti economici e la sostenibilità sociale. Perciò, se si guarda all’intero arco di vita di un rapporto giuridico, e non solo all’istante della firma davanti rogito, il costo del controllo notarile preventivo di legalità sostanziale è efficiente, perché è minore della spesa a posteriori per ricostruire altrimenti la certezza del diritto. Invece, vedo solo luoghi comuni, e mai la seria analisi costi/benefici di un modello alternativo al notariato. Forse perché i servizi legali di certezza del diritto fanno gola a certe strutture di stampo anglosassone; o perché un mercato ormai compulsivo deve sbarazzarsi della dellÂ’infrastruttura di civica sussidiarietà che da secoli ha il compito sociale di riempire con i propri saperi gli spazi di protezione dei cittadini, altrimenti soli alla mercè dei poteri “forti”. Il pubblico guardiano non è fattore di distorsione del mercato, ma garante del level playing field della concorrenza. Allora, vogliamo cominciare ad affrontare seriamente la questione, almeno?

* Di Cesare Licini, notaio

(1) Il Sole 24 ORE , 1 ottobre 2008
(2)
C.2 dellÂ’art. 10, D.Lgs n. 231/2007
(3)
Mortgage Fraud Report 2009

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