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ARMI SPUNTATE CONTRO LA CORRUZIONE

La Camera discuterà presto il disegno di legge anticorruzione, già approvato dal Senato nel giugno 2011. Se la proposta diventasse legge, si rafforzerebbe il contrasto della corruzione? Probabilmente no perché il Ddl non prevede strumenti idonei a combattere il fenomeno, come invece è stato fatto in altri paesi. Soprattutto, non contempla ipotesi di non punibilità collegate a forme di collaborazione che spezzino dall’interno il vincolo di omertà tra corrotto e corruttore. Ma nessuna economia può reggere un costo della corruzione dell’ordine di 60 miliardi l’anno.

LA VIA INGLESE AL COLLOCAMENTO

Oggi i Centri per l’impiego non riescono a soddisfare tutte le richieste di chi è alla ricerca di un lavoro, con risultati ben inferiori a quelli dei servizi pubblici inglesi o tedeschi. Per migliorare il servizio di intermediazione tra domanda e offerta di lavoro, sarebbe opportuno adottare strategie presenti ad esempio nel Regno Unito. Qui l’attività di intermediazione è interamente delegata all’attore privato, sulla base di gare di appalto o convenzioni, in modo da aumentare le chance occupazionali dei disoccupati più svantaggiati.

AGEVOLAZIONI AGLI INQUILINI, NON AI PROPRIETARI

Anche nel migliore dei casi, l’istituzione della cedolare secca comporta una perdita di gettito per l’erario di circa un miliardo. Una cifra simile basterebbe per concedere a tutte le famiglie italiane che potrebbero averne diritto il contributo previsto dal fondo sociale per l’affitto, abolito dall’ultimo governo Berlusconi. Trasferire risorse dai proprietari di case a favore degli inquilini risponde a criteri di equità. E nello stesso tempo aiuta la crescita perché la misura si rivolgerebbe a famiglie  con redditi bassi, elevando perciò la propensione al consumo.

CAUSE DI LAVORO, LA GIUSTIZIA VIRTUOSA

Non conosco la fonte dalla quale Andrea Ichino e Paolo Pinotti ricavano le cifre sulla durata del processo del lavoro nei Tribunali di Milano, Roma, Torino riportate nell’articolo del 3 marzo scorso .
Posso solo rilevare che si tratta di ricerca abbastanza datata e, per ciò stesso, di limitata utilità per una analisi riferita al momento attuale: in questa materia in continua evoluzione legislativa e giurisprudenziale, otto anni sono un tempo lunghissimo.
Se i due autori avessero cercato dati più aggiornati, avrei potuto informarli del fatto che nel 2011 la durata media del processo del lavoro a Milano è stata di 185 giorni.
E questo nonostante che, nello stesso anno,  il numero della cause nuove abbia registrato un incremento del  40 per cento rispetto all’anno precedente; cui ha corrisposto una significativa crescita del numero dei procedimenti definiti dai giudici, aumentato del 6,7 per cento  rispetto al 2010.
Si tratta di risultati, credo, degni di nota; resi possibili da un impegno lavorativo estremo dei giudici di Milano (al pari della maggior parte delle altre sedi giudiziarie), la cui portata risalta ancor più se si considera che il Tribunale del Lavoro di Milano ha un numero di giudici pari a un terzo di quello di altri Tribunali di analoghe dimensioni.

DUE TIPI DI CAUSE PER LICENZIAMENTO

Credo, poi, che l’analisi andrebbe affinata anche a proposito delle 11 mila cause di licenziamento considerate dai due autori. Infatti, sarebbe necessario, prima di trarre conclusioni, vedere quante di queste riguardano la “stabilità reale”, cioè l’obbligo di reintegrare nel posto di lavoro il lavoratore licenziato ingiustamente. Se una analisi del genere fosse stata fatta (magari con riferimento a dati più aggiornati), molto verosimilmente avrebbe mostrato che la maggior parte delle cause di licenziamento riguarda situazioni di  “stabilità obbligatoria”, nelle quali il datore di lavoro può scegliere se riassumere o pagare una somma al dipendente .
Ho ritenuto utile fornire queste poche cifre, sia perché ritengo giusto far conoscere un caso (non l’unico, per altro) di amministrazione della giustizia “virtuosa”, il cui merito va riconosciuto doverosamente ai giudici del Tribunale del Lavoro e alle modalità organizzative introdotte dalla presidenza del tribunale di Milano; sia perché credo che la precisione dei dati favorisce la correttezza delle analisi e la congruità delle conclusioni  e delle proposte che se ne traggono (e credo che su ciò i due autori saranno d’accordo).

 MA IL PROCESSO NON È UN JUKE BOX

Suscita, poi, molte perplessità l’accostamento (fatto nel titolo e nel testo) fra la decisione del processo e la roulette russa.
L’incertezza sull’esito  finale e sulla decisione del giudice, infatti, costituisce una caratteristica propria di ogni processo, anche di quello più celere.
Lo studioso sa bene che la funzione di interpretazione delle leggi è tipica del giurista (giudice o avvocato); e che la (relativa) pluralità degli orientamenti giurisprudenziali costituisce una caratteristica peculiare, e preziosa, del processo.
A meno che non si voglia ipotizzare un modello di processo nel quale il risultato è predeterminato e la decisione è nota in anticipo.
Ma se questo fosse il pensiero degli autori, credo, e temo, che essi finirebbero con l’avere troppa ragione.
E allora, più che una roulette russa, il processo sarebbe un juke-box.

LA RISPOSTA A PIERO MARTELLO

Ringraziamo il Dr. Martello per il suo gradito commento che consente di continuare il dialogo su una questione di grande rilevanza.
Riconosciamo che i nostri dati non sono recenti, ma hanno il vantaggio di consentire la misurazione della durata totale effettiva di tutti i processi iscritti a ruolo in un dato periodo, fino alla loro completa conclusione. La considerazione di cause recenti generalmente non consente questa possibilità.
In ogni caso, ciò che invita ad una riflessione nei nostri risultati non è tanto la durata media dei processi, quanto la variabilità di durate e di orientamenti decisionali tra i giudici di una stessa sede, posti di fronte a fattispecie statisticamente simili. Il dato medio riportato dal Dr. Martello, che è indice di miglioramenti davvero notevoli del Tribunale di Milano nel suo complesso, non è però rilevante ai fini del valutare la variabilità al suo interno. Ma se egli volesse darci accesso ai dati recenti del suo tribunale potremmo verificare se la variabilità tra magistrati che noi abbiamo riscontrato nel 2003-2005 permanga ancora, sia per i tempi che per gli esiti del giudizio.
La nostra ipotesi è che se anche guardassimo ai dati recenti, emergerebbe un variabilità analoga, che non può lasciarci indifferenti  pensando a come è percepita dal cittadino.  Ovviamente, non mettiamo in discussione il metodo dell’assegnazione casuale dei procedimenti ai magistrati di una stessa sede, che costituisce il modo in cui viene applicato, in molti tribunali, l’art. 25 della Costituzione (“Nessuno può essere distolto dal giudice naturale precostituito per legge”) assicurando che non vi sia alcun tipo di correlazione tra il giudice e i casi a lei o lui assegnati. I termini che abbiamo usato a questo proposito (lotteria e roulette russa) non intendono affatto criticare questo metodo di assegnazione e tantomeno si riferiscono ai criteri di giudizio del singolo giudice. Servono solo a sottolineare il dato di fatto della marcatissima aleatorietà che ne deriva sia nei tempi di giudizio sia nei criteri con cui vengono giudicate fattispecie statisticamente identiche.
La pluralità degli orientamenti giurisprudenziali è un valore positivo, quando serve a correggere un orientamento dominante, sostituendolo con un altro orientamento dominante migliore. Ma se – particolarmente nella materia del lavoro – dovesse risultare che la pluralità degli orientamenti giurisprudenziali è il puro e semplice effetto, stabile nel tempo, dell’orientamento pro-business o pro-labor di ciascun singolo magistrato, allora occorrerebbe chiedersi se non esistano tecniche normative migliori per proteggere la sicurezza economica e professionale dei lavoratori.
Al cittadino interessa l’effetto reale delle norme, non l’effetto che, nelle intenzioni del legislatore, dovrebbero avere. Il nostro articolo voleva solo sollevare un dubbio. Ossia che l’attuale disciplina generi risultati troppo aleatori per essere accettabili, proprio in considerazione del rango costituzionale degli interessi in gioco. Abbiamo provato semplicemente a “dissotterare” il problema, perché se ne possa discutere con piena cognizione di causa. E anche con quella attenzione alla trasparenza sui dati che costituisce un principio fondamentale di democrazia oggi sancito e precisato dalla legge n. 15/2009 e dall’art. 14 del Collegato-Lavoro 2010.
Proprio per questo consideriamo estremamente positivo il fatto che, per la prima volta nel nostro Paese, gli uffici giudiziari dei tre più importanti Tribunali italiani abbiano applicato integralmente questo principio, consentendo concretamente la ricerca di cui stiamo discutendo e, in particolare a Roma, sperimentazioni innovative finalizzate ad analizzare e risolvere questi problemi. Auspichiamo che questo esempio sia seguito da tutti gli altri uffici giudiziari, perché l’indispensabile e urgente perseguimento della maggiore efficienza della giustizia in Italia, a cui in primo luogo i magistrati tengono, passa anche attraverso questa scelta.

ARTICOLO 18: C’È UNA SOLA STRADA

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LA RISPOSTA DEGLI AUTORI

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VALORIZZARE LE DONNE CONVIENE*

Le principali “rivoluzioni silenziose” che la società deve fare perché ci sia una parità reale tra donne e uomini: quella dell’istruzione -in Italia quasi compiuta- quella del lavoro femminile -ancora ampiamente irrealizzata- quella dei carichi familiari -“tradita” dagli uomini”- e quella della presenza nella politica -timidamente incominciata. Il nostro paese, dunque, è indietro, soprattutto se raffrontato agli altri paesi europei. Ecco che cosa deve fare la politica per aiutare a colmare la differenza.

I MINI CAMBIAMENTI NELLE PROFESSIONI

I provvedimenti sui servizi professionali erano piuttosto deboli nel testo originale del decreto “cresci Italia” e non cambiano molto dopo il passaggio al Senato. Resta l’abolizione delle tariffe minime, ma gli ordini sembrano aver già trovato un grimaldello per aggirarla. Cancellato invece l’obbligo di fornire un preventivo al cliente. Il concorso notarile è previsto con cadenza annuale, ma senza indicazione del numero di posti da mettere a bando. Per rendere il sistema più concorrenziale, bisogna però cambiare gli ordini. E gli esami di abilitazione alla professione.

PICCOLO CONTRIBUTO ALLA SPENDING REVIEW

Da anni si parla di spending review, di analisi minuziosa di ogni capitolo di spesa, volta ad accertare e rimuovere sprechi di denaro pubblico, ma sin qui nulla è dato sapere sulle modalità e sui primi esiti di questo processo. Dovrebbe riguardare non solo l’amministrazione centrale dello Stato, ma anche le amministrazioni pubbliche soggette alla vigilanza dei ministeri. Il principio dovrebbe essere quello di identificare spese che non contribuiscono a raggiungere gli obiettivi che sono stati affidati alle diverse amministrazioni o che li raggiungono solo a fronte di spese molto più alte del necessario. La legge che istituisce le spending review richiede espressamente il contributo dei cittadini e degli esperti nell’identificare questi sprechi.
Ecco allora un nostro primo modesto contributo. Girando tra i siti delle amministrazioni pubbliche abbiamo trovato all’indirizzo un “programma di sostegno a progetti sperimentali ed innovativi” della Civit, la Commissione di valutazione della pubblica amministrazione istituita dal ministro Brunetta e affidata ad Antonio Martone. Il costo del programma è di 4,3 milioni di euro. La Civit, come recita il suo stesso nome, ha come finalità istituzionale quella di garantire la valutazione, la trasparenza e l’integrità delle amministrazioni pubbliche. Non sappiamo chi abbia valutato questo progetto prima di approvarlo. Sappiamo solo che stanzia 800.000 euro per realizzare il “portale della trasparenza”, 470.000 euro per “l’individuazione di metodologie di misurazione e valutazione adottate dalle pubbliche amministrazioni”, 400.000 euro per la “ricognizione degli strumenti di programmazione, controllo e rendicontazione della performance”, 400.000 euro per “la sperimentazione di un progetto per la misurazione e valutazione dell’apporto di ciascuno all’outcome”, e così via, con una serie di sottoprogetti che essenzialmente ripetono tutti la stessa cosa ma spezzano i 4,3 milioni in importi più piccoli.
Qualcosa ci sfugge. Non sono proprio questi i compiti istituzionali della Civit? E allora perché è necessario valutarli sperimentalmente impegnando una mole così ingente di risorse? Dato che questo progetto prevede anche “lo snellimento dei processi organizzativi al fine di ridurne gli sprechi”, vogliamo noi fornire il nostro “apporto all’outcome”: aboliamo questo progetto. E ragioniamo sul significato di un organismo come la Civit che costa ogni anno 8 milioni di euro alle casse dello Stato per sperimentare come valutare sperimentalmente la valutazione. Di se stessa.

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