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CASSE PIENE. DI RISCHI

Le casse di previdenza di diverse categorie professionali sono in sofferenza per l’esposizione eccessiva verso titoli strutturati. Ma come è potuto accedere? Spesso le casse previdenziali non hanno le competenze finanziarie adeguate e si rivolgono a consulenti in conflitto di interesse e interessati più al rendimento che al rischio connesso ai titoli nei quali investono. Anche in Italia dovrebbe crescere il ricorso a servizi indipendenti di risk advisory. Fondamentale che l’advisor per il rischio sia del tutto indipendente dall’advisor per la gestione di portafoglio.

UNA SOLUZIONE INUTILE PER UN PROBLEMA VERO

Il dibattito sul valore legale della laurea si focalizza su un falso problema: in tutti i paesi vi sono forme di garanzia della qualità dei titoli di studio. Il vero nodo da affrontare è quello della differenziazione istituzionale, seguendo esempi del mondo anglosassone e dell’Europa continentale. Si potrebbe consentire a un gruppo ristretto di università, valutate in modo trasparente di alta qualità, di poter scegliere gli studenti. Una strategia che richiede finanziamenti per garantire ai bisognosi ma meritevoli la possibilità di iscriversi ai corsi di laurea selettivi.

LA RISPOSTA AI COMMENTI

I commenti critici alla mia proposta di abolizione del valore legale si concentrano su tre argomenti principali. Pesare le Università comporterebbe: 1) privilegiare la qualificazione universitaria rispetto alla qualità delle persone; b) creare (costose) università di élite; 3) pregiudicare gli studenti che per ragioni economiche possono permettersi solo università di ‘serie B’, ma ‘vicino a casa’.
Tutte queste critiche pongono problemi importanti a cui è necessario cercare di dare una risposta.

La qualificazione dell’Università viene privilegiata rispetto alla qualità delle persone

Diversi lettori hanno rilevato che tener conto, nei concorsi pubblici, del ranking delle università di provenienza comporta, in sostanza, valutare più le qualifiche dell’Università frequentata che la qualità reale dei candidati. Credo anch’io che questo sia un rischio che occorra scongiurare, ma non mi pare che, col metodo proposto, esso sia reale. Infatti, come affermato nell’articolo, il peso dell’Università di provenienza è solo uno dei parametri da prendere in considerazione e la prova concorsuale/attitudinale deve essere mantenuta e, se possibile, valorizzata. Ad esempio una valutazione concorsuale potrebbe essere articolata in questo modo: 10-20% del punteggio derivante dal ranking dell’università; 10% derivante dal voto di laurea; 10% da altri titoli/esperienze; 60-70% derivante dalla prova di ammissione. In tal modo, l’80-90% dell’esito deriverebbe da una valutazione diretta delle qualità del candidato e solo 10-20 % discenderebbe indirettamente dal ranking dell’Università da questi frequentata.
Per altro verso, sussistono controindicazioni importanti alla tesi che solo la prova concorsuale/attitudinale debba contare. In tal modo, come già rilevato nell’articolo, l’esito può essere condizionato da elementi fortuiti, colposi o addirittura dolosi. Nel caso in cui il concorso pubblico fosse vinto dal medico laureato con 90 all’Università di Vattelapesca piuttosto che da quello laureato con lode all’Università di Harvard, non avreste il dubbio che la prova concorsuale/attitudinale sia stata, diciamo così, ‘calibrata’ sul vincitore? Non sarebbe stato bene, in tale situazione, far pesare anche il ranking dell’Università di provenienza?

Il rischio di creazione di università di élite e lievitazione delle rette universitarie  

In particolare Lorenzo Zamponi, in un articolo su ‘il Corsaro’, afferma che eliminare il valore legale del titolo di studio comporta necessariamente un processo di creazione di università di élite, le quali, per coprire l’inevitabile aumento dei costi, dovranno beneficiare di una liberalizzazione delle rette universitarie.
Sulla creazione di una élite di Università mi pare che valgano due osservazioni. In primo luogo, già esistono in Italia università di serie A e università di serie B e, mentre si vedono bene i difetti della loro artificiosa parificazione, non si comprende qual è l’utilità di far finta del contrario. In secondo luogo, l’alternativa realistica alla creazione di un gruppo ristretto di università di serie A non è il generale incremento del livello qualitativo di tutte le università italiane, bensì il generale affossamento di tutte quante verso la serie B. Questo livellamento verso il basso è anzi in gran parte già avvenuto. Il risultato è, e sarà sempre più, che l’Italia non possiederà alcuna università competitiva a livello internazionale e gli studenti italiani, per ottenere qualificazioni spendibili sui mercati mondiali, dovranno necessariamente iscriversi all’estero.
Quanto all’incremento delle rette, la proposta di pesare le Università non implica affatto un tale incremento, proprio per non pregiudicare gli studenti meno abbienti. Le Università di serie A potrebbero affrontare i maggiori costi sia beneficiando delle risorse derivanti dall’incremento delle iscrizioni, sia ottenendo la percentuale di FFO che la legge già riserva agli atenei migliori, sia infine della partecipazione ai programmi nazionali e internazionali di ricerca.

Pregiudizio economico degli studenti che, per frequentare una università di serie A, devono allontanarsi da casa

Da molti commenti emerge il timore che, per frequentare una Università di serie A, occorrerà l’allontanamento dalla propria città, con il conseguente lievitare dei costi dell’istruzione.
Il rilievo merita attenzione perché comporta una riflessione sul senso della formazione universitaria.
Il timore evidenziato segnala che l’istruzione universitaria è intesa sostanzialmente come un mezzo per conseguire un titolo mediante il quale ottenere un lavoro, a prescindere dalla formazione raggiunta. Non è importante che l’università sia formativa, l’importante è che sia ‘vicino a casa’, poco costosa e rilasci un ‘pezzo di carta’ di valore legale. Si tratta di una visione comprensibile, ma di stampo privatistico e elusiva dell’interesse pubblico. Diversamente, la formazione universitaria dovrebbe perseguire principalmente l’obiettivo di fornire una preparazione adeguata alle diverse professioni, in modo che la collettività intera benefici di questa formazione e la ripaghi della spesa pubblica sostenuta a tale fine. Quando ci si reca in un ospedale, l’interesse comune è che il medico che ci visita abbia ricevuto la migliore istruzione possibile, non che abbia frequentato una università ‘vicino a casa’, spendendo poco (questo è il suo interesse privato).
Certo, il problema del garantire l’accesso alla formazione universitaria agli studenti capaci e meritevoli ma privi dei mezzi economici necessari non va eluso. Tuttavia esso va risolto, non mediante l’attribuzione artificiosa di un valore alla laurea dell’università ‘vicino a casa’, bensì mediante il sostegno economico dello Stato a tali studenti. Proprio come recita la nostra Costituzione.

LA DOMANDA PER L’AGENDA DIGITALE

Il governo ha annunciato una cabina di regia per attuare l’Agenda digitale italiana. È un passo importante, dati i ritardi del nostro paese su banda larga, alfabetizzazione informatica, digitalizzazione dei servizi. Ma un efficace intervento pubblico deve impegnare risorse non solo sul lato dell’offerta, ma anche su quello della domanda, assicurando il coordinamento tra le due politiche. Sono misure efficaci tanto nel promuovere l’accesso alle reti esistenti quanto nel facilitare la migrazione degli utenti verso le reti di nuova generazione.

L’INVALIDITÀ E LA FABBRICA DELLE DOMANDE

Alla farraginosità e lunghezza della procedura per il riconoscimento dell’invalidità non contribuiscono solo i falsi invalidi, ma anche tutte quelle persone che presentano domanda senza averne i requisiti. I presunti invalidi non ottengono l’assegno dell’Inps, ma costano tempo e risorse amministrative nell’iter di verifica, a scapito di coloro che sono realmente bisognosi. Accade perché alcuni attori del sistema hanno incentivi a proporre comunque la domanda di invalidità. Primi fra tutti, i medici di famiglia e i patronati. Ed è lì che bisognerebbe agire.

TASSARE IL CIBO SPAZZATURA?

Il ministro della Salute ha allo studio una tassa sul cibo spazzatura. Misure di questo tipo riducono il consumo di bibite zuccherate, anche se gli effetti sui rischi di sovrappeso e obesità sono difficili da quantificare. Funzionano meglio se accompagnate da una pluralità di interventi da realizzare in primo luogo nelle scuole e con il coinvolgimento dei genitori. Il rischio è che la eventuale tassa sia utilizzata più per fare cassa che per promuovere comportamenti alimentari sani. E le strutture sanitarie dovrebbero dare il buon esempio.

SE ALL’UNIVERSITÀ MANCA PROFUMO DI SELEZIONE

Il Consiglio dei ministri, su proposta del Ministro Profumo ha nominato Raffaele Liberali, capo di dipartimento per l’università e la ricerca. Il dottor Liberali dirige la Direzione K (Energia) presso la direzione generale per la ricerca e l’innovazione della Commissione europea. Andrà in pensione dalla Commissione prima di assumere il nuovo incarico.
Il nuovo capo del dipartimento avrà responsabilità centrali per l’attuazione della nuova legge universitaria: in particolare da lui dipenderanno i rapporti fra il ministero e l’Anvur. Con quale criterio è stato scelto? Quale è il gruppo di riferimento all’interno del quale il dottor Liberali è emerso come il candidato più adatto?
Ci saremmo aspettati che il governo Monti innovasse anche nelle procedure per la nomina degli alti funzionari dello Stato. La stessa Commissione europea e la Bce sempre più spesso effettuano le loro nomine al termine di una procedura pubblica in cui la posizione aperta è annunciata su mezzi di informazione, ad esempio l’Economist, e dà luogo ad una short list di candidati che vengono intervistati prima della decisone finale. La scelta del nuovo direttore generale del Tesoro offre al governo l’occasione per adottare standard europei in queste nomine.

UN BUONO PER L’ACQUA

Le reti idriche italiane andrebbero rinnovate e completate, anche per rispettare direttive europee vecchie di venti anni. Mancano i soldi, soprattutto dopo un referendum che impedisce la remunerazione del capitale in tariffa. Difficile pensare che le risorse possano arrivare dalla fiscalità generale. La soluzione è allora una tassa di scopo, da utilizzare per costituire un fondo comune cui le gestioni potrebbero ricorrere a turno. Il ricorso al mercato è comunque inevitabile e il fondo potrebbe anche emettere bond. Evitando così che siano le singole aziende a farlo.

IL RATING NELLA REGOLAMENTAZIONE

Nell’articolo sulle agenzie di rating ho richiamato i problemi derivanti dalla rilevanza che i rating assumono nella regolamentazione. Si parla, infatti di outsorcing regolamentare per indicare la presenza di riferimenti alle classificazioni delle agenzie nelle stesse prescrizioni di vigilanza e nelle regole che si danno gli investitori. È evidente che questo fenomeno, se da un lato moltiplica alla potenza gli effetti di un miglioramento o di un peggioramento dei giudizi, dall’altro costituisce un elemento frenante nella capacità degli operatori di effettuare proprie e autonome valutazioni sui rapporti creditizi e nelle diverse tipologie d’investimento.
In questa scheda riporto due semplici esempi che danno la dimensione del fenomeno ed anche la direzione che occorrerà prendere per seguire le indicazioni del Financial stabilty board alle quali mi riferivo.
Secondo le disposizioni di vigilanza prudenziale per le banche, queste come è noto, possono avvalersi, al fine di ponderare i rischi, o di metodi elaborati al proprio interno, o di metodologie esterne utilizzando la valutazione del merito  di credito delle Ecai e cioè le Esternal credit assesment institution,  agenzie di valutazione riconosciute dalla Banca d’Italia. Secondo le disposizioni di vigilanza ”una banca che decide di utilizzare le valutazioni di merito del credito per una certa classe di esposizione deve utilizzarle per tutte le esposizioni appartenenti a tale classe”. Naturalmente sono spesso le banche di più piccole dimensioni a utilizzare i metodi esterni, meno costosi rispetto alla costruzione di un modello interno, ma in questo modo proprio gli operatori più piccoli finiscono con il subire in misura maggiore le conseguenze dei mutamenti dei giudizi delle agenzie. E occorre considerare che le disposizioni di vigilanza trovano origine in un periodo dove nessuno poteva immaginare una così forte volatilità dei mercati.
Un altro esempio dei pericoli del rating, per un settore completamente diverso ma che ci dice della “trasversalità” del problema, riguarda i fondi pensione. Sul sito della Covip è stata appena pubblicata una comunicazione in risposta alla richiesta di alcuni fondi che nei propri regolamenti prevedono una politica d’investimento con un livello minimo di rating, e che adesso -visto quello che sta succedendo sui titoli pubblici- devono affrontare il dilemma o di violare i regolamenti o di procedere a massicce dismissioni. E l’autorità di vigilanza, con un linguaggio diverso, giunge sostanzialmente alle mie stesse conclusioni, richiamando l’opportunità di “rivedere i vincoli contrattuali per evitare che un impiego automatico del rating possa comportare l’esigenza di un immediato smobilizzo o impedire l’acquisto di titoli ove intervenga il declassamento dell’emittente”. In altri termini anche per la Covip bisogna cominciare a pensare con la propria testa.

DOVE PORTA LA RIVOLUZIONE DEL MERITO

Il governo Monti ha in agenda un capitolo delicatissimo, quello della riforma dell’università. Se realizzato, il progetto produrrà esiti davvero radicali. Ne spiegava il significato Pietro Manzini su questo sito. Il senso della riforma è essenzialmente uno: l’eliminazione del valore legale del titolo di studio.

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