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UNA BOMBA SUL FEDERALISMO FISCALE

Il percorso di attuazione del federalismo fiscale sbatte contro il muro del centralismo, vale a dire dei modi in cui è stata decisa la manovra di aggiustamento dei conti pubblici varata dal Governo. Nessun coinvolgimento delle Regioni e degli enti locali. E, invece, un’imposizione di tagli di spesa che costringe le autonomie a una stretta finanziaria molto penosa.

LA DISCONTINUITÀ PUÒ ATTENDERE

Nel giorno dell’appello di industriali, sindacati e banche a favore di un segnale di discontinuità nella politica economica italiana è passata in secondo piano un’altra notizia. Ieri il consiglio di amministrazione della Cassa depositi e prestiti ha approvato la creazione della Società per le partecipazioni “strategiche”. Sarà una spa con un capitale di 1 miliardo di euro con l’obiettivo di investire in quote di minoranza di imprese operanti in settori “di rilevante interesse nazionale”, quali la difesa, la sicurezza, l’energia, ecc. L’obiettivo è creare valore attraverso una maggiore efficienza e l’aumento di competitività. La Cassa depositi e prestiti specifica che “i requisiti fondamentali delle imprese target sono una situazione di equilibrio economico-finanziario, adeguate prospettive di redditività e significative prospettive di sviluppo”. Resta solo un dubbio: ma se una società ha i conti in ordine adesso e ha ragionevoli prospettive di crescita e di reddito, perché non dovrebbe riuscire a trovare capitali sul mercato? Perché gli investitori privati non dovrebbero finanziare tali imprese? Qual è il fallimento del mercato che sta operando? In che modo questa società riuscirà ad aumentare l’efficienza delle partecipate e la loro competitività? Nulla di questo si evince dal comunicato della Cdp. Tenendo conto che nell’aprile scorso si pensava di usare questo fondo per “salvare” Parmalat dall’Opa di Lactalis, c’è da pensare che questo sarà l’ennesimo strumento per buttare soldi pubblici in operazioni dissennate dal punto di vista economico e selezionate solo in base a criteri politici. Insomma, un’altra delle tante operazioni che hanno caratterizzato la politica economica nella prima e nella seconda Repubblica. Dopo questa fondamentale operazione, tutti in vacanza. La discontinuità può attendere.

PROCESSI CIVILI PIÙ VELOCI? APPLICHIAMO LE NORME ESISTENTI

Nelle sue ultime Considerazioni finali il Governatore della Banca d’Italia Mario Draghi ha denunciato ancora una volta, semmai ce ne fosse bisogno, i costi che lÂ’inefficienza della giustizia civile comporta per il nostro paese, penalizzato in primo luogo sotto il profilo della dimensione media e della competitività delle sue imprese.
Si è così riaccesa l’attenzione su alcune proposte da tempo sul tavolo.

LA TARIFFA DEGLI AVVOCATI

Tra le varie proposte, senz’altro interessante è quella di Daniela Marchesi, che prevede di intervenire sulla tariffa professionale degli avvocati, oggi remunerati a prestazione, in mancanza di preventivo diverso accordo tra le parti. Ciò – si dice sostanzialmente – creerebbe in capo agli avvocati un duplice perverso incentivo, a moltiplicare le attività difensive e a non coltivare con convinzione ipotesi di conciliazione volte a prevenire o a concludere in fretta le liti.
L’intervento sulla tariffa forense, si argomenta, sarebbe “il modo più neutro ed efficace di premiare i comportamenti virtuosi”, come provano l’esperienza tedesca e quella dei processi del lavoro in cui il patrocinio è a cura dei sindacati, che per prassi stipulano per i loro legali compensi a forfait. In alternativa, sarebbe necessario “ridurre l’ampio livello di garanzie che il nostro sistema offre a chi va in giudizio”, incidendo sugli incentivi dei magistrati, “che così diverrebbero i veri dominus del processo”.
La proposta ha il merito innegabile di intervenire in modo pragmatico e puntuale in un dibattito spesso viziato da opzioni ideologiche non sempre supportate da analisi adeguate. Ha inoltre il pregio di non richiedere esborsi aggiuntivi per le casse dello Stato. Rischia però di comportare un costo politico molto elevato, passibile com’è di suscitare la decisa reazione della classe forense, che si vedrebbe oltretutto implicitamente accusata di essere “colpevole” delle lentezze della giustizia.

IL DOMINUS DEL PROCESSO

Soprattutto, rischia di risultare inefficace se non accompagnata e anzi preceduta da misure che sono peraltro di adozione molto più semplice e immediata. Il fatto è che nel nostro processo civile i magistrati sono già i “veri dominus” del processo. O meglio dovrebbero esserlo.
Le norme vigenti attribuiscono alle parti (e ai loro avvocati) la semplice facoltà di chiedere, non certo il diritto di determinare, iter processuale, quantità e tipologia delle attività istruttorie da svolgere e degli atti difensivi scritti da depositare, calendario delle udienze, tutte scelte che sono lasciate alla valutazione discrezionale del giudice.
Esaminiamo infatti che cosa accade nel processo di cognizione ordinario.
Salvo che nella fase iniziale, quando il giudice ha l’obbligo (se richiesto dalle parti) di disporre lo scambio di un numero prefissato di memorie, è lui che dovrebbe valutare quali e quante udienze siano necessarie, verificare l’effettiva utilità delle attività istruttorie chieste dalle parti, presiedere alla loro acquisizione con modalità prefissate dalla legge per evitare lungaggini, acconsentire agli eventuali rinvii richiestigli solo se ne ravvisa l’opportunità. (1)
La conclusione a mezzo trattazione scritta della causa, attraverso comparse conclusionali e repliche (le prestazioni professionali che dalla tariffa sono remunerate con i compensi più alti), poi, costituisce solo una eventualità, poiché il processo – la scelta spetta sempre al giudice – ben potrebbe concludersi con una semplice discussione orale, da svolgersi immediatamente al termine dell’istruttoria, discussione che anzi dovrebbe essere la norma nei casi, largamente maggioritari, in cui non è necessario esaminare sofisticate questioni di diritto o complessi materiali probatori. (2)
Il codice infine affida da sempre al giudice leve potenzialmente molto incisive per sanzionare l’abuso dello strumento processuale, non solo attribuendogli il compito di condannare al rimborso delle spese di giudizio la parte soccombente, ma anche consentendogli di condannare al risarcimento dei danni arrecati alla controparte chi ha proposto l’azione o vi ha resistito con malafede, sebbene il loro utilizzo sia stato storicamente così timido e inefficace che recentemente è stato necessario rafforzarne la forza deterrente. (3)
Ed è sempre il giudice a poter svolgere in ogni momento un tentativo di conciliazione obbligatorio, che – ove non vissuto come una mera formalità – potrebbe avere un rilevante effetto deflattivo.

TRIBUNALI ESEMPLARI

Il problema è che il diritto vivente ha visto sinora una progressiva disapplicazione di molte delle norme ora ricordate, via via svuotate del loro spirito originario. Le ragioni sono molte, ma una di esse è certamente l’insufficiente attenzione generalmente posta dall’amministrazione della giustizia ad aspetti di efficienza gestionale e di corretto disegno degli incentivi a chi ha effettivamente in mano le leve del processo civile, che continua a essere il giudice.
Non a caso, nelle sedi giudiziarie in cui – per iniziativa dei singoli presidenti di tribunale – ci si è concentrati sulla corretta ed efficace applicazione della legge con interventi di micro organizzazione, si sono ottenuti risultati tangibili in termini di diminuzione della durata media dei processi e di smaltimento dell’arretrato. (4) Su questo punto, che già si è evidenziato in passato e su cui sono tornati Decio Coviello, Andrea Ichino e Nicola Persico, la cronaca anche in questi giorni registra un fiorire di prassi virtuose a livello locale, che tuttavia non trovano il riscontro che meritano da parte del ministero della Giustizia. (5)
A fronte di tutto ciò, non esiste nessuna prova che la rimodulazione della tariffa forense, tra l’altro ormai di applicazione residuale, possa avere effetti concreti. (6) Tralasciando quanto avviene in Germania, si deve osservare che l’esempio di quanto avviene nelle sezioni lavoro non è decisivo, ma potrebbe anzi essere la prova del contrario, posto che là è la legge – che come visto nel rito ordinario consente al giudice ampia discrezionalità nell’accogliere le richieste delle parti – a imporre un procedimento molto più scarno, e d’altra parte in quella sede la maggiore specializzazione di ciascun attore e l’uniformità delle questioni che vi vengono trattate forniscono alle parti indicazioni chiare sul possibile esito della causa sin dalle prime battute, incentivando concretamente la ricerca di soluzioni concordate alle controversie.
Insomma, molto si può fare non solo senza chiedere un centesimo ai cittadini, ma anche godendo dei risultati di soluzioni già sperimentate a livello locale. Generalizzate queste a livello nazionale, ben vengano poi misure che ne rafforzino l’impatto, come la revisione delle tariffe legali.

(1) Sulle memorie si veda il disposto dell’art. 183, comma 6, cpc. Per il resto, spetta al giudice valutare se i mezzi di prova richiesti dalle parti siano “ammissibili e rilevanti” (art. 183, comma 6, cpc); in ogni momento il giudice può sospendere l’istruttoria e invitare le parti alla discussione finale, se ritiene che la causa sia matura per la decisione (art. 187, comma 1, e 281-sexies cpc); per limitarsi alla prova orale, il giudice deve ammettere la relativa testimonianza se richiesta dalla parte “mediante indicazione specifica delle persone da interrogare e dei fatti, formulati in articoli separati, sui quali ciascuna di esse deve essere interrogata” (art. 244 cpc); il giudice deve poi limitarsi a chiedere al teste se sia vera o meno la circostanza di fatto che questi è chiamato a confermare (art. 253 cpc), impedendogli divagazioni e valutazioni personali. Il rinvio dell’udienza per consentire, ad esempio, che si coltivi un’ipotesi conciliativa è una mera facoltà del giudice, quand’anche gli sia richiesta concordemente dalle parti, neppure contemplata dal codice di rito, che consente la sola “sospensione su istanza delle parti” (art. 296); anche in questo caso spetta al giudice valutare se sussistono “giustificati motivi” per accettare la richiesta.
(2) Si veda il già citato art. 281-sexies cpc.
(3) Si vedano rispettivamente gli articoli 91 e 92 per la prima ipotesi, 96 cpc per la seconda. Per le modifiche apportate il riferimento è agli articoli 91, 92 e 96 cpc dalla legge 69/2009.
(4) Il case study continua a essere quello del Tribunale di Torino.
(5) Rispettivamente, Decio Coviello, Andrea Ichino e Nicola Persico “Giudici in affanno”, 2009. E L. Mancini, “Il processo? Lo accorcia il Tribunale”, Il Sole 24 Ore, 14/6/2011, p. 21, dove si dà conto della “creatività” delle singole sedi giudiziarie nell’ideare e implementare prassi virtuose, che tuttavia faticano a trovare supporto da parte dell’autorità responsabile della funzionalità della “macchina giudiziaria”, il ministero della Giustizia.
(6) Sin dal 2006 è venuto meno il valore vincolante della tariffa; trova oggi applicazione solo ove cliente e avvocato non abbiano pattuito il corrispettivo preventivamente.

TEST D’INGRESSO A MEDICINA, SPRECO DI CAPITALE UMANO

A Trieste e Udine e a Roma verrà sperimentato a settembre un nuovo meccanismo per l’ammissione ai corsi di laurea in Medicina e chirurgia. Ma l’unica vera differenza con il vecchio sistema è che si potrà sostenere il test in una università e fare domanda di ammissione in un’altra sede. Non risolve il problema degli studenti respinti in una sede, ma con un punteggio che permetterebbe l’iscrizione in un ateneo diverso. L’introduzione di un test unico per Medicina e Odontoiatria, poi, potrebbe addirittura peggiorare un sistema che già ora non brilla per efficienza.

ABOLIRE LE PROVINCE? SI RISPARMIA POCO

Le province spendono circa 12 miliardi di euro all’anno, ma 6 miliardi non sono facilmente comprimibili perché si tratta di rimborsi di prestiti e spese per manutenzione del patrimonio immobiliare. Anche da una sua eventuale dismissione non si otterrebbe molto, a meno di non pensare di vendere edifici scolastici e strade. Quanto al personale, spesso proviene da altre amministrazioni ed è chiamato a svolgere le nuove funzioni attribuite dalle leggi Bassanini. Insomma, al massimo si possono risparmiare 2 miliardi l’anno.

LO SPETTRO DEL 1992

Si dice che la sfiducia espressa dai mercati nei riguardi dell’Italia la scorsa settimana sia dovuta al dissesto delle finanze pubbliche e alla debolezza del governo. Che però sono un tratto costante del nostro paese. Quello che è cambiato, invece, è il saldo delle partite correnti della bilancia dei pagamenti. Peggiorato di circa un punto di Pil dal 2006, proprio come era avvenuto negli anni precedenti la crisi del 1992. Se la causa del nervosismo dei mercati è almeno in parte il debito estero, l’approvazione della manovra difficilmente chiuderà la partita. 

TAV TORINO-LIONE: COME DIMOSTRARE L’INDIMOSTRABILE

Un’analisi costi-benefici sulla linea ferroviaria Torino-Lione riesce a dimostrare la redditività dell’opera. Un risultato sorprendente considerati i costi altimissimi e lo scarso traffico. Lo si ottiene però sorvolando su alcune prescrizioni previste dalle migliori prassi internazionali e senza considerare per esempio l’impatto ambientale del cantiere. Mentre le previsioni di domanda sono eccessivamente ottimistiche. Ciononostante la redditività è marginale e basterebbe abbassare una delle tante sovrastime per rendere non fattibile il progetto.

LE SPERANZE DELUSE DEL MATTARELLUM

La crisi di credibilità in cui è sprofondata l’Italia, in larga parte per l’inconcludenza della sua classe politica, ha rimesso al centro del dibattito la legge elettorale. Ma bastano nuove norme che regolano l’elezione dei parlamentari a garantire una soluzione ai problemi istituzionali dell’Italia e a migliorare la qualità dei suoi politici? Uno studio sugli effetti della legge Mattarella, approvata nel 1993, un periodo che ha molte analogie con quello attuale, suggerisce di non farsi troppe illusioni.

SÌ AI TICKET, MA CON DIVERSO TRATTAMENTO FISCALE

Dei due ticket introdotti con la  manovra di metà luglio, quello  di 25 euro sull’uso inappropriato del pronto soccorso è stato ampiamente accettato ma quello di 10 euro per la ricetta  con prescrizioni specialistiche (visite mediche, esami di laboratorio, diagnostica per immagini, terapie riabilitative, eccetera) è stato ampiamente contestato. Non solo iniquo ma anche irrazionale, ha scritto su queste colonne Nerina Dirindin ( 19.07). Esso, infatti,   devia dalla struttura pubblica molti esami a basso costo e profittevoli, rendendo conveniente effettuarli  presso presidi privati senza ricetta. In effetti, varie regioni  stanno cercando di evitare o di modulare diversamente tale ticket.
Ma questo mossa avventata del governo non deve ingannare sulla  necessità di affrontare con realismo il tema generale del ticket in sanità, data la prospettiva di una crescita  della spesa cui il finanziamento pubblico, bloccato dalla necessità di azzerare  il deficit ed abbassare il debito, non riesce a far fronte. Del resto, è doveroso ricordare che una stretta molto dura sulla sanità venne introdotta  anche dal Governo Prodi nella seconda metà degli anni Novanta, ai tempi della rapida riduzione del deficit per entrare nell’eurozona. Orbene, in termini generali siamo tra coloro che  giudicano positivamente il ticket, ma  chiediamo  che ne sia distribuito   meglio l’onere attraverso una nuova configurazione del rapporto tra ticket e fiscalità.

 PRO E CONTRO IL TICKET

 Per giustificare tale tesi, richiamiamo i termini del dibattito. Innumerevoli le critiche al ticket: non riduce la domanda, perché le ricette le stila il medico, non il paziente; è regressivo, colpendo relativamente di più il povero del ricco; è dannoso per la salute, perché scoraggia il ricorso a cure tempestive; è negativo per la stessa finanza pubblica perché la mancata cura genera cure tardive più costose; è insensato sul piano gestionale perché comporta costi di esazione quasi pari al gettito.
La tesi a favore del ticket sostiene che tali affermazioni non hanno validità universale, ma dipendono dal reddito medio, dall’istruzione e dall’organizzazione sanitaria; e di fatto non sono vere nel concreto contesto della sanità nei paesi europei che al ticket ricorrono sovente. Ma soprattutto va ricordato che da tempo i consumi sanitari nelle società ricche non sono più limitati alle cure necessarie per patologie serie. Alla sanità si ricorre anche nella ricerca della piena efficienza fisica e mentale, con due conseguenze: che una parte significativa della domanda diventa elastica al prezzo e che essa, pur legittima, non è necessariamente più meritevole di tutela di altre domande di servizi pubblici. Allora, di fronte a un grave problema di bilancio pubblico, se non bastano i filtri posti dall’autolimitazione del paziente o dalla saggia parsimonia del medico, e di solito non bastano, diventa inevitabile razionare le cure in altro modo, sperando di tagliare o di inviare alla medicina privata solo la domanda meno importante per la salute. I mezzi sono: restrizione dei servizi garantiti, cattiva qualità dei servizi forniti, lunghe code di attesa, ticket. Il ticket può allora avere dei punti di merito rispetto ad altre soluzioni o almeno essere un legittimo ingrediente di una combinazione di strumenti di razionamento, specialmente se si ritiene che il paziente, aiutato dal medico, sappia distinguere tra esami e cure più o meno rinunciabili. Tanto più che se ne può modulare l’uso, differenziando il ticket per patologie e per livelli di reddito e si può quasi annullare il costo dell’apparato di esazione attraverso l’informatica.

IL TRATTAMENTO FISCALE

 Ciò detto a favore del ticket come opportuno strumento di controllo della domanda, e solo in via subordinata come strumento di finanziamento della sanità, va aggiunto che esso andrebbe diversamente collegato alla fiscalità. Riespongo qui una mia vecchia e inascoltata tesi. (1) Mette al centro il significato dell’intervento pubblico in sanità: evitare che il reddito insufficiente distolga dalle cure necessarie e quindi tutelare l’individuo e la famiglia dagli eventi gravi, non già azzerare o attenuare una spesa sanitaria marginale nell’economia dell’individuo e della famiglia. Saltando per brevità passaggi intermedi e dettagli fiscali, tale approccio porta a configurare un sistema di ticket incisivi e generalizzati, con esenzioni a priori limitate ai casi di povertà e con un conguaglio fiscale in sede Irpef che preveda tre casi: nessuna agevolazione per la spesa annua complessiva inferiore a una prima soglia di incidenza percentuale sul reddito del contribuente; detrazione di una percentuale della spesa dall’imposta per la parte di spesa compresa tra la prima e una seconda soglia; rimborso integrale, di norma sotto forma di credito d’imposta e quindi con rimborso materiale limitato al caso d’incapienza in sede Irpef, per la parte di spesa superiore alla seconda soglia.
Un esempio, immaginando che le soglie siano 1 per cento e 2,2 per cento del reddito e che il contribuente abbia un reddito lordo di 30mila euro. Primo caso, spesa annua per ticket inferiore a 300 euro: tutta a suo carico Secondo caso, spesa di 660 euro: avrebbe l’attuale detrazione del 19 per cento sulla seconda tranche di 360, pagando quindi 592 euro. E questa spesa, pari a circa il 2 per cento del suo reddito, sarebbe il limite massimo, perché spese ulteriori gli sarebbero integralmente rimborsate.
Le soglie andrebbero ovviamente definite dopo attente analisi della distribuzione dei redditi e della domanda di cure. Ma l’esempio fatto fa intuire che, comunque determinate entro confini ragionevoli, ne deriverebbero entrate più significative di quelle attuali e tuttavia con accettabili impatti sotto il profilo dell’equità grazie ai limiti fissati su misura del contribuente. Il sistema proposto  porterebbe anche vantaggi sul piano del controllo fiscale, attirando l’attenzione sulle domande di rimborso e inducendo pertanto a una autocensura dei contribuenti infedeli. Si potrebbe poi pensare di usare la più significativa entrata da ticket anche come mezzo per premiare la diversa produttività degli operatori sanitari, così stimolando a offrire più servizi nell’ambito della sanità pubblica e riducendo il fenomeno delle liste di attesa, che è problema grave sotto il profilo dell’efficacia sanitaria e dell’equità. Ma questo è un tema aggiuntivo su cui converrà tornare.

 (1) G. Muraro,”Il valore dell’equità in campo sanitario nelle società contemporanee”, in G. Costa e F. Faggian (a cura di), L’equità nella salute in Italia. Rapporto sulle diseguaglianze sociali in sanità, Fondazione Smith Kline, Franco Angeli, 1994, pp.43-56.

OLTRE LA MANOVRA

Nel dibattito pubblico l’attenzione si è concentrata solo sulla manovra del luglio 2011 dimenticando gli effetti di trascinamento dei vari interventi di finanza pubblica precedenti. Una valutazione complessiva dei dati di bilancio indica che le entrate hanno giocato un ruolo importante, ma inferiore al 50 per cento nella riduzione del deficit. E che più che di rinvio della manovra al 2013-14, si dovrebbe parlare di un alleggerimento sul 2012 rispetto al 2011.

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