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Mai dire dimissioni

Al Mondiale sudafricano, nessuno ha ancora vinto, ma molti hanno già perso. Italia e Inghilterra hanno fallito sul campo. La Fifa nel suo arroccamento contro l’introduzione di qualsiasi tecnologia che possa coadiuvare gli arbitri nelle decisioni su situazioni dubbie. E i risultati si sono visti domenica. Eppure, nessuno dei responsabili dei fallimenti si è dimesso. Non lo hanno fatto i vertici della Figc italiana, né Capello che ha sottoscritto un contratto milionario per allenare gli inglesi. Né tanto meno il capo della Federazione internazionale Blatter.

Catricalà, Fini e il futuro dell’Italia

L’Antitrust è la più importante e delicata fra le autorità indipendenti. Per questo la nomina del presidente spetta per legge ai presidenti di Camera e Senato. Sorprende quindi che Antonio Catricalà abbia accettato di abbandonarne la presidenza per trasferirsi alla Consob. Anche perché difficilmente potrà lì adottare il metodo che ha introdotto all’Antitrust. Resta poi il nodo di chi andrà al vertice dell’Autorità garante del mercato e della concorrenza. Gianfranco Fini si è detto convinto della necessità di più concorrenza in Italia. Speriamo che non si smentisca.

I numeri del lavoro

Ieri l’’Istat ha fornito i dati su occupati e disoccupati nel primo trimestre del 2010. La notizia non ha avuto grande risalto sui media nazionali. I principali siti di informazione, i quotidiani e i telegiornali hanno preferito a questa notizia le stime di Confindustria sull’’andamento del Pil nel 2011 (sì, nel 2011, e non nell’’anno in corso). Peccato: ancora una volta si è dato maggior rilievo a previsioni piuttosto che ai dati di consuntivo certificati dall’’istituto ufficiale di statistica.

Un ministro comprensivo

La manovra prevede per i farmaci non più coperti da brevetto la rimborsabilità solo dei quattro prodotti offerti al minor prezzo sulla base di gare organizzate dalle Asl. Le proteste di Farmindustria sono state subito raccolte dal ministro della Salute. Eppure agendo su questo segmento del mercato non si erodono le rendite necessarie a pagare i costi della ricerca. Gli ostacoli alla concorrenza e alle liberalizzazioni non sembrano arrivare dunque dai vincoli imposti dalla Costituzione, ma dall’intreccio tra interessi corporativi e disponibilità della politica ad ascoltarli.

Quando i politici danno una mano alla speculazione

E’ probabile che con le loro pubbliche dimostrazioni di confusione e le loro dichiarazioni volte a rassicurare l’opinione pubblica nazionale, i governi europei abbiano contribuito significativamente alle turbolenze che hanno investito l’eurozona. D’altra parte, sono stati costretti a trovare un accordo e ad approvare misure senza precedenti per salvare l’euro. Se continueranno a mostrare unità di intenti e la seria intenzione di risolvere i fondamentali squilibri nell’area, c’è speranza che i mercati finanziari allentino la morsa.

Per il G20 è l’ora delle scelte

L’idea che si possano introdurre in tutto il mondo regole identiche in un settore così delicato come la finanza, rimane per il momento un’utopia. Ma è presto per parlare di fallimento. Il G20 di Toronto dovrebbe rivedere gli obiettivi sulla base di un maggior pragmatismo. Preoccupandosi in primo luogo di una migliore gestione dei rischi di contagio tra paesi, pur salvaguardando l’allocazione efficiente del capitale globale. Un maggior coordinamento internazionale serve soprattutto per le banche di investimento.

Italia fuori. E Calderoli nel pallone

Nell’ansia di semplificare, il ministro per la Semplificazione Calderoli ha trovato, immediatamente dopo l’eliminazione dell’Italia ai Mondiali di calcio, la diagnosi e la terapia dei problemi delle nostre squadre: troppi stranieri sui campi italiani e pochi giocatori allevati nei vivai nazionali. In realtà l’esperienza italiana e di altri paesi lo smentisce. I veri problemi del calcio italiano, seri e strutturali, sono gli stadi inadeguati e l’eccessiva dipendenza dei ricavi dalla televisione, aggravati da una mancanza di leadership a livello di Lega e Federazione.

La risposta ai commenti

Sul primo punto sollevato da Giorgio Conti e da altri lettori. Ho lavorato per quattro anni come sindacalista della Fiom-Cgil (in una zona della Brianza), poi per altri sei anni alla Camera del Lavoro di Milano, in mezzo agli operai e con una retribuzione pari alla loro. Conosco da vicino la fatica del loro lavoro. In seguito, il mio lavoro è sempre stato di natura intellettuale e non manuale; ma ho sempre lavorato per sette giorni alla settimana e per almeno dieci ore al giorno: ne è prova quello che ho fatto fin qui, e chiunque può controllarlo direttamente sul mio sito e nell’Archivio dei miei scritti. Insomma, so che cosa è il lavoro.
Il dovere dello studioso è dire tutto quello che pensa anche quando questo va controcorrente; e dirlo senza asservirsi ad alcun interesse costituito. Nel caso di Pomigliano ho detto e dico ciò di cui sono convinto: il motivo pregiudiziale addotto dalla Fiom per rifiutare l’accordo è indifendibile. E osservo che quel motivo (pretesa contrarietà alla Costituzione della clausola sui tassi anomali di assenza per malattia e della clausola di tregua) non ha alcuna attinenza con la faticosità dell’organizzazione del lavoro proposta dalla Fiat.
D’altra parte, i diritti dei lavoratori si difendono prima di tutto combattendone gli abusi. Una regola di tutela del lavoratore che si ammala non può avere lunga vita, se essa si presta a essere diffusamente utilizzata per assistere alla partita di calcio; una disposizione che, “chirurgicamente”, impedisce questo abuso mi sembra il modo migliore per difendere la tutela generale dei lavoratori che si ammalano. La stessa disposizione, peraltro, prevede che una apposita commissione esamini i casi in cui c’è l’evidenza di una situazione reale di infermità del lavoratore, nonostante la coincidenza con la partita. Mi sembra, questo, un modo molto ragionevole per far fronte alle anomalie gravi che, su questo terreno, nello stabilimento di Pomigliano si registrano da decenni; qualche cosa, comunque, su cui accettare la discussione, non certo da respingere pregiudizialmente.
Sul secondo punto. La Costituzione attribuisce a ciascun cittadino, oltre al diritto di sciopero, un diritto più fondamentale ancora: una amplissima libertà personale; questo non toglie che, quando il cittadino è anche lavoratore, questa libertà sia legittimamente limitata per quaranta ore alla settimana, né che un contratto collettivo possa disciplinare questa limitazione, regolando il tempo e le modalità del lavoro con effetti direttamente vincolanti per i singoli lavoratori rientranti nel suo campo di applicazione. Non basta, dunque, affermare che la Costituzione prevede il diritto di sciopero, per trarne la conseguenza che il contratto collettivo non possa regolarne modalità e limiti di esercizio. E il riferimento alla legge n. 146 del 1990 lo conferma; perché, se così non fosse, sarebbe incostituzionale la previsione, contenuta in quella legge, di contratti collettivi che regolano modalità e limiti del diritto di sciopero con effetti direttamente vincolanti per i singoli lavoratori, sia pure soltanto in alcuni settori (servizi pubblici) e non in altri. Invece, in vent’anni nessuno ha mai sostenuto che quella legge sia incostituzionale.
“Suicida” per un sindacato serio non è accettare una clausola di tregua rigorosa ed effettivamente vincolante per tutti i lavoratori cui il contratto si applica, ma semmai proprio il suo rifiuto, che priva il sindacato stesso della principale moneta di scambio di cui esso dispone al tavolo negoziale e lo espone al rischio di essere ridicolizzato dai concorrenti opportunisti.
Lo stesso discorso vale anche per rispondere a Stefano Liebman, secondo il quale è “pura mistificazione” far passare per normale la clausola n. 15 dell’’accordo (quella che qualifica come illecito disciplinare la partecipazione individuale a scioperi vietati dalla clausola di tregua). L’articolo 40 della Costituzione stabilisce soltanto che “il diritto di sciopero si esercita nell’ambito delle leggi che lo regolano”; non stabilisce né che la titolarità di questo diritto appartenga al singolo lavoratore piuttosto che al sindacato (questione, peraltro, un po’ “di lana caprina”), né che questa materia non possa essere oggetto della disciplina contenuta nel contratto collettivo, applicabile anche ai singoli lavoratori, come lo sono le materie della retribuzione o dell’orario di lavoro (queste pure oggetto di previsione costituzionale, nell’articolo 36). Che la titolarità del diritto di sciopero appartenga al singolo lavoratore, e che questa materia non possa essere oggetto della disciplina contenuta nel contratto collettivo applicabile anche ai singoli lavoratori, sono due affermazioni nate da una elaborazione dottrinale risalente agli anni ’50 e ’60; elaborazione che è stata messa in crisi dalla legge n. 146/1990, la quale prevede esplicitamente la negoziazione collettiva di limitazioni anche molto drastiche dell’esercizio del diritto di sciopero nel settore dei servizi pubblici, con efficacia diretta anche nei confronti dei singoli lavoratori. E’ vero che a Pomigliano d’Arco si producono automobili e non servizi pubblici; ma diversi giuslavoristi hanno sottolineato come, sul piano logico-sistematico, quella legge del 1990 contraddica la tesi dottrinale secondo cui lo sciopero è un diritto individuale di cui il contratto collettivo non può disporre. A meno che si voglia sostenere che lo sciopero nei servizi pubblici è una fattispecie ontologicamente diversa rispetto allo sciopero nell’industria manifatturiera (ma questo non mi sembra realisticamente sostenibile).
Questo per rispondere all’obiezione strettamente giuridica di Stefano Liebman (al quale consiglierei di usare con maggiore prudenza il termine “mistificazione”). Resta poi il problema di capire se e come un sistema di relazioni industriali degno di questo nome possa reggersi senza la chiave di volta costituita da una clausola di tregua sindacale affidabile: non è un caso che in quasi tutti gli altri Paesi europei quella chiave di volta sia pacificamente riconosciuta e rispettata, anzi rivendicata dai sindacati come propria prerogativa essenziale e garanzia del proprio potere contrattuale. Che in Italia questo sia vietato dall’articolo 40 della Costituzione non mi sembra davvero sostenibile.
A tutti gli altri lettori, che ringrazio dei loro commenti, propongo infine questa considerazione: nel libro “Gomorra” di Roberto Saviano sono descritte le condizioni impressionanti in cui centinaia di migliaia di operai al nero lavorano nei sottoscala e scantinati delle periferie delle città campane, senza vedere il sindacato neanche di lontano, senza malattia pagata, senza diritto di sciopero, senza contributi previdenziali, per nove o dieci ore al giorno, per un salario di 700 o 800 euro al mese. Sono tutte “aziende” che potrebbero essere individuate immediatamente, anche soltanto confrontando i tabulati dei consumi dell’’energia elettrica con quelli dell’’Inps o dell’’Erario: se non lo facciamo, se il sindacato stesso non lo chiede con convinzione, è perché temiamo l’’impatto economico-sociale pesante della chiusura di tutti quei posti di lavoro. Ma, così facendo, accettiamo ormai da decenni delle violazioni gravissime alla legge dello Stato, che consegnano alla gestione della Camorra interi pezzi di società civile; e accettiamo delle “deroghe” al contratto collettivo nazionale infinitamente più rilevanti di quelle proposte a Pomigliano da un imprenditore come la Fiat, cui si potranno imputare durezze e spigolosità, ma che opera pur sempre alla luce del sole e nel rispetto della legge. Ha un senso tutto questo? A me non sembra.

Il boss of rights

Grazie ai militanti della Lega adesso sappiamo davvero cosa è il federalismo in salsa padana. Nei giorni scorsi hanno tempestato di telefonate sedi di partito ed emittenti padane alla ricerca di chiarimenti. I sindaci del Carroccio si sono rifiutati di salire sul palco della festa di Pontida. Come è possibile, si chiedevano molti di loro, che un Governo in cui la Lega conta sempre di più abbia regalato miliardi alla Sicilia spendacciona, abbia salvato dalla bancarotta il Comune di Catania, regalato 300 milioni a quello di Roma in un momento in cui ne taglia 2500 a tutti gli altri, e adesso riduca del 14 per cento i fondi alle Regioni del Nord? Che razza di federalismo, si chiedevano, può di fatto commissariare tutti gli enti territoriali togliendo loro qualsiasi margine di autonomia fiscale, con l’eliminazione dell’Ici e il blocco di tutte le addizionali?
La risposta, un po’ stizzita, è arrivata da Pontida. Umberto Bossi e gli altri leader della Lega ci hanno finalmente chiarito qual è la visione federale del partito. Si regge su quattro pilastri.
Il primo è il folklore. La squadra della Padania ha vinto i campionati mondiali di calcio, ha sottolineato con orgoglio il padre del “Trota”, team manager della rappresentativa. Non sappiamo se al prestigioso Campionato partecipasse la rappresentanza di Bahia, capitanata da Ricardino Kakà. O solo la squadra dell’oratorio di Klagenfurt. Ma l’importante è vincere. Evviva.
Il secondo è l’amore. Come ha sottolineato Bossi, la Lega è amata in tutto il mondo. Per fare un esempio, ha parlato della Svizzera. Lì i banchieri e le mucche, se ci presenta come militanti della Lega, ti accolgono come fratelli. Si hanno tutte le porte (incluse quelle delle cassette di sicurezza?) spalancate.
Il terzo pilastro è l’acqua. Finalmente il Lago Maggiore è tornato in Lombardia, finalmente la regione più ricca ha la sua spiaggia. Ce ne rallegriamo. Potremo finalmente non doverci più portare appresso il passaporto (e in bicicletta appesantisce alquanto la pedalata) quando andiamo a Stresa.
Il quarto è il campanile. Lavori pubblici e servizi sociali solo ai residenti di quel municipio, possibilmente da almeno 10 generazioni. Solo che qui si sa dove si comincia e non dove si finisce. Perché Sulbiate inferiore dovrebbe accettare che anche i residenti di Sulbiate superiore partecipino a un concorso per vigile urbano? E la frazione della frazione di Buccinasco che diritti ha? Inutile spiegare a Bossi & C. che le grandi federazioni, come gli Stati Uniti, si reggono proprio sulla mancanza di ogni discriminazione territoriale tra i cittadini residenti in luoghi diversi. Come tra parentesi, fa anche la nostra Costituzione e il Trattato Europeo. Dal Bill of Rights siamo passati al Boss of Rights.

La via cinese alla rivalutazione

Confermando la volontà di lasciare che la propria valuta si apprezzi gradualmente, la Cina ha fissato il tasso di cambio di riferimento di 6,7980 per un dollaro. Con quali conseguenze per la Cina? Guardando a esperienze simili di altri paesi, si può prevedere che non ci sarà un crollo della crescita. Né si avranno cadute della borsa o maggiori rischi di crisi bancarie. Vedremo probabilmente un rallentamento della crescita. Che comunque può essere evitato con opportune misure a sostegno dei consumi delle famiglie. E se saranno soprattutto i beni importati a beneficiarne, si tratterà del contributo cinese al riequilibrio globale.

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